Home, con Avvertenza Preliminare.
Cap. 31. ↔ Cap. 33.
Per una Storia di Seminara
raccolti
da Antonio Caracciolo
in
memoria del padre Rocco
Volume
IV
11ª
Edizione digitale
(1°.11.2000-…)
–
Distribuzione riservata –
_________________
Sez.
|
Cap
|
LETTERATURA
|
P.
|
|
1ª
|
ind
|
Indice del II Volume
|
1
|
|
2ª
|
lalf
|
Estratti: alfabetico
|
2
|
|
3ª
|
lcro
|
Estratti: cronologico
|
54
|
|
4ª
|
ltem
|
Estratti: tematico
|
100
|
|
5ª
|
DeSa
|
Estratti: De Salvo
|
107
|
|
6ª
|
Geno
|
Estratti: Genova
|
120
|
|
7ª
|
cstc
|
Estratti: Congressi storici calabresi
|
124
|
|
Estratti: Dall’Archivio Muratoriano
|
||||
9ª
|
viag
|
Viaggiatori
|
126
|
Cap.
17°
Volume
II
Sezione Prima
del Vol. II
Estratti
su Seminara
presi da opere a
stampa
ed ordinati
alfabeticamente per
autore o per titolo
A
ALFANO G.M: voce Seminara.
a. 1794 >
«SEMINARA città, emigrata dalla sua antica situazione per cagione del
tremuoto del 1783., tiene vicino un gran lago; vi è la Badia di S. Elia nuovo,
Dioc. Mileto, feudo della casa Spinelli, d’aria cattiva, fa di popol. 4277».
Giuseppe
Maria ALFANO, Istorica descrizione del
regno di Napoli diviso in dodici provincie, Napoli, Manfredi, 1798 [ma
scritta nel 1794], p. 113.
*
ALBERTI Leandro: Su Seminara e dintorni nella “Descrittione d’Italia”
a. 1578 >:
p. 205:
«…Più avanti procedendo alquanto dal lito discosto, vedesi Gioia. Il
cui territorio è molto bello, & pien di Vigne, d’Aranci, Limoni, &
d’altri fruttiferi Alberi. E non meno è producevole di grano, e d’un largo,
& cupo fiume, che credo sia del fiume Metauro[1],
descritto da Strabone, & da Plinio, hora fiume di Seminara detto. Era ne’
tempi di Strabone quivi il porto Metauro, talmente nominato dai Zanclei [=
Calcidesi, come si desume più avanti nel testo], secondo Solino. Poscia da
Gioia 8. miglia lontano, si scopre Palma contrada. Poscia il castel Bagnara…».
p. 213:
«…A man sinistra della via da Rosarno a Seminara (della quale poi
parlerò,) si scopre Polistena castello ben pieno di popolo; & più oltre due
miglia sopra il monte Apennino il Castello Santo Giorgio, & da otto miglia
alle radici dell’Apennino, la Città di Terra Nuova, molto popolosa…».
p. 213/14:
«…Ritornando a Rosarno, & caminando venti miglia per l’antidetta /
pianura si arriva al fiume detto
S. Leo dalla contrada S. Leo ivi vicina, & poi di Seminara, & altresi
di S. Gio. della prefatta pianura. Passato detto fiume, & salendo all’alto
colle, ritrovasi Seminara ben’habitato castello. Appresso l’antidetto fiume,
nella soprascritta pianura di S. Giovanni, furono spezzati, et rotti i Francesi
dagli Aragonesi ne’ tempi di Lodovico 12. Re di Francia, & poi da
quest’altro lato di detto fiume appresso Seminara, si dimostra il luogo sopra
le rive d’esso (come io ho veduto) ove fu superato l’essercito di Ferrandino
d’Aragona Re di Napoli da i Francesi, l’anno precedente, ch’erano stati superati
detti Francesi dall’altra parte del fiume, in quella pianura avanti descritta.
Et essendo fracassato l’antidetto essercito del Re Ferrandino, apena esso ebbe
tempo di fuggir sopra una cavalla senza sella infino al mare, ove salì una
barca, & paßò a Meßina, come etiando scrive Corio nell’historie di Milano.
Passato Seminara si salisce sopra l’Apennino, ove si vede il bello, & buon
paese, c’ha Seminara intorno, tutto lavorato, & fertile, & pieno di
vigne, & d’alberi producevoli di saporiti frutti. Assai frumento si cava di
esso paese con altre biade. Caminando sempre sopra i gioghi dell’Appenino, si
arriva ai folti, & spaventevoli boschi di Solano addimandati pericolosi
paßi di Solano, per i Ladroni che v’habitano. Quivi veggonsi le Pietrarezze de
i Selici, ove sono molti pezzi di quei cavati di tal figura, sì come son quei
de i quali si ritrovano silicate alquante vie intorno a Roma, & maßimamente
la via Appia. Caminando adunque da Seminara quasi sempre sopra la schiena
dell’Apennino, & per detti boschi, diciotto miglia, quasi sempre vedendosi
l’Isole Eolie, & di Vulcano (dalla quale chiaramente si vede esalare
fiamme, & fumo) si arriva a Fiumara di Muoro, scendendo però alquanto dalla
cima di detto monte. …».
Leandro
ALBERTI bolognese, Descrizione
dell’Italia Coll’Isole apparteneti all’Italia, Venetia, presso Gio.…, 1578,
pp. 205, 213-14
B
BARBIERI Matteo: Notizie
istoriche dei Mattematici e filosofi del regno di Napoli scritte da Matteo
Barbieri, in Napoli MDCCLXXVIII, presso Vincenzo Mazzola-Vocola, Impressore di
Sua Maestà:
a. 1778:
p. 83:
Nello stesso Secolo fiorì Barlaamo detto il Calabro, di Seminara, non solo Teologo e mischiato nella lite coi
Greci circa la Processione dello Spirito Santo, ma Mattematico ancora, come i
nomi…
BARRIO, ed. T. Aceti: Estratti su Seminara, Taureana e paesi vicini:
a. 1737:
[58]
Anno 1535. Carlo V, espugnata Tunisi, in Africa, passò in Sicilia; di lì, nel
mese di Ottobre, sbarcò a Reggio ed entrato ben presto in Sinopoli fu ricevuto
con i massimi onori dal conte Paolo Ruffo. Il 3 novembre entrò in Seminara,
quindi in Monteleone, di poi giunse a Nicastro, Mamerto, Carpaciano e Rublano,
dove, ai Signori del Fosso, che lo accolsero, lasciò come ricordo uno sprone,
che ancora si conserva presso Carlo in Sicilia. Di lì per il territorio di
Figline, volgarmente detto l’lmperatore e
Fontana di Carlo V, si portò a
Paterno e Dipignano, dove anche concesse privilegi; di poi per Tessano il 7
giunse a Cosenza, dove fu accolto con incredibili festeggiamenti. Il magistrato
presentò diecimila giovani fatti venire dal suburbio cosentino, comunemente Casali, idonei quanto mai altri al servizio militare, affinché l’entrata
in Cosenza fosse più spendida, con grande meraviglia dell’imperatore e del
seguito. Era allora presente Pietro Antonio Sanseverino, principe di Bisignano,
il quale, con magnificenza, come era giusto, accolse Carlo V nella reggia
presso Villa Mauro, celeberrima per la caccia, nel territorio di Corigliano; la
fama di questa magnificenza si diffuse in lungo e in largo. Cfr. Censt. Gregor.
Ross ed altri. Agli uomini della famiglia Aceti Carlo V elargì vari benefici,
come si ricava da un diploma e da un'iscrizione che addurremo. Anno 1554. In
Cosenza fu portato a termine il bellissimo ponte sul Crati, detto di S. Maria, dal celebre architetto Gilberto Rublanense, come si legge in MS
Belmont. Anno 1554. Carlo V abdicò e consegnò il potere al figlio Filippo II.
Cfr. Mazzell.
[283-298]:
Capitolo
XVII
TAURIANO.
IL B. FANTINO ED ALTRI UOMINI
NOTEVOLI
PER SANTITÀ,.
La
città di (1) TAURIANO, o Tauriana, esistette in questi luoghi, e scomparve; dai
suoi resti fu costruita la città di SEMINARA. Tauriano fu distrutta ai tempi
del B. Nilo; di essa parla Plinio, come pure Pomponio Mela, che la colloca tra
le citta di Metauro e Squillace; la ricorda anche Stefano: « Tauriana, dice,
dalla quale Tauriano l’abitante ». Ateneo nel libro sesto tramanda che da
questa città prese nome un pesce. Scrive infatti tauriano per piatto di pesci.
« Il pesce spada, dice, è il tauriano, un pesce che dalla cittadella di
Tauriano è detto tauriano. Plinio nel libro trentaduesimo: « Il tauriano, dice,
alcuni lo chiamano pesce spada ». E ancora il pesce spada è col grifo puntuto;
colpite da esso le navi nell’oceano sono colate a picco. Se ne trovano talvolta
che superano la grandezza di un delfino, dice lo stesso nel libro nono.
Strabone li chiama galeotti, il volgo pesce spada. La loro cattura avviene
presto. Tauriano fu sede episcopale; Giorgio, Vescovo di Tauriano, partecipò al
Sinodo di Costantinopoli sesto. E (2) Teodoro, Vescovo di Tauriano, partecipò
al Sinodo di Nicea secondo. Fa menzione di questa sede episcopale il B.
Gregorio Papa, lib. 2, nell’epistola a Paolino. Vescovo di Tauriano, al quale
affida la chiesa di Lipari; e Paolo Diacono ricorda lo stesso Paolino, Vescovo
della città di Tauriana, della Provincia dei Bretti; morto questo Vescovo, lo
stesso Gregorio raccomanda la Chiesa di Tauriano a Giovanni, Vescovo di
Squillace. E nei decreti di Papa Gregorio III, che fu in carica nell’anno dal
parto della Vergine 735, è fatta menzione di Opportuno, Vescovo di Tauriano,
sebbene erroneamente si legga di Metauria. Di questa città fu il beato (3)
Fantino, abate, monaco [284] di S. Basilio, veramente decoro. Costui dapprima
fu palafreniere di un concittadino; un suo concittadino scrisse in greco la sua
vita e dice che nella chiesa di S. Fantino, la quale sorge non lontano dalla
cittadella di Parma, sono sepolti i beati Giovanni e Gregorio, Vescovi di
Tauriano. Fiorì il beato Fantino nel secolo del beato Nilo, del quale parleremo
a suo luogo. Il beato Fantino godeva ciel suo amore scambievole con grande
dolcezza e diletto. Il beato Bartolomeo nella vita del beato Nilo lo chiama
celebre; era a capo del monastero del beato Mercurio. Di lui Bartolomeo stesso
così scrive: «L’estasi, più veracemente fu uno scambio della destra
dell’Eccelso, fu concessa al beato Fantino, il quale veramente fu profeta, e
come udimmo che Geremia, col capo e il mento rasato, si aggirava in Gerusalemme
travagliata dai lutti, e mostrava di se stesso la considerazione di uno stolto
delirante, allo stesso modo era possibile vedere questo celebre uomo e
veramente profeta e beato essere stato provato, infatti, sia vaticinando la
sensibile distruzione della Calabria, e la miserevole invasione degli Agareni,
o l’eversione totale della virtù, e il piegarsi dei monaci ai vizi e alla
volgarità, cosa che più è da credere. In verità egli stesso deplorando le
sventure si muoveva tra le chiese, i monasteri, e i libri, dicendo invero che
quelle erano piene di asini e muli; questi sono bruciati col fuoco, dice, e
scompaiono; questi, invero, poiché sono pieni di ragnatele e si perdettero,
sono stati spezzati, ne quindi abbiamo libri da leggere. Quando vedeva un
cenobita del suo monastero, io piangeva come morto, dicendo: “Io, o figlio, ti
ò ucciso”. Faceva e diceva cose di tal genere; nè voleva stare sotto un tetto,
ma sotto il cielo aperto, né voleva gustare cibo, ma, errando per luoghi
deserti, viveva di erbaggi selvatici. Questi fatti indussero nella massima
tristezza il beato Nilo (infatti allora dimorava in quella grotta presso il
monastero del beato Mercurio la quale aveva un altare dedicato al beato Michele
Arcangelo) e giorno e notte lo stesso beato Nilo piangeva la privazione di un
buon compagno, amico e cooperatore. Spesso lo seguì per convincerlo a far
ritorno al monastero e lì trovare riposo. In verità quello non volle obbedire
alle sue esortazioni, dicendo: « Coloro che abitano nel monastero non sono miei
cenobiti: se infatti lo fossero, piangerebbero con me. Invece gridano contro di
me furente e dissennato. Sappi dunque, diletto padre, che migrerò verso la
regione piu in alto, e ivi sarò istruito, e non ritornerò piu nel mio
monastero». E così fece il beato, come disse, prendendo il luogo che a lui Dio
assegnò prima di tutti i [285] secoli. La sua festa si celebra (4) il 24
luglio. Francesco Maurolico, Siculo, lo rivendica a Siracusa e, per sicula
vanità, celia che i suoi genitori, Fanto e Diodata, furono martiri. Nello
stesso monastero c’era il beato Luca, fratello del beato Fantino, a lui simile
per prudenza e vita, e idoneo al governo e mediocremente istruito nelle sacre
lettere. Il beato Nilo, insieme a tutti gli altri monaci di quel monastero, lo
sostituì, contro la sua volontà, al beato Fantino nel governo del monastero.
C’era anche, nello stesso monastero, il beato Zaccaria, uomo di grande virtù e
santità, che il beato Bartolomeo chiamava Angelico, della benevolenza del quale
anche il beato Nilo godeva. Non lontano da questo monastero c’era anche un
altro monastero (era appunto allora la Calabria altro Egitto, madre patria di
monaci), il cui nome il beato Bartolomeo à taciuto. Ritengo che esso fosse
quello che sorge a Melicloclia, di cui diremo presto, nel quale monastero
viveva il beato Giovanni, abate al tempo del beato Nilo, uomo e molto erudito
nelle sacre lettere e pieno di santità, che il beato Bartolomeo chiama Grande.
Egli attendeva alla lettura assiduamente, soprattutto di S. Gregorio
Nazianzeno, e la illustrava agli altri. Il beato Nilo lo venerava come Giovanni
Battista, così che spesso baciava con grande devozione anche le orme dei suoi
piedi, e lo consultava sui dubbi della sacra scrittura, che egli chiariva molto
sapientemente e dottamente, Tauriano fu distrutta da Agareni, Mauri, Cartaginesi,
collegatisi in empia alleanza e allestito un grande esercito, aiutandoli i
Siculi, al tempo del beato Nilo, durante il quale furono distrutte anche altre
città di Calabria, Lucania e Puglia. Per questa devastazione, poichè alcune
città rimasero vuote di cittadini, le sedi episcopali furono trasferite in
altre sedi, o aggiunte ad altre. Su Geolia c’è il castello di (5) Drosio, che
significa rugiada. E sopra sorge la nota cittadella di (6) Terranova, in luogo
alto, circondata d’ogni parte da rupi, alle falde dell’Appennino, che è lambita
dal fiume Marno, ricco di trote e nel quale sono le lontre. Dista dal mare
diecimila passi; è cittadella antica, ma dopo la devastazione della Calabria,
da seicento anni a questa parte, ricevuti nuovi coloni, è stata così chiamata.
Vi si celebra un famoso mercato ogni anno e si produce ingente quantità di
ottima stoffa di seta. Nella chiesa di S. Caterina si conservano due spine
della Corona del Signore, un pezzetto del legno della croce e della colonna
alla quale Cristo fu flagellato, come pure pezzetti del velo della beata Maria
Vergine, reliquie dell’Apostolo Matteo, di Biagio, Cristoforo e altri santi.
Questa cittadella trovandosi su un’altura, [286] gode di una grande pianura,
che è fertile di grano e altre biade, e atta ai pascoli. Si producono vini
molto rinomati e panni di cotone lodatissimi di due tipi, che gli indigeni
chiamano maschili e femminili, nasce la canapa, si fanno belle uccellagioni di
fagiani, starne, pernici e altri uccelli; sui monti si cacciano animali
selvatici. In questo territorio si trovano i villaggi di (7) Rigicono, Leono,
(8) Martino, con ortaggi rinomati, e dove scaturiscono acque calde e sulfuree,
Martino di nuovo, Crestoo, che significa buono e utile, Vatono, da vateo,
abbondo, (9) Radicina, pari a piccola città, con stoffe di cotone ottime. Di
questo villaggio fu Giovanni Giacomo Bombini, erudito nelle lettere latine.
Iotrinono, quasi medicinale, con ottime stoffe di cotone. Di questo villaggio
fu Antonio Floceano, Giureconsulto esimio nella nostra età, il quale godette di
grande stima in Napoli. Baracado, che significa breve, con un mercato annuo.
Cortilado, Galatono, da un fatto; galatono signiflca infatti fanciullo
lattante. Scrofonio, Molochio, che significa molle, e Molochio di nuovo, con un
emporio. Di poi c’è Castellaco, un minuscoío castello.
NOTE
DI TOMMASO ACETI
(1)
Tauriano. Città antíchissima, deila quale Plinio, lib. 3 cap. 5. Porto
d’Ercole, fiume Metauro, cittadella di Tauriano, Porto di Oreste e Medma. Si
ignora tuttavia la sua origine, ed è incerto se derivi il nome da un certo
Tauro, duce, o dal Tauro, monte dell’Asia, o invero dal fiume Metauro.
(2)
Nel secondo Sinodo di Nicea, sotto Adriano I tenuto contro gli iconoclasti,
act. VII, si legge di lui: Sedendo costoro innanzi al sacro pulpito del tempio
della Santissima e alma Chiesa, che è detta Sofia, essendo presenti e
ascoltando il gloriosissimo e magnificentissimo duca Petrona, chiarissimo
Console, e Pietro, Patrizio, e il seguito imperiale, inoltre i Religiosissimi Archimandriti,
presidenti e Monaci, in quell’ordine che è stato annotato nella precedente
formula di diritto innanzi i santi e inviolati Vangeli di Dio, Teodoro,
Santissimo Vescovo di Tauriano, dell’isola di Sicilia, prende nelle mani e
legge la definizione edita. Dove bisogna notare che la Calabria è chiamata
anche con il nome di Sicilia, come abbiamo annotato in Anastas. Biblioth. sotto
Agatone, del quale si riparlerà più avanti.
Fu
anche di questo luogo Marciano, Presbitero, da S. Gregorio creato Vescovo di
Gerace, al quale affidò anche la causa del Clero Reggino contro il Vescovo
Bonifacio. Epist. lib. 6 e Ughell.
(3)
Il Beato Fantino. Tre furono i Santi uomini di questo nome: Fantino di
Calabria, che alcuni fanno Cosentino, come è possibile vedere nel monastero di
Grottaferrata nell’agro Tusculano, figlio di Giorgio e Briennia, del quale si
parla nel menologio greco tradotto in latino dal Cardinale Sirleto. Fantino dl
Tauriano, figlio di Giovanni e Tedibia del quale il Barrio qui parla; Fantino,
ugualmente di [287] Tauriano, figlio di Fanto e Teodata, Martiri, che alcuni
insulsamente rivendicano a Siracusa, dove dimorò per qualche tempo; ma anche
dal Mandresio, scrittore siculo, che cita il codice di Pietro, Vescovo di
Tauriano, risulta che fu di Tauriano. Egli, dopo il ritorno da Siracusa,
convertì a Cristo Tauriano, sua città, e ivi, famoso per Santità e miracoli,
volò al cielo il 24 luglio.
Furono
anche di questo luogo i Santi Martiri Nivito, Canziano, Candido, Crisogono,
Atteone, Quinziano, Proto, Teodoto, e Canzionilla, come si ricava da un
antichissimo codice MS esistente nel Monastero Basiliano di S. Elia, e dal MS
Gualt.
(4)
Il 24 luglio. Nel Martirologio Basiliano è annotato il 23 luglio.
(8)
Martino. Comunemente S. Martino della Piana. Villaggio antichissimo. Oui era la
Valle dei Salini, comunemente Piana dl S. Martino, dove Carlo, Principe di
Salerno, schierò l’esercito. Qui pure ci fu una adunanza sul regno tra il
Pontefice Onorio IV e Carlo I d’Angio il 30 marzo 1283. Capit. regn. fol. 332.
Di
qui furono Francesco e Angelo, dell’istituto dei Cappuccini, famosi per castità
di vita e miracoli. Ouello famofi nel 1574, questi a Mileto nel 1572. Chron. p.
2 t. 1. Nella Diocesi di Mileto.
Capitolo
XVIII
OPPIDO,
SEMINARA, PALMI, BAGNARA
ED
ALTRE CITTADELLE E VILLAGGI.
SCILLA
E CARIDDI.
Sopra
v’è la città di (1) OPPIDO, sede episcopale, alle falde dell’Appennino, posta
in luogo alto e salubre, conferendo potere agli abitanti, tra i due fiumi, il
Trecorio e il Mada, fecondo di trote e anguille; è cinta da ogni parte da
valli. Vi si celebrano ogni anno famosi giorni di mercato. Il territorio
fornisce tutte le cose necessarie agli abitanti; infatti è ferace di grano ed
altri cereali, atto al pascolo delle greggi e irriguo; d’estate vi pascolano
belle mandrie di cavalli. Si producono oli, vini, e stoffe di cotone ottime In
questo territorio ci sono i villaggi di (2) Varapodo, pari a cittadella, con un
emporio,.quasi piede pesante e stabile, Crotono, che significa lode, Tresilio,
Misidano, e Sargonado. Qui le olive, grosse come mandorle e carnose, condite in
botti, sono ottime a mangiarsi. Non lontano sorge il castello di (3) Cristina,
posto in luogo basso, alle radici dell’Appennino, presso il quale scorre il
fiume dello stesso nome.
Nel
territorio ci sono boschi ghiandiferi comodi per nutrire i porci, come pure
selve buone per legname da costruzione, suppellettili, navi. Si fanno cacce,
quali a Calatro, si produce un olio rinomato; le olive, della grandezza di
mandorle e carnose, condite in botticelle, sono ottime a mangiarsi. Vi sono,
nel territorio, i villaggi di (4) Pedaulo, quasi piede grasso, o entrata di
fanciulli, con ottime stoffe di cotone che minimamente invidiano le
alessandrine; Sido, con un mercato annuo, che significa scheggia di legno e assicella,
ugualmente con ottime stoffe di cotone quali si producono a Pedaulo; (5)
Georgia, che significa coltivazione dei campi; Cocipedono, che significa pianto
di bambini, Lobrico, e Sitizano, detto da sitizo, nutro, dove nasce il marmo.
Questi villaggi [290] sono greci e celebrano messa in lingua e rito greco, ma
nei discorsi quotidiani si servono della lingua latina e greca. Quindi, per
colui che si dirige a mezzogiorno si offre la cittadella di (6) Sinopoli, in
località posta alle falde dell’Appennino, ma sospesa, che il fiume Vado,
abbondante di trote e anguille, lambisce. (7) Di questa cittadella fu il beato
Paolo, Minorita, il cui corpo riposa a Nicotera. In questo territorio ci sono
castagneti e i villaggi di Eufemia, (8) Precopo, Sinopoli, villaggio greco con
un mercato annuale, (9) Acquario, dove si produce vino rinomato e abbondanza di
ottimo olio; qui anche le olive, grosse come mandorle e carnose, preparate in
botti, sono ottime a mangiarsi. Non lontano da Sinopoli c’è il debole castello
di Cosileto. Quindi la cittadella di (10) Meliclochia, ove si produce ingente
quantità di ottimo olio e olive qua!i a Sinopoli. Vi si tiene un mercato ogni
anno. C’e anche la chiesa del beato Elia, Abate monaco di S. Basilio, il cui
corpo si ritiene sia a Calatro. Di poi si presenta la città di (11) SEMINARA,
resti di Tauriano, lontana dal mare tremila passi, su un declivio, volta ad
oriente. Infatti, dopo la distruzione di Tauriano, il popolo scampato a quella
strage si trasferi qui con il suo Pontefice, e la sede episcopale vi rimase per
parecchi anni. Ma Ruggiero il Guiscardo unì questa sede e queila di Hipponium a
Mileto, forse perchè al!ora gli abitanti di Hipponium e Tauriano erano pochi.
Ma ora Hipponium e Seminara sono abbastanza popolose. Perciò ad ambedue
dovrebbe essere restituita la sede episcopale, rimanendo a Mileto la sua.
Infatti ora la diocesi di Mileto è estesa, tanto che può essere agevolmente
divisa in tre diocesi. Vi si produce abbondanza di seta e di olio molto lodato,
le olive sono grosse e carnose, quali a Meliclochia. Si producono panni
rinomati, vino non volgare, si ricava il gesso speculare, si fanno uccellagioni
di fagiani, starne, e altri alati di una certa grossezza. Non lontano sorge la
fabbrica del beato Filarete, cenobio dei monaci di S. Basilio, dove si
conservano un braccio dello stesso Filarete ed il capo del beato Elia, suo
maestro. Questo beato Filarete fu monaco di S. Basilio, abitante di questa
regione; il suo maestro fu, come ò detto, il beato Elia. La solennità del beato
Filarete si celebra il 6 aprile. Ai piedi della cittadella scorre il fiume
Metauro. In questo territorio c’è il villaggio di (a) Anna, Decalstidium nell’itinerario
di Antonino Pio, con abbondanza di ottimo olio e olive grosse e carnose come a
Seminara. Nell’agro fino al Cenide nasce in abbondanza il croco selvatico.
Quindi v’è la cittadella di (12) Palmi, sul mare, con un olio conosciuto; dista
da Geolia seimila passi. [291]
Non
lontano sorge il santuario del beato Fantino, un tempo dedicato al beato
Mercurio, monastero dei monaci di S. Basilio, presso il quale si recò il beato
S. Nilo per prendere l’abito monacale, dove allora vivevano molti santi
nuomini, e, tra gli altri, il beato Fantino, il beato Zaccaria, il beato Luca,
e il beato Filarete. Sopra la città si leva un monte altissimo, a picco sul
mare; quì c’è la grotta nella quale il beato Elia, Abate, intanto soleva
trascorrere vita solitaria, che talvolta anche il beato Nilo abitava. A Palmi
ci sono reti per tonni; infatti questo mare e pescoso; vi si catturano tonni,
pesci spada, murene, orate, grongi e altri pesci di ottima qualità. Si
raccoglie il corallo. Dopo Palmi si offre la città di (13) Bagnara con un
porto; è bagnata dal mare; è posta in luogo alto tra i due fiumi Caziano e
Stalassa; dista da Palmi settemila passi.
[…]
Nell’agro di Scilla si produce un ottimo vino, detto (e) Melvasio, quale si produce
a Creta. In questo mare, come ò detto, si fa una gran pesca di pesci spada.
Della loro cattura Strabone nel libro primo cosi scrive: « La pesca del pesce
spada, che si pratica nel tratto di mare di Scilla: mentre le barche, fornite
di due remi, si tengono sul posto, un osservatore comune sta in alto; ogni
barca ne à due, l’uno naviga, l’altro siede a poppa tenendo l’asta dal corpo
senza la punta, perchè invero il giavellotto è forgente del pesce spada, si
dice che sporga dalla superficie dei mare la terza parte della bestia, la barca
si porta più vicino, quindi è ferito con giavellotto scagliato con mano.
Allora, strappata l’asta dal corpo senza la punta perché invero il giavellotto
è fornito di amo che possa estrarsi facilmente, e una funicella è acconciamente
legata ad esso, piegano il peso attaccato dell’animaie, finchè travagliato e
fuggendo è stancato. Allora lo trainano verso terra o lo caricano sulla barca.
Se il giavellotto è caduto in mare, non va perduto. Infatti è ricavato da
quercia o abete, così che, inabissatosi per il peso della quercia, di poi
riportato in alto, facilmente può essere recuperato. Ma capita talvolta che il
rematore sulla barca sia ferito dalla grande spada dei pesci. E poichè l’impeto
dell’animale, simile a cinghiale, si scatena, la stessa caccia diviene molto
aspra. Infatti quando i tonni, spinti lungo l’Italia, scivolano in massa e sono
impediti dal raggiungere la Sicilia, si imbattono in animali più grossi, come
ad esempio, delfini, pescicani ed altri simili a balene, si ingrassano i
pescicani e i pesci spada, forniti di elmi, che dicono chiamarsi spada. […]
NOTE
DI TOMMASO ACETI
(10)
Meliclochia. Comunemente Melicoccà. Di questo luogo fu S. Luca, dell’istituto
basiliano, Vescovo isolano, famoso per santita e miracoli, come si ricava da un
antichissimo codice M.S in greco. che è conservato a Messina nel Monastero di
S. Salvatore. È lecito congetturare che il Santo Vescovo fu molto gradito al
conte Ruggiero il quale accrebbe molto il Vescovado isolano. Cfr. Ughell.
Bernardo Spin., Giureconsulto e Pretore della città di Janna MS Gualt.
Michelangelo Falvetta, Presbitero espertissimo della musica, prefetto dei
musici nella Chiesa Cattedrale di Messina circa l’anno 1695. MS Mart. Pietro
Gammacurta, dei Principi di Arturio,. della Congregazione del B Pietro di Pisa,
discepolo di Campanella, famoso per l’arte della memoria e la dottrina. Alcuni
tuttavia lo dicono di Ardurio. Morì in Roma, nel convento di S. Onofrio, nel
1689, settuagenario. Topp. Questa cittadella è sotto la signoria dei cavalieri
di Gerusalemme.
(11)
Seminara, Seminaria. Città famosa, quasi semenzaio, non tanto di beni, per il
vantaggio della vita, quanto di illustri uomini per la gloria. Infatti poiché
la maggior parte di Tauriano, allora fiorentissima. e distrutta dai Saraceni
era confluita qui, portò non tanto ricchezze quanto virtù. Avvenne nello anno
986, come si rileva da Protospata, nel quale anno quasi tutta la Calabria fu
devastata
Furono
di questo luogo Filippo Spinelli, dei Conti di Seminara. Arcivescovo di
Colosso, poi Vescovo di Policastro e Chierico della Camera Apostolica quindi
Nunzio Apostolico presso l’imperatore Rodolfo, e Vicelegato di Romagna; infine,
dopo tanti lavori portati a termine, da Clemente VIII creato S.R.E. Cardinale
tit. di S. Bartolomeo presso l’isola tiberina 1’8 settembre 1603 e nel 1605
Vescovo di Aversa. Morì il 1616, piu che cinquantenario. Ciacon. e Oldoin. to.
4,. sebbene Gualtieri nel suo MS lo dica di Cristina. Giacobello,
Minorita, Vescovo di Bova, anno 1441. Mori a Roma il 1443. Ughell. Barlaam,
da monaco basiliano Vescovo di Gerace, anno 1342, del quale Barrio in suppl.
sotto lib. III Cap. V. Costui, carissimo all’imperatore di Costantinopoli
Andronico Paleoloso giovane, più di una volta sconfisse tutti gli scismatici
greci, che lo avevano in odio, soprattutto nel 1341, nel Sinodo di
Costantinopoli, alla presenza dell’imperatore e del Patriarca Giovanni. A
nessuno secondo per erudizione sacra [296] e profana, insegnò a Leonzio di
Tessalonica, Boccaccio, Paolo Perugino, Petrarca ed altri. Scrisse cinque
Epistole contro i Greci, sul Primato del Papa, l’Etica degli Stoici e altre
opere, testimonianze famosissime del suo acutissimo ingegno presso gli storici.
Esistono anche vari MS a Vienna nella Biblioteca Imperiale. Cfr Niceforo
Gregor. lib. 2 Ughell. nella stessa Diocesi n. 12, Filipp. Cipr., Bocc. in
genealog. lib. 15, Filipp. Bergom. Vobb., Leon Allat., Topp. Vi fu anche un altro
Barlaam, Vescovo di Gerace, nato a Costantinopoli, che alcuni dicono
Calabro, e di due fanno uno.
Angelo
Gerace, Minorita, uomo di santa vita, guardiano emerito del Cenobio di
Betlemme, anno 1610, Vicario di Terrasanta, anno 1614, inviato in Egitto dal
Sommo Pontefice Paolo V e Guardiano del S. Sepolcro; morì ucciso dai barbari.
MS Gualt., dove loda la storia Seraf. Gonzag. Domenico Anania, della
famiglia Domenicana, uomo di santa vita; morì a Soriano nel terremoto del 1659,
con altri, dei quali altrove MS Mart. Domenico Cianciarusio, ugualmente della
famiglia Domenicana; pubblicò l’opuscolo L’Umiltà
non finta, Messina, ristampato nel 1690. MS Mart. Vincenzo Martelluccio,
della stessa famiglia, uomo di santa vita. Amat. Francesco Silvestri,
comandante militare nella guerra di Messina, anno 1674, come dal più volte
lodato MS di Domenico Martire, autore contemporaneo. Francesco Sopravia, filosofo e medico espertissimo; scrisse de Natura rerum contro i Peripatetici.
Maraf lib. I, cap. 30. Francesco Martelli,
Conte Palatino. MS Mart. Francesco Tornese,
musico e poeta celebre, Segretario della Città di Messina MS Mart Pietro, dell’istituto dei Cappuccini,
Sacerdote, famoso per santità e miracoli. Morì il 1576, ottuagenario, nel
giorno preannunciato della morte Gualt., Giovanni, dello stesso
istituto. Laico, notevole per santità di vita e penitenza. Morì più che
centenario in grande fama di santità; il corpo, cosparso di mirabile profumo e
sudore, giacque insepolto per tre giorni, perchè fosse mostrato abbastanza a
coloro che affluivano. Chron. anno 1593.
Giulio
d’Alessandro, Comandante militare MS Mart. Giuseppe, della famiglia
Francescana riformata, integerrimi di vita. Chron. Giacobello Franco,
Conte Palatino, come da un’iscrizione esistente nella Chiesa dei P P.
Conventuali. Scipione Chirico, Comandante militare. MS Mart. Tommaso
Speranza, familiare dell’imperatore Carlo V, come da diploma del 1549. MS
Gualt. Giovanni Battista Modio, medico celebre, uno dei primi figli di S.
Filippo Neri, del quale oltre; sebbene alcuni lo dicano di Severina, tuttavia
nessuno mette in dubbio che sia Calabro. Cfr. oltre, lib. IV, n. 1. Nella
Diocesi di Mileto.
(12)
Palmi. Parma. Ora comunemente
Palme. Villaggio una volta abitato agli inizi dagli scampati di Tauriano; ora
cittadella nota abbastanza popolata Di questo luogo fu Antonio,
Minorita, celebre predicatore; vi costruì anche un cenobio Gonzag. hist.
Seraph, e MS Gualt. Nella Diocesi di Mileto.
(13)
Bagnara. Balnearia. Non una volta chiamata città Comunemente Bagnara, nome derivato
dai bagni. O città, o cittadella, fu costruita dai Normanni sotto il conte
Ruggiero, e dagli stessi si cominciò ad abitare nel 1085. Vi edificarono
dapprima la Chiesa con il Monastero detto di S Maria e dei S.S. Dodici
Apostoli, che passò poi ai Canonici Regolari di S. Agostino, poi all’Ordine
Florense, quindi, cioè nel 1470, ai Canonici Lateranensi, e, sotto Sisto IV,
nel 1471, al Capitolo Lateranense, che vendette la città, o cittadella, a
Giacomo Ruffo nel 1579, come da documento e atti Capitolari. Questa città, o
cittadella, gode di molti privilegi, come dai Diplomi di Carlo III, del 1381
Giovanna II, 1432, Alfonso, [297] 1443, e del Re Ferdinando d’Aragona, 1503,
conservati nello stesso Archivio. La giurisdizione spirituale spetta al Priore
del Convento di S. Domenico, che ivi presiede, come da Indulto di Sisto V del 7
maggio 1588. […]
OSSERVAZIONI
DI SERTORIO QUATTROMANI
(a)
Anna. Ora S. Anna. Decastalium per Antonino. Cosi tut~i
Gabriele
BARRIO, Antichità e luoghi della
Calabria. Prolegomenie, Aggiunte e note di Tommaso Aceti. (Roma 1737),
trad. it. di Erasmo A. Mancuso, Cosenza, Brenner, 1979, 1985.
BASILE Antonino: Il frate “selvaggio” Marcantonio Capitò ed il diritto
di asilo in Seminara alla fine del Cinquecento.
a. 1964 >
[343] Il vescovo Marcantonio del Tufo, di nobile famiglia napoletana,
figlio di Alfonso del ramo dei baroni di Frignano, nominato vescovo di S. Marco
il 5 aprile 1585, passò a Mileto di Calabria il 21 ottobre dello stesso anno.
Energico, con grande concetto della propria autorità, egli era, come dice
l’Amabile, «superlativamente battagliero nelle questioni giurisdizionali e
naturalmente, anche per tal motivo, si trova nominato nella congiura del
Campanella». Il conflitto che egli ebbe con l’autorità laica, in seguito al
quale veniva scomunicato l’avvocato fiscale Xarava, è noto per l’importanza che
ad esso avrebbe voluto dare il Campanella, amico del vescovo stesso, con
l’intento di rendere credibile la sua tesi difensiva che lo Xarava
perseguitasse per spirito di vendetta gli amici del vescovo, e quindi il
Campanella stesso, aggravando le accuse contro di loro per odio al vescovo.
Certo il forte senso della propria giurisdizione dominava il Del Tufo e lo
induceva a permettere che i conventi della sua diocesi diventassero asilo di
banditi[2]
e a resistere energicamente alle richieste di arresto di essi, avanzate
dall’autorità laica. Il Del Tufo aveva dimostrato la sua natura energica quando
un fra Maurizio Telesio di Cosenza, uno di quei cavalieri gerosolomitani i
quali, col titolo di frati e col benefizio della giurisdizione ecclesiastica,
commettevano prepotenze e delitti, fu arrestato dall’auditore Vincenzo di Lega,
in un paesello della diocesi di Mileto nel quale s’era asserragliato. «Allora
un prete a nome del Rev.mo Vescovo di Mileto gli fu notificata in parola che
lui et li detentori di detto Mauritio erano incorsi in censura, admonendoli a
liberarlo».
Ancora maggiore energia il Vescovo dimostrò nella controversia sorta
con l’autorità vicereale intorno alla faccenda di Marcantonio Capitò. Era
costui un chierico selvaggio[3] della
diocesi di Mileto, il quale, avendo bastonato
un frate basiliano, per salvarsi dall’intervento della R. Audienza si era
rifugiato in una chiesa. Per mantenere [344] intatto il diritto di
giurisdizione il Vescovo aveva rifiutato di consegnarlo all’autorità. Perciò
l’Avvocato fiscale D. Luise Xarava, uomo indotto, ma di straordinaria energia,
si trovò costretto ad entrare nella chiesa per catturare il Capitò, che affidò
alla custodia del castellano di Pizzo. I1 Vescovo scomunicò lo Xarava nonché il
procuratore di Pizzo D. Fabrizio Poerio ed il Principe di Scilla, signore del
luogo[4].
Poi, non pago delle scomuniche, nel febbraio 1598 mandò al Pizzo suo fratello
Placido del Tufo, il quale, dopo aver convinto il castellano a togliere il
Capitò dal carcere ed a custodirlo in una sua camera, nella notte, aiutato da
due domestici del fratello, mediante una corda lo fece fuggire e ricoverarsi
nel palazzo vescovile. Poiché il vescovo stesso non aveva dato alcuna punizione
al Capitò e, anzi, lo aveva lasciato andar libero a Seminara, il Viceré
lo fece carcerare di nuovo. Allora avvenne a Seminara una sommossa fomentata
dai preti, i quali, armati d’accetta ed aiutati da alcuni laici, al grido
di «viva il Papa» liberarono a viva forza il Capitò[5] . Ne
sorse una questione spinosa tra l’Autorità laica e l’ecclesiastica, questione
che noi possiamo seguire nel Carteggio del Nunzio Pontificio in Napoli con la
corte di Roma del 1599[6]. Il
fatto era gravissimo ed il Capitò veniva nuovamente incarcerato per ordine del
Viceré conte di Olivares, il quale ne dette espresso incarico al capitano di
Seminara con lettera del 25 giugno 1599[7]. Il
conte di Lemos, succeduto frattanto all’Olivares, il 25 luglio ordinava al governatore
di Calabria Ultra di mandare a Napoli alle carceri della Vicaria il Capitò, con
tutte le precauzioni necessarie a che non accadessero disordini[8].
Successivamente, in data 15 settembre 1599, il Viceré ordinava a Carlo
Spinelli, che era stato inviato in Calabria con pieni poteri per sedare la
congiura di fra Tommaso Campanella, di arrestare un Ettore Saijvedra di
Seminara, favoreggiatore delle rivolte dei preti e dei diaconi, che aveva
forzato le carceri e liberato il Capitò[9].
Però improvvisamente la situazione cambiò e si ebbe l’improvviso
cedimento da parte dell’autorità politica. Dal carteggio con Roma del Nunzio
Jacopo Aldobrandini[10]
si rileva che il Viceré, con grande soddisfazione del Pontefice, aveva promesso
di rimandare il chierico Capitò libero in Seminara. Con lettera del 30
settembre 1599 diretta al Capitano di Seminara il Viceré gli dava comunicazione
di aver deciso che il Capitò, già tradotto alle carceri della Vicaria, [345]
«fosse
liberato et rimesso nella chiesa donde fu estratto, acciò possa godere della
immunità ecclesiastica».
Veramente il Viceré non rinunziò mai al desiderio di veder punito il
Capitò. Nella lettera citata al predetto Capitano egli, infatti, così
continuava ingiungendogli di arrestarlo, nel caso che lo trovasse fuori dalla
detta chiesa:
«et come che
non per questo deve restare impunito del delitto per esso commesso vi dicemo et
ordinamo che trovandolo fuori della detta Ecclesia lo dobbiate carcecare et
inviare retto tramite in queste predette Carceri de la grave corte della
Vicaria con aviso nostro, acciò che avuto et visto per noi se possa provvedere
et ordinare lo dippiù».
L’ordine venne ribadito in una successiva lettera[11] al
Capitano di Seminara, il quale aveva lamentato che il Vescovo di Mileto non
avesse dato al Capitò altro castigo che quello di non uscire dal monastero:
«Il castigo
che si haverà da dare al detto Capitò non si ha dare dal detto Vescovo ma da
officiali regii e da noi, a chi tocca et compete dargli questo castigo… per
questo ve dicemo et ordinamo che dobbiate attendere alla puntuale exsecutione
di quanto da noi vi fu ordinato in l’havere in le mani detto Marco Antonio
fuori di ecclesia et inviarlo subito retto tramite in la Gran Corte de la
Vicaria».
Ma poiché mancano nell’Archivio di Stato altri cenni riguardanti Marco
Antonio Capitò è da credere che questi si sia guardato dall’esporsi, uscendo
dal monastero, al pericolo di essere di nuovo arrestato. Il Viceré, che era
stato costretto a cedere, non mancava di fare, presso la Santa Sede, le sue
rimostranze contro il Vescovo di Mileto, cercando di coinvolgerlo nella
congiura del Campanella e accusandolo di proteggere facinorosi e fuorusciti,
sicché il Pontefice dava ordine che il Del Tufo si presentasse a Napoli di
fronte al Nunzio, per chiarire la sua condotta.
«Si è doluto
il medesimo signor Viceré — scriveva in data 26 settembre il Cardinale di S.
Giorgio Cinzio Aldobrandini al Nunzio di Napoli — che il medesimo Vescovo di
Mileto dà impedimento alla giustizia, et protegge et ricetta huomini facinorosi
et fuorusciti, il che giustifica S. E. negli avvenimenti freschi di Calabria.
Et dice anche che egli mostra con parole e con fatti di tener poco conto degli
ordini che se gli danno di quà (sic)
allegandone alcuni esempi. Per il che comanda S. Beatitudine che V.S. lo chiami
a Napoli innanzi a sé, et prenda informatione esatta sopra [345] quei capi che
le saranno dati contra di lui et la mandi qui perché trovandosi veri penserà S.
Beatitudine di rimediarci gravemente. Faceva pure istanza il Viceré che
s’inviasse ordine a V.S. di assolvere il principe dello Sciglio, et certi altri[12] che il predetto Vescovo
tiene scomunicati, adducendo che un Marcantonio Capitò, che diede causa ai
rumori, dai quali nacque la scomunica fosse già restituito alla Chiesa».
L’autorità laica, dunque, aveva, purtroppo, dovuto cedere nell’affare
del Capitò. Intanto erano giunte a Napoli quattro galere con gli arrestati
della congiura del Campanella ed il Cardinale S. Giorgio, essendo stato
informato che fra di loro c’erano otto chierici selvaggi della diocesi di
Mileto, s’era affrettato ad insistere presso il Nunzio perché richiamasse
presso di sé quel vescovo. Ma il Nunzio aveva risposto chiedendo che gli fosse
ripetuto l’ordine[13]
.
Il Cardinale S. Giorgio rispondeva ripetendo l’ordine di far andare il
Vescovo predetto in Napoli con lettera del 17 dicembre 1599[14] e
scriveva al nunzio in data 19 novembre dello stesso anno perché questi
insistesse per la giurisdizione ecclesiastica sui chierici e sui frati
prigionieri[15]
Evidentemente alla Curia Romana si mettevano in relazione con l’atteggiamento
del Vescovo di Mileto gli arresti degli ecclesiastici di quella diocesi. Ma in
data 23 novembre e 26 novembre 1599 il Nunzio convocava a Napoli mons. Vescovo
di Mileto, inviandogli la seguente lettera:
«Perché pur
si stà (sic) in proposito che V.S.
Rever./ma debba venire quà son forzato replicarle che lo faccia quanto prima.
comanda così S.S. Meni anche con seco il suo teologo, che si vuol quà (sic)
ancor lui, et questa non sendo ad altro effetto per fine le bacio la
mano. Dio la conservi»[16].
Probabilmente il Del Tufo non ricevette mai questa lettera, perché
egli, impensierito senza dubbio di ciò che si diceva circa la sua
partecipazione, almeno col suo assenso, alla congiura del Campanella, s’era
messo in viaggio per via di mare per recarsi a Roma. I suoi nemici,
particolarmente il principe di Scilla ed il Duca di Seminara[17],
avevano approfittato della sua lentezza nel recarsi a Napoli per speculare e
per incitare l’animo del Viceré contro di lui. Il nunzio aveva potuto in
seguito, con le lettere che gli erano rimandate perché non recapitate,
dimostrare che il Vescovo non aveva potuto ottemperare agli ordini di recarsi a
Napoli, appunto perché non li aveva ricevuti[18]. Ma
poiché sembrava che il Vescovo [347] non avesse voluto ubbidire agli ordini del
Viceré, questi aveva voluto prendersi qualche soddisfazione. Erano avvenute le
propalazioni di Maurizio de Rinaldis e s’era sparsa la voce che il Vescovo di
Mileto era implicato nella congiura del Campanella. Era in realtà una diceria
non corrispondente a verità, ma sembrò avere un certo fondamento quando il Del
Tufo, mentre era in navigazione per Roma, era stato fermato, a Procida, per
ordine del Viceré il quale, secondo la voce corrente, aveva chiesto, ed
attendeva, il consenso del Papa per procedere contro di lui.
Il Vescovo era riuscito a farsi condurre in Napoli per presentarsi
immediatamente al Viceré e s’era fermato in un convento, insistendo per
continuare il suo viaggio verso Roma[19].
Queste notizie si rilevano da una lettera del residente veneto in Napoli al suo
governo, con la data dell’11 gennaio 1600 del calendario comune. In essa è
detto che il Vescovo
«aveva
trovato modo di farsi accompagnare in Napoli dal Gov.re di quell’isola sotto la
finta di voler rappresentarsi subito al V.Re».
Invece al Viceré s’era presentato sabato 6 gennaio in compagnia del
Nunzio, come comunicava lo stesso Nunzio il giorno 11 gennaio, in cui partiva
la lettera del residente veneto. La lettera con la quale il Nunzio dà notizia
al Card. S. Giorgio del colloquio tra il Viceré e il Del Tufo è
interessantissima.
«Il
ragionamento — scrive il Nunzio — fu un’amorevole monizione con dire che i
prelati si havevano a difendere con l’humiltà et carità e non con il punto et rigore
di Cavalleria, per che sen ben era Cavaliere Napoletano doveva ricordarsi più
d’essere Vescovo, et come tale procedere con ciascuno, et che non conveniva
ch’egli moltiplicasse tanto quei Chierici selvaggi, che desse occasione di
sospettare di lui, come aveva fatto adesso col difendere qualch’uno di quelli
che si pretendevano complici nella ribellione seguita, com’era un chierico
Cesare Pisano, in favore del quale si trovava fatto ex officio un Processo per
giustificazione del suo clericato per esprimerlo dalla Corte Secolare quando si
trattava d’un negotio così grave, et che era crimen Lesae Majestatis l’haver
permesso a Chierici, o non almeno castigato come si conveniva, lo sforzare le
carcere del foro secolare».
Viene qui la risposta del nunzio: certamente la carità e l’umiltà,
dovevano essere le prime armi dei prelati, ma quando esse venivano disprezzate
bisognava usare il rigore. Poi vennero le [348] giustificazioni del Vescovo: il
processo contro il Chierico Pisani[20] era cominciato prima che si sapesse
della congiura e la violazione delle carceri era stata conosciuta dal Vescovo,
tardi, dopo il fatto, ed era stata convenientemente punita. Quando ai chierici
selvaggi egli ne aveva, fatte le proporzioni, meno di qualunque altro vescovo
della Calabria.
«Scusò anche
la molteplicità di Chierici selvaggi, o coniugati sol dire che n’haveva manco
lui a proporzione, che alcun Vescovo di Calabria»[21].
Qui la conversazione prendeva tono amichevole. Con velata allusione
contro lo Xarava e il principe di Scilla, l’Olivares raccomandava al vescovo di
essere più cauto, promettendogli ogni appoggio, se fosse stato informato:
«Finalmente
la medesima Ecc.za restò quieta, et gli disse che in avvenire avvertisse di non
essere così sollecito nell’esecuzione delle scomuniche, perché se pure gli
seguisse qualche disparere coi ministri laici, troverebbe modo di dargli
soddisfazione, tuttora che ne fussi informata, et che in ciò non gli occorreva
altro sì che poteva andare dove voleva».
A questo punto il Vescovo, il quale aveva avuto notizia che era stato
dato ordine ai confini di non farlo uscire dal regno, chiese al Viceré un
passaporto e l’Olivares gli rispose cortesemente promettendoglielo.
«Crederò che
l’havrà avuto – scriveva il Nunzio al suo Governo – poiché non ho sentito altro
et che verrà costà secondo mi ha detto, dove occorrendo si potrà sentire più
particolarmente da lui il seguito, però non ne dico oltre»[22] .
Il Vescovo poteva così recarsi a Roma.
APPENDICE
[349] I1 Del Tufo tenne nel 1591 nella cattedrale di Mileto il secondo
sinodo della sua Diocesi. Gli atti vennero pubblicati a Messina nello stesso
anno.
Dal volumetto riportiamo, con lievi cambiamenti nella grafia, un brano
che dimostra che la difesa delle posizioni circa il diritto d’asilo e quindi la
posizione del Del Tufo nella controversia giurisdizionale, oggetto del nostro
studio, dipende non da naturale animosità, ma dal senso del dovere che gli
impone di conformare la sua opera alle disposizioni dei Romani Pontefici
particolarmente alla Bolla di Gregorio XIV (Vedi Bull. IX, 424). Il sinodo venne tenuto quando pendeva ancora la
controversia per l’affare Capitò.
Pag. 186 (Dal
Cap. IV – Le scomuniche riservate ai
vescovi).
Il Concilio
Toletano scomunica coloro che violentemente estraheno dalla Chiesa quelli che
ivi confugono, sopra che è da sapere che N. Sig. Papa Gregorio XIV per sua
perpetua constitutione che comincia Cum
alias, pubblicata in Roma alli 28 di Maggio 1591, modera, e riduce nella
maniera che segue tutte le facoltà, Priuilegi e indulti concessi da
qualsiuoglia Sommo Pontefice, e particolarmente da Pio Quinto e da la Santità
sua o da qualsiuoglia Ministro della Sede Apostolica a Principi o Corte
Secolari di poter estrahere o pigliare Laici delinquenti da dentro Chiese,
Monasterij, e luochi Sacri e Religiosi, se quelli Laici che confugiranno nelle
Chiese, et altri lochi predetti saranno pubblici ladroni, e assassini di strade
o rubatori di capi, o hauranno commesso homicidi, e mutilationi di membri in
esse Chiese o suoi cemeterij o a tradimento haranno ucciso alcuno, o saranno
rei di assassinio, o heresia, o di lesa Maestà in persona del Principe.
Comanda Sua
Santità a ciascuno Prelato e Superiore tanto Secolare quanto di qualsiuoglia
ordine Regolare, che effendo richiesta dalla Corte Secolare di fare dare e
consignare ad essa Corte i delinquenti predetti trouati nella sua Chiesa, o
monastero lo faccia senza pericolo di irregolarità o di censure ecclesiastiche
se a suo giudicio hauranno commesso alcuno degli delitti predetti, e vi sarà la
licenza del Vescovo o suo offiziale con interuento di alcuna persona
ecclesiastica da esso deputanda. Auvertendosi che non basta la licenza d’altro
Prelato o ordinari inferiore a Vescovo etiam nelli luochi assenti, et nullius
dioecis, ma in tal Caso l’authorità di concederla si devolue al Vescovo più
vicino, qual licenza taluente si ricerca che senza essa in nessun modo può la
Corte Secolare di propria autorità per pigliare e carcerare i delinquenti
predetti, eccetto in caso di esso Vescouo e le persone ecclesiastiche predette
richiesto come di sopra ricusassero e all’hora la cattura deue farsi con quanto
manco scandalo e tumulto si può. E che dopo che essi delinquenti saranno
estratti, e presi si riduchino alle carceri della Corte ecclesiastica con buona
custodia, se sarà bisogno della Corte Secolare, né da quelle si possono
estrahere [350] e consignare a Corte Secolare, ma per il Vescovo o Deputato da
esso non sarà conosciuto ch’essi hauranno commesso alcuno delli delitti
predetti.
In oltre
comanda che tutta la cognitione del heresia spetti al Foro ecclesiastico ne in
quello ò in qualsiuoglia modo s’intrometta sì come anco gli proibisce che non
possa né debbia intrometterse in conoscere o in estrahere dalle Chiese o
Monasterij etiam nelli casi predetti qualsiuoglia persona ecclesiastica
Secolare o di qualsiuoglia ordine e militia, etiam S. Giovanni Gierofolimitano
Regolari e contruueuendo estra li casi e delitti predetti o facendo alcuna cosa
fuori ò contra il tenore di detta Constitutione incorre ipso facto nelle
istesse censure e pene che da Sacri Canoni, Concili generali, e Constituzioni
di Sommi Pontefici son state promulgate contra li violatori della libertà è
immunità ecclesiastica.
(Sinodo – Diocesana – seconda celebrata dal M.ill.mo
e Reuerend.mo Mons. M Antonio del Tufo, Vescouo di Mileto nella sua cattedrale
nel Anno 1591. In Messina, presso Fausto Bofalini, 1591, pag. 186 e segg.).
Antonino BASILE, Conflitti giurisdizionali tra il vescovo di
Mileto in Calabria ed il viceré di Napoli sulla fine del secolo XVI, in Atti del 3° Congresso storico calabrese,
Napoli, Fausto Fiorentino Editore, 1964, pp. 341-352.
BELTRANO Ottavio: Breve Descrittione del Regno di Napoli
a. 1640 >
p. 105: Tabella: Signori Titolati, che sono in Regno, messi per ordine
d’Alfabeto:
– Principe di Carriati, Spinello.
– Conte di Santa Cristina, è il primogenito del Principe di Cariati.
p. 263-265: Tabella dei fuochi della Calabria ultra: Vecchia e Nuova
Numerazione: dati relativi a Seminara e ad alcune altre città:
Dove trovarete questo segno † sono le Camere riservate.
Vecchia
|
Nuova
|
|
1437
|
Seminara
|
1264
|
462
|
Bagnara
|
386
|
267
|
Bova
|
413
|
2296
|
Catanzaro
|
2406
|
191
|
Gioia
|
156
|
665
|
Melicucca,
e Drosi
|
1175
|
900
|
Melito
|
917
|
1640
|
Monteleone
|
2147
|
804
|
† Oppido
|
1023
|
508
|
Palma
|
617
|
1380
|
Reggio
|
1968
|
580
|
Rossarno
|
378
|
572
|
† Sciglio
|
522
|
444
|
† Sinopoli
|
573
|
542
|
† S.
Christina
|
804
|
2000
|
Taverna
|
1407
|
2419
|
† Terranova
|
1407
|
3104
|
Tropea
|
3537
|
Nomi delle Città, e Terre di demanio, cioè Regie, che sono nella
presente Provincia.
1430
|
Seminara
|
1132
|
1398
|
Cotrone
|
803
|
2299
|
Catanzaro
|
1884
|
685
|
Policastro
|
713
|
2380
|
Reggio
|
1546
|
3104
|
Tropea
|
3524
|
2064
|
Taverna
|
1398
|
Paga ciascun fuoco di questa provincia alla Regia Corte le medesime
imposizioni, che paga la provincia di Calabria Citra, però solamente differisce
nel pagamento del baricello, per lo qual pagamento paga grana due, e cavalli
dieci.
p. 263: «In questa provincia sono 16 città, delle quali Reggio, e S.
Severina sono Arcivescovadi, i Vescovadi sono Belcastro, Bova, Catanzaro,
Cotrone, Gieraci, l’Isola, Monteleone, Melito, Nicastro, Nicotera, Oppido,
Squillace, Taverna, e Tropea. Ha tra Terre, e Castella 136 che in tutto sono
155 oltre di quattro altre al presente distrutte, come Zurri, Sibari, Metapona,
e Medamo… E sono il castello di Tropea con quel di Reggio con 47 Torri per
guardia di questa provincia. In questa provincia risiede la Regia Audentia
nella città di Catanzaro…».
Ottavio BELTRANO, Breve descrittione del Regno di Napoli,
Napoli 1640.
F
FIORE Giovanni (†1683): Sulle origini di Seminara.
Vol. I (postumo a cura di Fr. Giovanni da Castelvetere cappuccino)
a. 1691 >
«MELICUCCA’…
…Ed ecco, con un sol frammezzo di Sole due miglia, in una vaga
collinetta
C. XIII. SEMINARA.
I. Di cui per intenderne la prima origine, è d’uopo far ritorno al
Fiume Metauro, raccordato nel principio di questo capo, ed alla Città Tauriana,
qual gl’era al lato; ma più prima le scorreva di mezzo. Taurinum la scrisse
Plinio (a), e secondo un’altra impressione, Tauroentum: corretto da Ermolao
Barbaro (b), e da Nono Pinziano, e restituito alla vera lezzione di Taurianum.
Tauriana la scrisse Stefano (c); onde nacque, ch’or Tauriano, or Tauriana,
prese a scriversi; Pietro suo vescovo, qual fioriva circa il settecento
settant’otto, così ne discorre (d).
II. Dice addunque, che la fondò un tale per nome Tauro; e quindi
chiamata ne venne Tauriana. Etenim Taurus quidam extitit Urbis fundator, qui
ipsius amore captus, eam pro suo nomine Taurianem indigitavit. La fabricò di
quà, e di là dal fiume, ampissima di sito, e superba d’edificij; Haud certe
ignobilem, imo vero quam illustrissimam, cuius reliquiae insigniaque ad nostra
usque tempestatem manent. Hic inde in utraque ipsius fluminis parte extantia.
Aeternemque splendorem, atque ipsius magnificentiam ostendentia [? testo
restaurato e poco leggibile perché coperto da velina]. Discorre così però che
di quel tempo, l’una parte era già vuota d’Abitatori, mercè alli gravi scosse
patite da più popoli, com’egli apertamente vi soggionge; Tametsi […]
p. 149:
iam annis locus ille passus est eversione.
III. Anzi da quinci prese la nominanza di Metauro quel Fiume: cioè
perche scorresse nel mezzo della Città detta Tauro, o Tauriane. Quoniam igitur
medium Tauri Urbem flumen, interfluit, proinde iam tum Metaurus est dictus,
idemque in praesenti retinet nomen. Ma qui sorge non lieve difficoltà,
conciosiache, come più avanti dicevamo con Strabone. La Città qual fioriva a
canto di questo Fiume era Metauria, oggidì Gioia, o alquanto differente di
sito, non già Tauriana, & eiusdem nominis statio: Però è facile la risposta
col dire, ch’amendue queste Città furono in questo tratto di Paese, così che
Tauriana accoglieva nel mezzo il Fiume; Metauria gli stava lontana.
IV. Mà poi perche più tosto la lontana, che la vicina Città, si
denominasse dal Fiume: La risposta è pur pronta, quando il Fiume avea preso il
suo nome da Tauriana, giusta che or si è detto, col bagnarla di mezzo: dove che
Metauria dal Fiume avea preso il suo. Onde viene in filo, che più antica stata
fosse la fondazione di Tauriana, che di Metauria, e forse, da quel primo, o non
molto appresso, in cui si Abitò la Calabria. Così adunque questa chiarissima
Città essendo per più secoli, e prima, e dopo la venuta di Christo, fiorita in
braccio alla felicità, Sedia Vescovale rinomatissima cominciò a pruovare per
l’una parte (forse come più esposta, e meno difesa) gl’assalti nemici; tanto
che finalmente a tempo del Vescovo Pietro, e molti anni avanti, era vuota
d’Abitatori.
V. Disavventura, alla quale non olto doppo soggiacque l’altra metà;
rimanendo affatto rovinata. Del tempo dell’ultimata sua rovina, vi è qualche
divario tra Scrittori. Girolamo Marafioti (e), ne dissegna il mille
settantacinque; mà con aperto errore, perche del mille settanta trè abbiamo la
sua Sedia Vescovale, traportata in Mileto dal Conte Rogiero. Barrio (f), ne
disegna il tempo del B. Nilo, che
Gualtieri (g), lo singolarizza al novecento. Mà certa cosa ella è, che l’anno novecento,
e trè Taurianum era in piedi; impercio che transferendosi con solenne pompa il
corpo di S. Elia Basiliano, rapporta lo Scrittore della sua Vita, che i suoi
Monaci d’Aulina, gli vennero all’incontro fino a Tauriana; onde ne traggo la
conghiettura, ch’ella avesse al’in tutto mancato, ne’ novecento cinquanta, in
cui fù l’universalissima Inondazione de’ Barbari, con la rovina di molte Città,
e Vescovadi. Questo quanto alla già fù Tauriana.
VI. Ora veniamo all’oggidì Seminara. Io non approvo l’opinione di
Paolo Merola (b), e degl’Autori del nuovo Atlante (i), che Seminara fabricata
si fosse nel sito medesimo di Tauriana, ubi Taurianum [?], apparendone, tra
l’una e l’altro un frammezzo di alcune miglia. Approvo si, che deli estesi
ancor lo scrisse Filippo Ferrario (k), che la gente sopravanzata insieme col
loro Vescovo, l’abbia piantata ove oggi dì si vede quella Città, la quale con
beneficio del sito commodo, e dell’aria salutevole tosto accresciuta di popolo,
divenne l’una delle migliori di quel tratto, con la giurisdizione di cinque
Villaggi, Strangi, Sant’Opalo, e Pesolo, già rovinati; Palmi di presente
alienato; sì che non le sia rimasta, che Sant’Anna; di cui si fà raccordo
nell’Itinerario d’Antonino Cesare, sotto nome di Decalstidio. Con tutto ciò
ella è popolata sì, che può racchiudere nel suo seno mille cento trentadue
Fuochi.
VII. Frà Leandro (l), la celebra come paese bello, e fertile. Barrio
ne scende al particolare, Fit hic ferici, & olei probatissimi copia: olivae
crassae, & carnose sunt, quales Melichochiae. Fiunt telae nobiles, nascitur
Vinum non vulgare, & gipsum speculare; Fiunt aucupia phasianorum
extornarum, & aliarum alitum.
VIII. Città che sovente ricevè l’onore della presenza de’ Principi
grandi: cioè di Re Ferdinando II, e dell’Imperator Carlo V., come dimostra
l’inscrizione su’l frontispizio della Chiesa dello Spirito Santo. Anno 1533.
Carolus V. Romanorum Imperator semper Augustus, post quam debellavit
Carthaginem, ingressus est Seminariam, tertio Novembr. die Mercurio, & n
quarto mensis eiusdem recessit. Di questa Città alcuni affari spettanti a
tumulti di guerra, vedili negl’anni di Christo mille duecento ottandadue, mille
duecento ottant’otto, mille duecento novantasette, milleduecento
novantaquattro, del Capitolo V. della Calabria guerriera.
IX. Quanto poi a gl’Uomini illustri d’amendue le Città Tauriana, e
Seminara, sol differenti di sito, e che la Calabria illustrarono, furono
Gregorio, Georgio, Lorenzo, Opportuno, Paolino, e Teodoro, tutti Vescovi. Li
SS. Martiri Teodolo, e compagni, S. Georgio, e S. Giovanni. Di Seminara propriamente Ferrante
Spinelli, Giovanni, Barlaamo, Francesco Sopravia, Guglielmo Fantino
Conventuale, Tomaso frate Domenicano, Iacopello de Frachis, Benedetto, Pietro,
e Giovanni Frati Minori Cappuccini; Accresce i titoli con quel di Duca della
Famiglia Spinelli, Principe di Cariati.
C. XIV. PALMI.
I. Era egli, come di sopra si è tocco, Villaggio di Seminara; ma nel
corrente secolo sinembrato, e venduto a’ Marchesi d’Arena…».
Giovanni FIORE, Della Calabria illustrata, Napoli, 1691, vol. I°, p. 148-49.
Vol. II, Napoli 1743, postumo a cura di fra Domenico Badolato:
p. 21:
«[…] San Mercurio, ed altri diecennove ne’d diece Decembre del 253…»
p. 22:
«SECONDA CLASSE DI MARTIRI.
[…]
L’anno 904, quando il medesimo Abraimo non sodisfatto della sanguinosa
stragge recata dal figliuolo, vi passò in persona, insanguinando il barbaro
ferro da Reggio a Cosenza.
L’anno 913…
L’anno 950. in circa a tempo del B. Nilo, quando tutta la Calabria, e
la Puglia, e Lucania insieme si viddero naufragare nel proprio sangue: Rovinate
le Cattedrali co’ loro Vescovi. Abbruggiati i sagri Monasterj dell’uno, e
dell’altro sesso, e loro Religiosi, e Religiose menati a fil di spada.
L’anno 986.[…]
L’anno 1004. e 1014. […]
L’anno 1027. […]».
p. 43:
«II. DI S. FANTINO ABATE.
Tauriana, Città oggidì destrutta, se non sol quanto dalle sue rovine
rinacque in sito poco distante la Città di Seminara, fu la Patria di questo
Santo […].
…E quantunque avvisato dal B. Nilo (che non lungi dal suo Monastero di
S. Mercurio in una grotta affligeva il suo corpo in penitenza)…
Già molto vecchio volò al Cielo dopo il 950. li 30. Agosto e però la
sua festa si celebra il 24. Luglio…».
p. 44:
«V. DI SAN NILO ABATE.
Ebbe i suoi natali questo Santo in Rossano l’anno 905.…
p. 45:
[…] Non ebbe ferma la stanza; conciossiache vestito del sagro Abito
del Monasterio di S. Nazario, indi passò a quel di S. Mercurio…
[…] volò al Cielo li 26. Settembre del 1000.».
p. 46:
«VIII. DI S. ELIA ABATE.
Per l’intendimento della vita di questo Santo Abate abbisognerà
presupporre, che due furono li Santi di tal nome, nostro l’uno, Siciliano
l’altro, li quali avendone avuti medesimi non pur li nomi, ma le operazioni,
essendone vissuti nel tempo medesimo, con ciò anno dato occasione a qualche
sbaglio. Fù questa avvertenza del P. Ottavio Cajetano (a)[23],
onde così ne lascio scritto: […] nam
alter Elias senior Ennia in Sicilia natus, Elias junior Rhegii in Calabria.
[…]. Nacque il nostro Elia in Reggio dalla Famiglia Bozzetta originaria di
Reggio: suo padre ebbe nome Pietro, Leonzia sua madre…
p. 47:
Ma poi […] lasciato questo Monasterio, passò ne’ Monti sopra Seminara,
dove fabricato un’altro Cenobio menava vita troppo austera. La moltitudine sì
de’ miracoli, sì dele profezie
tosto lo rese famoso da per tutto: onde da per tutto correndogli dietro
la gioventù, rese numeroso quel Monasterio d’Allievi santi, fra’ quali furono
Luca, Vitale, Cosimo, Filareto tutti santissimi Monaci. Egli poi arrivato
all’età d’anni 90. de’ quali 68. n’aveva logorato alla penitenza, riposò nel
Signore gli undeci Settembre del 1050. Il suo corpo trasferito nel Monasterio
di S. Elia sopra Galatro giace nascosto agli occhi umani; il capo però oggidì
si conserva nel Monasterio vicino Seminara di Monaci Basiliani, detto S.
Filareto…».
p. 66:
«I. DI SAN FANTINO. [da ricopiare per intero][24].
Nacque questo Santo nella Città di Tauriana, e furono suoi Genitori
Fanzio, e Deodata, li quali essendo sterili…
Essendo in età d’anni 12. uscito fuori in campagna si vidde
all’incontro una Cerva, con nelle corna molte Croci, dalle quale con voce umana
articolata venne invitato, ch’il seguisse, soggiengendogli, che già era il
tempo in cui, e fosse caccegiato, e caccegiasse. Camminando addunque dietro la
Cerva lo spazio di due miglia, ed ebbe all’incontro nelle porte d’una spelonca
un venerabile Vecchio, al quale la notte dianzi apparso Cristo, gli comandò,
che venendogli la mattina Fantino, l’istruisse nella sua Fede… Indi la notte
battezzandolo…[…] Forte si maravigliò il padre… […] amendue [= padre e madre]
si risolsero al battesimo… Tratto dal carcere Fantino, e ritornato in Tauriana,
non avendo di che vivere, essendoche l’avere paterno era caduto all’Imperial
Fisco si pose a servire Belsaminio Governadore del Luogo, nella guardia de’
Bovi.
p. 67:
[…] ed arrivati al Fiume Metauro, che molto ingrossato scorreva…
[…] Un nobile per nome Andrea…
[…] L’anno 780. in circa Giovanni Vescovo di Tauriano, con altri
Vescovi navigando in Costantinopoli all’Imperador Leone Porfirogenito…
[…] Intorno all’anno, che questo Santo volò al Cielo egli fu circa il
336…».
p. 433:
« Seminara. S. Mercurio, Monastero numeroso di 40. Suore della prima
nobiltà, e di Seminara, e della Provincia, fabricato nel già fu Castello de’
Spinelli circa l’anno 1578.
L’Annunziata altresì Monastero di molta nobiltà. Lo vi fondò Nicolò
Reggio, Gentiluomo della medesima Città, circa il 1637».
{da integrare ancora con altri numerosi estratti, che possono trovarsi
nel vol. I e II non corredato da adeguato indice}.
Giovanni
FIORE, Della Calabria illustrata,
Napoli, 1743, vol. II°. Pagine sopra indicate.
G
GALASSO: Estratti su Seminara: Economia e società nel Cinquecento
19923>:
p. 72: Seminara feudo degli Spinelli
«Feudo degli Spinelli, che nel 1495 le avevano acquistate da Ferrante
II l’una per 4mila e l’altra per 3mila ducati, erano Seminara e Santa Cristina.
Su Santa Cristina si accesero col tempo grossi debiti, ma la terra rimase agli
Spinelli. Seminara fu invece venduta nel 1578 da Scipione Spinelli, conte di
Cariati, ai Ruffo di Sinopoli per 100mila ducati. L’università, avuta notizia
della vendita, preferì allora riscattarsi al demanio, pagando essa i 100mila
ducati che sarebbero stati ricavati dalla vendita[25].
Pur non essendo riusciti ad acquistare Seminara, i vari rami dei Ruffo
possedevano sulle ultime sponde tirreniche della Calabria una posizione
oltremodo importante. Possedevano fin dal 1462 Bagnara, che aggiunsero al loro
antico dominio di Sinopoli…».
p. 96 […] 97:
«Nella documentazione relativa al periodo in cui, dopo la seconda e
più famosa congiura baronale contro Ferrante, in moltissime terre feudali si
installò l’amministrazione regia, durandovi per alcuni anni fino al ritorno dei
vecchi o di nuovi signori, le richieste avanzate al re da parte delle
popolazioni interessate danno un ulteriore e chiara dimostrazione della
fortissima accentuazione delle proprie attività economiche che è stata operata
dalla classe feudale e che ora i funzionari regi proseguono tal quale. […] La
università di Seminara lamenta, a sua volta, nel 1492 che < la corte de sua
Majestà se ha pigliate ultra cento salmate de terreni per la defesa de le sue
iomente, quali terreni per la maior parte sonno de particulare persone per le
quale pateno grandissimo interesse per non havere da quelle reddito, et per
havere perduto la industria de fare bestiame et non poterse comodamente fare
massarie >[26]
».
p. 115 ss. e nota: sulla reintegrazione dei baroni ribelli nei loro
possessi e sull’impossibile allenza del re con i comuni:
«…in questo comportamento della Corona è implicita una precisa
valutazione di ordine politico per cui, da un lato, la feudalità viene ritenuta
di gran lunga più forte dei comuni e, dall’altro lato, una lotta a fondo contro
di essa, portata alle ultime conseguenze della spoliazione del baronaggio e
della demanializzazione delle terre, non viene ritenuta suscettibile di
successo. Sta di fatto che, quando il re vuol dare una assicurazione
dell’ordine ristabilito nel Regno ai sovrani ai quali invia ambascerie, il
punto sul quale egli insiste è quello del restaurato accordo coi baroni. Il che
non impedisce che, in alcune delle terre confiscate ai ribelli, il re
faccia vendere i beni stabili e le entrate spettanti ai rispettivi signori…
L’ordine era
il seguente: «Quanto tocca alle cose stabili come so vigne, case, herbaggi,
molini, maese, jardini, oliveti et altre cose simili, volimo che in tutte le
terre et lochi notati et sottoscritti in lo presente capitolo debbeate de tutte
le cose predicte fare essito, excepta delli molini et delli herbaggi, et le
vendate etiam quo ad dominium et proprietatem per quello maiore precio ne
trovarite, consultando di questo con lo nostro governadore in decte terre, et
facendoce intervenire doi o tre uomini da bene che se ne intendano della valuta
di decte robbe, acciocché nostra Corte non fosse ingannata; et con la
interventione delli predecti governatori et huomini da bene ne farrite
liberamente exito…, facendo in nome di nostra Corte tutte le cautele saranno
necessarie a li compratori, in modo che possono accettare securamente. Et così
farete exito et vendite delle baglie et omne altra intrata spectante a barone
che nostra Corte havesse in decte terre, etiam quo ad dominium et proprietatem,
procurando però che le dicte vendite se facciano con li incanti et debite
subhastationi, secondo è solito et consueto quando la Corte vende, sì per la
utilità di ipsa nostra Corte, come per la securità delli compratori. Li molini
et herbaggi volimo li arrendate et affictate singulis annis, servatis
servandis, per quello maggior prezzo ne trovarite». L’ordine è del 16 agosto
1487. In Calabria – dove furono a questo scopo inviati Francesco Scorno,
Domenico Lettera e Polidoro Gagliardi – l’ordine riguardava le sefuenti terre:
Laino, Orsomarso, Casalnuovo, Bisignano, Acri, Rose, San Marco, Malvito,
Altomonte, Belvedere, Saracena, Morano, Cassano, Tarsia, Strongoli, Le
Castella, Cirò, Squillace, Nicastro, Maida, Feroleto, Rocca d’Angitola, Pizzo,
Mileto, Francica, contea di Arena, contea di Stilo, Seminara, Oppido e
Gerace…Cfr. Regis Ferdinandi I
Instructionum Liber, … per cura di L. Volpicella, Napoli 1916, pp. 135-136
e 138. L’esito dell’operazione non ci è noto, ma il demanio feudale non dovette
tardare a ricostituirsi ben presto, nelle mani dei vecchi o di nuovi signori…».
p. 104, nt. 11: dissesto geologico: fiumara:
«…Per i dissesti del terreno non bisogna pensare soltanto alle
maggiori calamità naturali, bensì anche e soprattutto ad eventi, per così dire,
quotidiani. Su di essi ci offre una ricca documentazione proprio la serie delle
informazioni per i relevii…
(1554, in ASN, Relevii, vol. 349, c.
246r.). (ivi, c. 222r.)».
p. 110: decremento di popolazione di Seminara in controtendenza con il
fenomeno generale:
«…Considerazioni analoghe si possono ripetere per la Calabria
Ulteriore, dove emergono per il rapido incremento Gerace (da 1030 a 1327),
Stilo (da 995 a 1593), Reggio (da 2380 a 3546) […] e – per la ragione opposte –
Crotone (da 1398 a 803), Taverna (da 2000 a 1400), Terranova (da 2419 a 1735),
Seminara (da 1430 a 1132)…».
p. 125, nt. 26: sulla figura del massaro e sui cereali:
«Ci sono feudi che rendono soltanto in cereali. Cfr., ad esempio, ASN,
Significatorie e petizione di relevii, II serie, vol. 37, cc. 172 v.-173r.:
Giacomo Antonio Selvaggio, relevio in morte dell’avo omonimo per il feudo di
Cannava nelle pertinenze di Seminara, che rende tomoli 22 di grano (1603); …».
p. 149: sulla coltivazione dei gelsi nel “giardino”:
«…E certamente il fatto che il gelso entrasse assai spesso come
elemento predominante nel quadro del “giardino” dovette contribuire al
progresso della tecnica di coltivazione. Notevole è l’attestazione di intensa
concimazione del terreno destinato ai gelsi. Il relevio per un feudo in agro di
Palmi di Seminara nel 1592 menziona le spese per . Anche gli animali grossi concorrevano a questi
lavori e, naturalmente, ne accrescevano il costo: , e un altro teste riferisce che [27]»
p. 151: sulla produzione della seta:
«Il vero e proprio boom
della seta calabrese si ebbe, tuttavia, come s’è visto, nella parte meridionale
della regione, e più propriamente nell’area compresa tra il bacino del Mesima e
quello dell’Angitola. Monteleone divenne così la seconda capitale della seta
calabrese, concentrandone ordinariamente un buon quarto e, rispetto alla sola
Calabria Ulteriore, circa i due terzi della produzione. Lungo la costa
tirrenica a sud della foce del Mesima e fino al Capo Spartivento la diffusione
proseguì – con centro a Seminara e, soprattutto, a Reggio –, ma con intensità
già minore…».
p. 157-162: L’olivo e l’olio:
[157] «È difficile dire con sicurezza quale coltura si possa far
seguire per importanza, nel quadro della Calabria del ’500, ai cereali, al
gelso e alla vite, ma che il quarto posto vada attribuito all’olivo rimane, nel
dubbio, ciò che è di gran lunga più probabile. Due erano i centri principali
dell’olivocultura regionale: l’uno, più vasto e diffuso, sul Tirreno tra
Rosarno e Seminara, l’altro sul Jonio tra Corigliano e Cariati, con centro a
Rossano; ma zone importanti di produzione si avevano un pò in tutta la regione,
e in particolare a ridosso della piana di Santa Eufemia, nei territori della
baronia di Bianco, della contea di Condoianni e del [158] marchesato di
Castelvetere e, infine, lungo la valle del Crati. A difendere l’olivocultura
concorrevano due elementi di considerevole importanza. Il primo era costituito
dal fatto, piuttosto insolito per quel tempo, che le olive rimasero fino al
1615 “franche et esempte da qualsivogliano deritti perchè liberamente si
extrahevano per infra et extra Regno”[28],
laddove l’olio era soggetto ab antiquo
ad imposizioni che, al pari di altre, furono, nella seconda metà del secolo
XVI, notevolmente sconosciute. Il secondo era costituito dal fatto che il
consumo delle olive da tavola era nel Regno assai forte, “maxime per esserno le
olive lo companaggio di tanti et tanti poveri che sono in Napoli et per lo
Regno”, e la loro preparazione assai più semplice ed economica di quella
dell’olio, “atteso per converterle in oglio bisogna spettare che si maturi, che
se raccogli et che si macini” e “al più per ogni tumulo e mezzo de olive se ne
caverà uno staro di oglio, dal quale staro di oglio, et dopoi che sarà
purificato, se ne perceperà da otto a nove carlini, in modo tale che
considerata la spesa in raccogliere macinarle et purificarlo verrà a fruttare
meno di seie carlini ciascheduno tumulo d’olive”, laddove “le olive che si
consumano per mangiare si raccoglieno prima di maturarnosi et si curano con
acqua et sale senza lo tanto travaglio et spesa come si fa di quelle per oglio”[29].
Nonostante, però, la diffusione della coltura va tenuto presente che ancora nel
1640 le esportazioni calabresi di olive “concie infornate et verde” sul
principale mercato del Regno, ossia a Napoli, venivano giudicate non superiori
alle cento tomola contro le circa 5.700 tomola che vi venivano immesse dai
luoghi di Terra di Lavoro[30]:: il
che ci fa pensare che, in misura ancora superiore a quanto accadeva per altre
produzioni calabresi, le olive fossero destinate al mercato regionale.
Non era così certamente per l’olio, che veniva ordinariamente
preparato tra la fine di novembre e quella di dicembre in trappeti che erano
assai spesso mossi da cavalli, ma non di rado anche dall’acqua corrente, e che,
negli [159] anni in cui gli olivi non caricavano (almeno un anno su due),
nonché in altri periodi e circostanze, venivano utilizzati per la macinazione
della mortella della quale ci si serviva, come è noto, nella manifattura di
tessuti[31].
L’olio veniva tratto non solo dalla polpa delle olive, ma, in una seconda
macinazione, anche dai noccioli e dai residui di polpa che vi restavano
attaccati e «la differentia che è dal oglio de noczole al oglio de polpa (sta
in ciò che il primo) è solito valere lo terzo meno de quello de polpa»[32];
e costituiva una delle voci più importanti dell’esportazione calabrese, anche
se la parte di altre province del Regno (specialmente quelle pugliesi) era nel
complesso maggiore: basti, del resto, pensare che Lipari si riforniva di olio a
Gallipoli.
Il Moschettini e il Grimaldi, che nel secolo XVIII si [160]
occuperanno con fervore illuministico dell’olivoltura meridionale, ebbero modo
di rilevare alcune caratteristiche antiche e tradizionali di essa in Calabria.
Il Moschettini rilevava, ad esempio, che “non ha l’alta Italia ulivi così
grandi come quelli che crescono nelle Sicilie… Niuna delle province del Regno
di Napoli ha gli ulivi della grandezza di quelli della Calabria meridionale e
del Valdemone in Sicilia»[33]; e
che “nella Calabria, come ne’ territori di Nicastro, di Palmi, di Geraci un
olivo ben condizionato dà dieci e più tumoli di frutto”[34]. Il
Grimaldi attestava che in Calabria nel territorio di Seminara da tempo
immemorabile si soleva propagare l’ulivo con la tecnica dei “novoli” o “occhi”,
laddove “negli altri paesi oleari della Calabria questo modo di fare i semenzai
come usano i Seminaresi (era) ancora ignoto, propagandosi gli ulivi o co’
piantoni che si levano dal piè dell’ulivo, o col sotterrare il tronco del
medesimo, o pure coll’annestare gli ulivi selvatichi o sia oleastri, modi tutti
mal sicuri e lunghi relativamente a’ semenzai”[35].
[161] Ancora il Grimaldi osservava che “tutti gli oliveti, che trovansi al
presente nella Calabria e nelle altre provincie del regno di Napoli, sono
piantati a caso senza alcun ordine, perché le piante non rispondono l’una con
l’altra, e sono così strette e confuse, che sembrano boschi foltissimi… e sotto
niente si può seminare”[36]. Dal
canto suo, il Moschettini notava pure come nel Mezzogiorno vi fossero
moltissimi olivi, «che, piantati tra un masso sassoso, non è possibile in
distanza di molti piedi dal ceppo trovar luogo, in cui la zappa o la vanga
penetrasse. Intanto la loro vegetazione è nullameno degli altri prospera, e
sono più degli altri fruttiferi»[37].
p. 185: Seminara nel panorama agricolo della Calabria:
«…Accanto a queste tre zone, che per molti versi primeggiano nel
panorama agrario della Calabria cinquecentesca, altre zone di eguale, e
talvolta superiore, complessità si possono riconoscere lungo la riviera
tirrenica (ad esempio, Seminara, alla quale un agente mediceo attribuisce nel
1550 una produzione di 30mila libbre di seta e 20mila barili d’olio, nonché
“assai grani et vini”; e Nicastro, che Scipione Ammirato definiva “luogo molto
ben abitato et forse posto nel migliore et più ben coltivato paese di tutta la
Calabria)[38]…»
p. 187: panni di lana:
«Manifatture di panni di lana di un certo rilievo vengono dal Barrio
segnalate a Morano, Castrovillari, Bisignano, nei maggiori Casali di Cosenza, a
Montalto, Tropea, Polistena, Seminara, Santa Caterina, Badolato, Catanzaro.
Questa produzione di panni non era molto pregiata, in quanto, come del resto in
tutto il regno, venivano lavorati solo “panni grossi d’inverno et altri per
lutto e per infodare”[39], che
andavano alle fieri e ai mercati locali. Nelle fiere più importanti del Regno,
per quel poco che se ne ha documentazione, e a Napoli non se ne trova traccia
rilevante […]. Il che non toglie che tele e velluti calabresi avessero una
propria vitalità commerciale e fossero espressamente richiesti […], ma spiega
come l’importazione di panni fosse in Calabria assai intensa…».
p. 194: pece:
«Nella regione si sfruttavano poi, ma, per la verità, non molto
intensamente, alcune risorse minerarie o forestali locali: in particolare, l’
“argentera” di Longobucco, le miniere di ferro, specialmente di Stilo e del suo
territorio, la pece, fabbricata soprattutto a Bova, a Seminara e a Santa
Severina, e soprattutto il legname un po’ dovunque sui declivi boscosi della
regione…
p. 198:
La preparazione della pece aveva luogo, a sua volta, in molti luoghi,
ma specialmente in alcuni centri: Bova, Sila di Cosenza, Policastro, Santa
Severina, Amendolara e Cariati|… Non sempre la produzione calabrese godeva di
buona fama. Nel 1599 la Sommaria osservava, a proposito di quella venduta alla
Corte dal Duca di Seminara e prodotta nel territorio di Cariati, che essa era
di pessima qualità e che bisognava farla raffinare[40].
Anche la produzione di Cariati era limitata: poche centinaia di cantara[41]».
p. 201: depauperamento del patrimonio boschivo:
«…È anzi probabile che la lunga fase di sviluppo demografico
attraversata dalla regione nel corso del secolo XVI abbia recato un contributo
rilevantissimo al plurisecolare processo di rovina del suo patrimonio boschivo[42],
segnandone una tappa decisiva».
p. 206: città e campagne:
«…Ma lo sviluppo complessivamente positivo dell’economia regionale
durante il secolo XVI sollecitava pur sempre la concentrazione e il progresso
delle funzioni urbane. Basti pensare alla facilità e rapidità con cui Reggio si
riprese dalle numerose devastazioni barbaresche. Lo sviluppo della vita civile
ebbe anzi un riconoscimento anche sul piano amministrativo con l’istituzione di
una Udienza provinciale anche nella parte meridionale della regione, tradizionalmente
dipendente dall’Udienza cosentina; e non è senza importanza il fatto che almeno
tre centri – Reggio, Seminara e Catanzaro – si contendessero il privilegio
della residenza della Udienza[43]».
------
Pag. 230, nt. 5: Descrizione in un documento del 1573, relativo a
Seminara, delle funzioni espletate dall’ «erario», cioè una sorta di esattore
feudale del signore del luogo:
«Lo predetto illustre Duca di Seminara fa esigere li soi entrate tanto
baronali feudali, come burgensatici, dalo erario et quello ha carrico di
affittare li terragi et esigerli, vendere li fondi deli celsi et esigere li
dinari, fare cultivare le vigne et li giardini, ingabellare li olivi et esigere
l’oglio, vendere la ligname de li boschi di castagna et così li molina, che
sono tre, et dui trappiti, tanto in Seminara come in lo casale de Santa Anna
dove li provedi di cofini, sporti, fusi, manigli, chianchi et trappitani et de
tutte le altre cose necessarie, con grandissima fatica et travagli che bisogna
di continuo vacare et assistere ali servitii de detto erariato» (ASN, Processi
antichi. Pandetta nuovissima, n. 1.967/53.062).
Pag. 244: questioni relative, in Seminara, nel 1573, alla riscossione
feudale che tende ad essere affidata ad un esattore generale:
«…Un altro aspetto della questione è messo, invece, il luce dai capi
di accusa presentati, nel 1573, dall’università di Seminara contro il suo duca.
Una gran parte dei censi fissi gravanti sulle terre sottoposte al vincolo
feudale risalivano, infatti, ad epoca antichissima. Erano perciò di importo
minimo e le relative voci acquistavano rilievo, nel quadro delle entrate
feudali, per il loro numero, grande specialmente nei feudi più importanti e
nelle zone di più antica colonizzazione. Senonché, la levità col tempo
acquistata dal canone era un’altra ragione di difficoltà nell’esigerlo, poiché
giustificava o incoraggiava i rifiuti e le dilazioni dei censuari, mentre altre
difficoltà erano dovute ai complicati rapporti di successione e alle
alienazioni che, dopo tanto tempo, erano venuti a mutare i possessori e a
rendere spesso incerta la individuazione di coloro ai quali spettava l’obbligo
di corrispondere in censo. L’università di Seminara ricordava perciò «come ci
sono d’esigere in detto erariato da circa ducati novanta di censi, li quali sono
assai fastidiosi di esigere perché ni sono molti di uno e di dui grana et mezo
grano, et de piccioli seu denari, et la megliore parte sono di poco quantità
che a pena passano dui carlini, et quando l’erarii non li esigevano lo predetto
Illustre Duca ci l’ha fatto pagare de proprio ad essi erarii, li quali sempre
si lamentano che [245] non li potevano esigere, et il Signor Duca ci li faceva
pagare». Non sempre era, però, possibile mettere riparo così ad una dinamica
umile, ma spontanea e tenace di defeudalizzazione, connessa con la già
segnalata spinta dal basso alla trasformazione agraria, nella misura in cui
essa era avvertibile e consistente, e col prevalere larghissimo della piccola
conduzione quale criterio d’uso della parte del demanio feudale lasciata in
colonia alle popolazioni. Nel caso di Seminara l’imposizione del duca agli
erari di pagar essi i canoni non riscossi e la difficoltà di esigerli rendeva
difficile il reclutamento dei funzionari per l’amministrazione feudale.
Seminara citava il caso di tale Gio. Vincenzo Phone (?), che, nominato erario
del duca, “volse pagare a chi da parte sua voleva fare detto officio docati
ottanta, et havendo ricercato a molti con la detta offerta, nisciuno volsi
acceptarlo, perché li pareva poco lo salario, et lo fastidio et lo travaglio
del erariato era, come è, grandissimo et danoso”; e citava il caso di tale Gio.
B. Spoliti, che, a sua volta, “essendo stato eletto erario dal Signor Duca, per
non fare l’erariato offersi a notar Iacobo Paparone ducati cento che lo facesse
da parte sua, et non lo volse fare, che ne voleva cento et diceotto”, sicché,
insistendo lo Spoliti a rifiutare il carico affidatogli, il dca lo aveva fatto
“carcerare in una fossa, dove è solito carcerarsi homini per la vita, et de
illa non lo cacciò mai finché non si fece promettere di fare l’erariato, et
detto Io. Battista per detta causa si partio di casa sua et andò vagando per lo
territorio et al’ultimo si morse ala montagna fra pochi giorni, che li animali
l’havevano incominciato a mangiare la faccia”. In altri casi eccessi simili,
per l’uno o per l’altro motivo, non saranno stati consigliabili, e
l’obsolescenza del vecchio sistema di contribuzione censuaria avrà fatto
sentire senza attenuazione i suoi gravi inconvenienti di fastidi e di difficoltà.
Lo stesso documento seminarese ci dà, inoltre, l’occasione di cogliere
attraverso le prepotenze del duca, una difficoltà ancor più sostanziale.
Secondo l’accusa, infatti, il duca avrebbe costretto “li erarii a spendere de
dinari loro proprii nello principio dell’annata, et a mala pena li rihaveno al
fine dell’anno, perché al principio non ci hanno entrate di esigere che
bastassero ala coltura dele robbe de detto Signor Duca, et al’ultimo per [246]
haverno la leberatoria sonno costretti a ritenersi per loro li residui deli
debiti, et loro pagano di bursa propria”. E non ci vuol molto a capire che,
quando non si volesse o potesse ricorrere alla prepotenza, la necessità di
anticipare i capitali necessari alla coltivazione delle terre doveva essere un
incentivo ulteriore, e tra i più forti, all’affitto generale delle entrate
feudali»[44].
GALASSO
Giuseppe, Economia e società nella
Calabria del Cinquecento, Napoli, L’Arte Tipografica, (s.d. ma 1967).
*
GALLUCCIO Teresa e LOVECCHIO Francesco: La Varia. Storia e tradizione,
Palmi, 2000, © Golem, Rem Edizioni. Volume, di pp 123, catalogato in Palmi Casa
della Cultura:
p. 43/44:
In passato la Varia veniva celebrata anche a Seminara, Rosarno,
Polistena e Sant’Eufemia d’Aspromonte. (segue una foto p. 43 della Varia di
Seminara - Stampa: Arch. Pro Loco). I festeggiamenti a Seminara avvenivano in
onore della Madonna dei Poveri con la fonte storica più antica dovuta sempre a
Giovanni Fiore che scrive:
La Vergine Assunta in Cielo; Ecco una delle Maggiori
Feste in tutto questo tratto di Paese; e ne vengono in filo le molte
rimostranze di onore. In Seminara si cava fuori un arco trionfale, machina
maestosa con in cima la Vergine volante al Cielo, con all’intorno una
moltitudine di figluoletti musici in abito di Angioli, variamenti disposti per
tutto l’arco trionfale, quale si porta processionalmente per le strade maestre
della Città, concorrendovi numerosità di Popoli, per i quali si fa bellissima
fiera. (Fiore Giovanni, Della Calabria Illustrata. Opera Varia Istorica, 1691,
p. 458).
GIUSTINIANI:
voce “Seminara”:
1805:
«SEMINARA, città in Calabria ulteriore,
in diocesi di Mileto, distante da Catanzaro miglia 80, dal mare 3, e da
Napoli 250. Vedesi edificata in una collina, ove respirasi buon’aria. Gli
scrittori calabresi la vogliono edificata dalla distruzione di Tauriana, che fu città antica, e poi
vescovile nominata da Plinio[45] col
nome di Tauricum, Tauraentum, e Taurianum, secondo le varie edizioni. Di
questa antica città è da vedersi il Ch. Morisani[46], ma
se fosse surta sulle di lei rovine Seminara,
io non vo’ per poco asserire al mio leggitore siffatta opinione.
Ella divenne ben presto un paese rispettabile di quella contrada, ed
ebbe cinque villaggi appellati Strangì, Santopalo, e Pesolo,
già rovinati a’ tempi del Fiore[47], ed
esistenti Palmi, e Santanna. Il suddetto Fiore, ne porta la tassa
di 1132 fuochi. Le tasse a me note sono le seguenti. Nel 1532 di fuochi 951,
nel 1545 di 1524, nel 1561 di 1430, nel 1595 di 1132, che è quella del Fiore;
nel 1648 dello stesso numero; e nel 1669 di 945.
Fra Leandro Alberti[48] la
decanta non poco per un paese bello, e fertile. Lo stesso conferma il Barrio[49]
e specialmente per le produzioni dell’olio, del vino, e per l’abbondante caccia
scrivendo: fiunt ancupia phasianorum, externarum, et aliarum alitum.
Gli abitanti in oggi ascendono a circa 4300. Oltre dell’agricoltura di
tutto ciò che serve al mantenimento dell’uomo, vi è l’industria di nutricare i
bachi da seta, ed hanno bastante commercio con altre popolazioni del Regno.
Molti suoi cittadini sono ancor distinti nella letteratura: Angelo Zavarroni[50]
fa menzione di Antonio Spinelli, di Barlaamo, di Benedetto di Leone, di
Domenico Ciancianeso, e di Francesco Sopravia. Il Fiore prima di lui fa
menzione di taluni suoi suoi cittadini Vescovi natii però di Tauriana, e di
altri frati poi di Seminara. Io aggiungo di essere stata padria di Franscescantonio
Grimaldi, di cui parlai a lungo in altra mia opera[51].
Nel 1783 questa città fu rovinata dal terremoto.
Nel 1495 Ferdinando II la concedè a Carlo Spinelli[52],
quale concessione fu confermata da Giovanna e Carlo[53]. Nel
1578 Scipione Spinelli la vendè al conte di Sinopoli per ducati 100000, ma i
suoi cittadini proclamarono al Regio Demanio, offerendo di pagare la detta
somma per soddisfare i debiti del Duca Scipione Spinelli, il che ottennero[54],
e vi si nominarono i due casali Palma, seu Carlopoli, e Santanna. La detta
università si vende poi molti corpi feudali[55]. Ma
di nuovo passò in feudo alla famiglia Spinelli con titolo di ducato».
Lorenzo GIUSTINIANI,
Dizionario geografico-ragionato del Regno
di Napoli, Tomo IX, Napoli 1805, p.6-8. (Rist. an. Forni, Bologna, 1970).
*
GRIMALDI Domenico: Sulla formazione di una compagnia olearia.
1785.
[p. 39]
«…Se la prossima scarsa raccolta dell’olio non avesse deluse le
speranze degl’industrianti, io nella brieve dimora fatta in Seminara, ed in
Palme [p. 40] avea indotto bastante numero di essi a formare una compagnia
olearia divisa in azioni d’olio, per perfezionarne la qualità per l’uso
cibario, ed insieme per assicurare le piazze estere che l’olio mercantile per
l’uso delle fabriche che si sarebbe straregnato dalla medesima compagnia,
sarebbe chiaro, lampante, e senza frode; mi sembrò questo l’unico mezo per
accreditare il commercio esterno di sì fatto genere il quale per le frodi
visibili che si commettono è giustamente cotanto screditato presso del
forestiere. Si era formato il piano per umiliarlo alla M.V. affinchè si fosse
degnata accordare alla nuova compagnia la sua Regal Protezione; e si era
pensato dopochè si sarebbe ottenuta di mandare un manifesto in giro per tutte
le piazze commercianti d’Europa, affinché fosse a loro notizia, che una
compagnia d’industrianti d’olio della Calabria assicurava questo genere esente
dall’invecchiate adulterazioni nell’estraregnarlo.
Ma l’apparato dello scarso frutto, che inaspettatamente si scoprì
qualche mese dopo che si era dato principio alle sottoscrizioni per la
mentovata [41] compagnia, non meno che l’indigenza straordinaria
degl’industrianti, gli scoragì in modo che lasciaron imperfetta l’impresa,
malgrado, che ne aveano calcolato i decisi vantaggi. Resta bensì la speranza di
veder stabilita la proposta compagnia la raccolta del 1786, in 1787 quante
volte gl’industrianti troveranno danaro per far la necessaria coltura delli
propri oliveti, ed insieme per rifar perfettamente le macchine olearie per
spremerne il frutto: preparativi necessari per ottenere una ubertosa raccolta
d’olio nell’anno seguente…».
Domenico
GRIMALDI, Relazione umiliata al Re d'un
disimpegno fatto nella Ulteriore Calabria, con alcune osservazioni economiche
relative a quella provincia, Napoli, 1785.
*
Istoria del Tremoto della Reale Accademia: notizie sulla
configurazione urbana precedente il terremoto del 1783.
a. 1784 >
[p. 326-327]
«941. Non si può senza orrore contemplare la durezza, colla quale la
natura annientò in pochi istanti le lunghe cure, e i ricercati lavori della
mano degli uomini. Dalle case più umili alle più magnifiche, da’ luoghi i più
profani a più sacri; e, per dirla in breve, per ovunque si gira lo sguardo, non
incontransi in questo desolato soggiorno, che o ruine compiute, o fabbriche
rovinevoli, ridotte in miserando rottame, e disperse dal tremoto del dì 5 di
Febbraio. Nel Rame, segnato col num. LV si può vedere un picciolo saggio di
quel terribile soqquadro, che quivi avvenne…
[p. 330-331]
«953. Seminara era stata col più industrioso accorgimento ornata di
tutto ciò, che render potea comodo, ricco, e tranquillo il cittadino; perché
non si era trascurato il pensiero di favorire le industrie, e di destarvi il
traffico, e l’imagine di un commercio non del tutto passivo. La stessa
agricoltura, tuttochè si risentisse ancora di quei vizj, che quasi
universalmente o sono prediletti, o non conosciuti, pure dava segni di essere
vicina a estollersi sulla sorte, e sull’abbandonamento comune».
–Istoria de’
fenomeni del tremoto avvenuto nelle Calabrie, e nel Valdemone nell’anno 1783, posta in luce dalla Reale
Accademia delle Scienze, e delle Belle Lettere di Napoli. (1784). Ristampa a cura
di Emilia Zinzi, Mario Giuditta Editore, Catanzaro-Roma, 1987.
GUALTIERI Paolo, Glorioso
Trionfo, over Legendario di SS. Martiri di Calabria, dove anco si tratta di
alcuni Huomini Illustri, i quali esposero la vita in servigio di Dio, e di più
dell’origine de’ Frati Capuccini, e loro progressi in Calabria, per D.
Paolo Gualtieri, della Città di Terranova, Professore della Filosofia, e sagra
Teologia, Per Matteo Nucci, in Napoli, 1630. (lettura esplorativa: fino a 380)
a. 1630 >
p. 38:
e perciò havendo san Pietro convertito molte città della Magna Grecia,
come Tauriano, Metauro, Medma, Vibone, Hipponio, & altre…
p. 113:
De’ Santi
Martiri, THEODOLO, e Compagni, da Tauriano, la cui festa si celebra alli
quindici del mese di Giugno. Capitolo XXI.
[Fonti:] Ex Traditione, Veteri
M.S. Menologÿs plurium Cathedralium, quorum verba adducentur. De eis Octavius
Caietanus, in Idea Operis Sanctorum Siculorum, & alÿ.
Tauriano Città maritima posta nell’ultimo della piana di San Martino,
dove hoggi è il Castello di Gioia, fù Catedrale delle prime. Di essa, e suoi
convicini furono nativi i Santi Martiri Theodosio, e Compagni, de’ quali non
habbiamo lume di maggior certezza, fuor che la traditione, e certi caratteri
scritti à penna in un libro mal conservato nella tribuna di S. Elia, nel
Monastero di Melicuccà, dove ufficiano i Frati di San Basilio, scritto da
dentro con caratteri Greci svaniti, (per il maltramento, e per l’antichità) nel
cui margine vi sono le seguenti parole con carattere nostro, in rosso, Martyrium Sanctorum novem de Tauriana
Theoduli, Candidi, Cantiani, Prothi, Chrysogoni, Artheonis, Quintiani, Niviti,
& Cantiamillae, Celebratum, fuit in territorio, quod hodie est Despoti,
uscirebbomo dall’historia, se volessimo dichiarar, come, quando, e dove, il Despoto
di Romania, hebbe giuridittione nella Calabria, poscia che il predetto martirio
sarà stato circa l’anni quattrocento del Signore, e’l Despoto circa l’anni 1300
da San Giorgio sin’à Mesiano hebbe giuridittione la città Tauriano, fù
distrutta da Saracini circa l’anni novecento, per lo che si perdè affatto il
pretioso tesoro delle vite, e martirio, non solo de’ predetti Santi, ma di
molt’altri.(>114)
p. 163:
Come furono distrutti più Vescovadi in Calab. & uccisi i loro
Prelati, in odio di Christo. Cap. XXXV. (>163)
p. 174:
Di Santo
STEFANO da Rossano, chiamato Martire da altri Santi. Capitolo XXXVII.
[Fonti:] Ex traditione, & Vita S. Nili, in cap. pracedenti
allegata; De eo historici multi.
Natan Profeta… (>174)
p. 175:
Circa gli anni 920 nella città di Rossano nacque da onorati parenti un
bambino, à cui imposero il nome di Stefano, i quali per la povertà diedero il
figlio all’esercitii bassi, e perché gli morì il padre carnale à tempo della
sua fanciullezza, menò vita nelle campagne, lontano da ogni maestro sensibile,
d’arti più colte. Ma non si discostò dal maestro invisibile, cioè dal suo
Angiolo Custode, il qual gli insegnava la strada di Dio, à cui egli volentieri
porgeva l’orecchie, lo che osservò fin all’età d’anni vent’uno. Fatta
riflessione, e risolutosi poi di ciò che di sua vita far doveva, se n’andò da
San Nilo il quale dimorava in una spelonca vicino la Real città di Seminara (la
quale à tempo di San Nilo era Imperiale) sequestrato non solo da secolari, ma
anco da suoi Monaci, & ivi à guisa di mutolo sen’stava, senza favellar
(>175)
p. 270v:
Nel tempo di San Francesco da Paola erano in Italia i suoi Conventi
divisi in due Provincie, cioè in quelle di Calabria, e dell’Isola di Sicilia,
alla qual erano aggregati quei di Terra di Lavoro, e perché le nostre marine
non erano custodite con torri di guardie sì spesse, come hoggi, ch’in ogni
luogo sospetto, e cõmodo da potersi nascondere alcun vascello, vi è la torre,
co’l suo guardiano, perciò i Turchi fecero {271r} molte prede, & occisioni,
e particolarmente ne’ lidi di Palma, dove son diverse cale, e ridossi. S’alza
anco ivi un monte, o scoglio, ultima coda degli Appennini, che vien celebrato
per il più alto di quanti sono battuti dal mare, e perciò haveano la cima di
quello come scorta, per lo che i Corsari infedeli venendo di notte si
ricovrauno dentro quelle grotte, ò cale, e la mattina uscendo incontro aà
naviganti di Calabria, che per la troppo vicinanza ogni dì tragittavano,
faceanos schiavi molti di quelli, in una delle quali mattine inciamparono due
Frati Minimi di Calabria…
p. 278v:
…Venendo voi con questi FF., mandati due per Seminara ad avvisar F.
Bonaventura da Reggio, e 2. Altri, che vadino a Oppido…h
p. 279r:
Nomi di alcuni frati fuggiti per farsi Capuccini:
…
F. Giovanni da Seminara, era de’ Conventuali.
…
p. 279v:
F. Benedetto da Seminara.
F. Pietro da Seminara, lo antico.
p. 282v:
il Commissario (…) prese anco da ivi un certo Pietro da Seminara,
novizio, giovane molto robusto, e l’armò con un bastone, e s’inviò verso ne
capãne, ma quando il Commissario li era vicino, un guardiano di vacche cominciò
a sgridar quella masnada, che à religiosi simil gente far suole, quando li
ritrova in campagna, dicendo, salva Padre, & altre parole… | F. Pietro da Seminara, lo antico, e sua
chiamata da Dio. | Arrivò il Commissario nel luogo abandonato da i
Capuccini, & il primo che entrò fù il sudetto Pietro da Seminara, il qual
con animo risoluto di rovinar tutti quei, che à prima fronte erano giudicati
scommunicati alzò il bastone, e lo ritenne in aria sospeso. O miracolo, ò
maraviglia dell’opere grandi di Dio, vedendo l’avventurato {283r} Pietro la
miseria del mangiare, e dormire di quei poveri fuggiti, cominciò a dire. Questi
sono i scommunicati che noi vogliamo carcerare? Questi sono gli apostati, i quali
non vogliono osservar la regola de’ Mendicanti, con mangiar herbe silvatiche, e
crude, à pena condite con poco di sale, & aceto, con dormir sopra l’ignuda
terra? Per mia fè, che voglio esser anch’io del numero di questi scommunicati.
Cercò con tutto ciò il Commissario per quelle selve, se potesse ritrovar alcun
de’ i fuggiti; ma non poté in conto nissuno per qualunque usata diligenza
ritrovarli, e così vota quella comitiva sen’ ritornò molto stracca, perché
haveva caminato assai, essendo nell’andar ivi stato delusa da un incognito, al
quale dimandarono per la strada delle dette capanne, & egli li dimostrò una
via, che li conduce altrove. Fé sì molto buon guadagno, poscia che ritornò con
un de’ suoi compagni meno, e questo fù il detto Pietro, il qual mentre ricercavano
i Capuccini, si cacciò tanto oltre, cercando via, che à quelli li conducesse,
che più volte lo sgridarono, dicendo, Aspetta novizion à passo F. Pietro, &
egli più li sgridò, dicendoli, che tanto à passo, che tanto aspetta, andate à
passo voi, ch’io mi voglio far Capuccino…
p. 325r:
(Carlo V conquista Tunisi) …Finalmente fù presa Tunisi, nella qual
scaramuccia si dimostrarono valorosi molti regnicoli, un de’ quali fù il
Capitan giovanni Calabrese, da Seminara, ancor che havesse ricevuto una palla
di archibugio nella coscia…
p. 360v:
[miracolo del Crocefisso (diTerranova) testimoniato dal notaio Oliva
di Seminara]:
…Benché più stupendo fusse il miracolo del sangue nell’1533… In
quell’anno dunque à tempo à tempo che l’immagine di M.V. sotto il titolo del
Soccorso nella Real terra di Palma operava operava molti miracoli, la predetta
Confraternità di Terranova condusse ivi il suo Crocefisso, ancor, che per 12
miglia di strada balza, e scoscesa, ma quando l’imagine del figlio fù in
presenza di quella della Madre sudò sangue ad occhi veggenti di tutto il
popolo. L’accorti Governatori di detta Confraternità subito fecero stipular un
atto pubblico per mano di Notaro, e testimoni, il cui tenore è. Publicus actus testimonialis miraculorum
Crucifixi sanctissimi, sanctissimae Annunciationis civitatis Terrae novae,
stipulatus, & scriptus in rure Palmi sub die 20. Iulÿ, per Notarium
Antonium Oliva de Seminara. Sub Anno Domini 1533. Die verò 20. mensis Iulÿ vj.
Indictionis in Casale Palmi, sub Pontificatu sanctissimi Domini nostri Papae
Clementis, anno eius octavo feliciter, Amen. Notum facimus, & testamur,
quod hodie eodem praedicto die in nostri, & subscriptorum testium
praesentia personaliter…… bo:
p. 376 [Seminaresi nella battaglia di Lepanto]
…Vi si sparse fama, che il Papa era per concedere il Giubileo à
chiunque prendesse l’arme per difesione della Fede, come già poi fè bandire à
sei d’Ottobre del 1571, quando i soldati collegati erano uniti sopra mare.
Havevano concorso molto volentieri i Christiani per tal suono, e
particolarmente dall’Italia, e Spagna, ma molto più gli uomini del Regno, trà i
quali i Calabresi, come che i luoghi del detto imbarco, cioè Crotone, Taranto,
e Messina erano più a loro commodi vi concorsero in gran numero, imperoche de’
soldati della nuova militia vi andarono più migliaia, sotto l’insegna del Re
[377] Cattolico loro Duca lasciate da parte le compagnie straordinarie, la
galera del Corsale da Castel Vetro, due di Vincenzo Passacalò da Seminara
detto il Monaco, e molt’altre di Avventurieri, perché de’ Signori
particolari Tropeani, ve ne furono trè, & è proprietà di quei sempre sempre
rinforzarsi contro infedeli, poscia che nella guerra de Gerghi si ritrovarono
sette compagnie de soldati Tropeani, come il Marafiote scrive, e molt’altre
fregate, e vascelli di minor memoria, un de quali fù de Marini nostri
compatrioti, che ne fecero capo Milio da Melicuccà loro antesignano. Vi
andarono anco sotto l’insegna del Lione l’invitti figli della Lionessa,
raccolti in sì breve tempo, ch’ammirato Tomaso Costo Napolitano storico di quei
tempi de gli assoldati da un solo, scrisse così. “Il Toraldo haveva assoldato
in breve spatio di quindici giorni due mila bellicosi fanti Calabresi, & c.
Con la speditione dell’anno seguente vi mando altri co’l galeone detto Fenice.
p. 380v:
(Introduzione in Calabria dell’arte della seta al tempo di Federico II
di ritorno dalle crociate):
Molte furono le spedizioni, nelle quali i Religiosi, e soldati di
Calabria ò soli, ò con altri s’opposero à nemici di Christo, tralasciate per
non hauerle ne’ libri stampati, e per brevità, una de’ quali fù l’anno 1227,
quando andarono con l’Imperador Federico per la recuperatione di Terra santa,
della quale à pieno ragionano l’historici, ancor che il detto Imperadore ò per
essersi infermato, ò per sua iniqua volontà se ne fusse ritornato, tutta via
basta à soldati in casi simili per guadagnarsi la gloria, morir per strada, ò
il partirsi, poiché così si concedono i Giubilei per ricuperar i luoghi santi.
Vi andarono anco poi con l’istesso Federico, e ricuperarono Gierusalemme, oltre
che havevano andato prima co’l lor Conte Ruggiero, che poi fù Rè di Napoli, e
perché non ferono casa veruna, quel Dio che così preordinò, non gli venne meno
della rimuneratione di premio eterno de’ sudori, patimenti, fatiche, e morti da
loro volontariamente sofferte, ma etiamdio ne diede temporale, [381] mentre
volle che ritornando da una delle dette speditioni conducessero i Maestri che
sapeano lavorar la seta, & insegnassero tal mestiero nella Calabria, e
nella Sicilia Isola. Prerogativa di molta importanza, concessa non ad altre
nationi nell’Italia, fuor che ad esse due, & à quei che in ciò da loro
hebbero dipendenza, poscia che all’hora il gran rimuneratore Dio diede non solo
il modo co’l qual potessero nell’Italia, dove risiede il capo della Religione
Christiana, e più fiori fee il suo culto adornar i sacri Altari, e Tempij, ma
anco potessero con tal’industria commodamente vivere essi, & i posteri. E
per haver notizia di ciò, saper si deve, che certi Monaci della Siria portarono
à Giustiniano Imperadore di Costantinopoli il seme de’ vermi, i quali producono
la seta, per ciò chiamati Sirici (ò sia stato detto così dalla provincia
Sericana) la cui origine, perché è incognita non s’approva, lo che dicono haver
derivato da i vermi generati nelle ulceri del patiente Giobbe, e mentre la
Calabria era governata dal detto Imperadore, e dal Patriarca di Costantinopoli
in quanto alla giuridittione spirituale, vi si facevano viaggi quasi continui
da l’un luogo all’altro, si che e perciò, e per mezzo de’ Monaci, ed’ altre
persone Ecclesiastiche, e de’ Catapani che venivano à governar detta Provincia,
fù in essa condotto tal seme. Fa di mestiero anco per poter sodisfar à curiosi
dire, che l’albero delle cue frondi si pasce detto animale, si fusse ritrovato
prima del detto seme nella Magna Grecia, perché producendo egli frutti [382]
dilettevoli al gusto, salutiferi à corpi humani, & utili al far de’ colori,
facendosi da essi immaturi il rosso, e da’ i maturi il paonazzo, essendo anco
arbore di facile traslatione, perché vive assai l’inverno fuori della terra,
come già lo vediamo in luoghi dove non vi è l’esercizio della seta; è
necessario dir così, perché i detti vermi non si possono nutrire se non vi sono
delle frondi di quello in quantità, egli vien dimandato Moro da i fruti lividi,
e dalli Italiani Celso. Ritrovasi di due sorti bianco, e nero, si dice bianco
quello ch’hà le corteccie bianche, e produce i frutti dell’istesso colore, e
perché è più dilicato si veste prima, e delle sue fronde si pascono i Sirici
per necessità di negre. Il nero come più grosso di complessione produce le
frondi declinanti al verde oscuro, & i frutti più al nero, ne l’uno, ne
l’altro ricerca necessariamente cultura. Si moltiplica per novelli, per
tronchi, rami, e seme. Pascono dunque con le frondi del detto moro la Calabria,
e la Sicilia il sudetro Sirico sì facilmente, che niun paese viveria più felice
di loro, se ’l Mondo non fusse pervertito, imperò che essendo l’huomo nato alla
fatica datali in pena del peccato d’Adamo, è bisogno faticare per sostentarsi,
ma con differenza, poscia, che altri faticano assai, altri poco, & altri
quasi niente, e questi sono i mali negotianti, nel cui numero, non è bene
ritrovarsi. La cultura della terra, e pastura de’ greggi, sono fatiche con le
quali si vive senz’occasione d’offendere, né Dio, ne ’l prossimo. E necessaria
la detta cultura, ma assai penosa, rendendo lo desiato frutto, dopò lo stento
di dieci, ò 12, tal’hora 24 mesi, la pastura de’ greggi apporta pure gran
travaglio, ma pascere il Sirico, è men faticoso d’ambedue, anzi dilettevole, e
di spasso, poscia che vive da 45 giorni, indi si conserva in seme a guisa
granelli di sinape involto in un fazzoletto, ò dentr’un vaso, per non esser
oltraggiato da animali minuti, ne il freddo (fuor che ’l petrificante) li
cagiona danno. (>383)
p. 411-12: Frate Antonino Tripodi da Reggio, guaritore itinerante:
…Spesso chiamavano il Frate per esser visitati gli afflitti, i quali
non potevano andar da lui, & egli molto volentieri vi andava, essendogli
protettore sì appo gli huomini, come appò la Maestà Divina, lo che fé essendo
chiamato ad istanza d’una gentil donna [411] da Reggio inferma, vi andò, e co’l
segno della croce la guarì. Il simile sé chiamato a visitar un giovanetto da
medici disperato, consegnandolo sano al padre (>411)
p. 423:
Di Frà PIETRO
da Seminara Capuccino, il quale elesse ingiurie, persecutioni, e carceri per
Christo. Capitolo LXXVI.
[Fonti:] Ex hist. FF. Hieronymi
à Dinami, Matthei à Sancto Martino, & Bonaventura à Reghio.
Niun mai harebbe potuto rendersi persuaso, che Saulo (>423)
Le allegate historie dicono, che Frà Pietro da Seminara prese l’habito
da San Francesco, e fù discepolo di Frà Lodovico, ben che da principio non
seguisse il suo Maestro, nulla dimeno si compiacque il Signore chiamarlo per
altra strada, perciò che essendo egli nel luogo di Cinque Frondi, quando il
Commissario andò a Sant’Elia [424] vicino la terra di Galatro, per carcerar
quei Padri ragunati, & ammutinati insieme contro il Diavolo, mutati già
nella serafica riforma de’ Capuccini, seco menò anco costui, dandogli un
bastone smisurato alle mani, come ad uomo robusto, e forte, ancor che ei non
fusse [?], il quale essendo entrato insieme insieme con gli altri in quella capanna,
dove quei poveri romiti stavano mangiando all’hora del digiuno, come s’è detto,
e vedendo quell’estrema povertà, santa penuria, e ricca estremità, compunto tra
sé stesso, cominciò a dire: questi sono gli apestati che siamo venuti à
carcerare? Questi sono i scomunicati? Questi sono quei che cercano vivere
largamente, e fuor d’ubidienza? Con mangiar pezzoli di pane, herbe crude, bever
acqua, e dormire in terra, mi par vedere tutto il contrario, e che questi siano
i veri Frati minori, & osservanti della regola del Padre santo Francesco, e
vivano secondo l’intention di quello, con tanto dispreggio, e povertà. Questi
sono i veri servi di Dio, & io per adesso, e per sempre mi forzerò
imitargli, anzi rimaner con essi. Cominciarono i compagni del Commissario à
caminare per cercar i Capuccini che fuggiti se n’erano, ma andav il detto Frà
Pietro prima de gli altri, acciò ritrovasse strada, ch’altrove lo conducesse, e
passò tant’oltre che l’altri lo sgridarono, dicendoli, camina à passo novitio,
aspetta Frà Pietro, & egli rispose, che tant’à passo, che tant’à passo,
andate à passo voi, perché io mi voglio far Capuccino; Rimanete in pace. E così
da saulo divenne Paulo, come spesso raccontava, e da persecutore di Capuccini,
divenne Predicatore dell’opere di quelli. Si giuntò con essi loro, li ragionò
del suo stato, l’accettarono, e si fé partecipe de’ patimenti, di quei,
fuggendo dalle capanne di Filogasi, dormendo alle volte co’ i serpenti, e come
vero discepolo di quei primi Padri, in breve tempo imparò nella Scuola del
Signore non mediocre spirito di silentio, divotione, ritiramento, penitenza,
mortificatione, dispreggio delle cose mondane, desiderio delle celesti, con
animo, e proposito fermo d’imitar la vita, e vestigij del Padre San Francesco,
sì che travagliando nella vigna del Signore con santa emulatione divenne gran
servo di Dio, forma, e ritratto di tutte le virtù, anzi era sì infiammato del
divin’amore, che pareva tutto estatico, e fuor di sé. Gli fù concesso il duono
delle lagrime, onde per il continuo piangere che facea, haveva licenza di far
le sue orazioni in cella, e nelle selve tanto di notte, quanto di giorno,
stimolato dall’ubbidienza portò molti pesi della religione, cioè di Guardiano
Diffinitore, Maestro di Novitij, e più fiate Custode. Mostrava gran carità con
l’infermi, e rigidezza con la propria persona, era dolce, & affabile ne’
colloquij, ragionando spesso de’ patimenti, fughe, fami, infamie, vite, e
miracoli di quei primi padri riformatori della sua religione, col le sue focose
parole infiammava gli ascoltanti alla seguela della virtù. Hebbe gratia
particolare di sanar molte infermità gravi, co’l segno della croce. L’anno
1576, verso l’ultimo di sua vita scrisse da Seminara à Frà Bernardino da
Polistina [426] in questa forma. Padre…
p. 429:
Nell’anno 1594
p. 447: frate Ludovico da Seminara al capezzale di Frate Antonino da
Francica:
Giunse l’hora d’esser chiamato dal Signore nel mese d’Agosto del 1603
quando nel Monastero di Polistina
p. 449:
…Ceramide sono certi canali di creta cotta…
p. 451r:
La Terra detta Gioia è nella Calabria…
p. 456v:
Di
Frat’ANGELO da Seminara, il quale patì molto per la custodia del santo
Sepolcro. Cap. LXXXIII.
[Fonti:] Ex traditione, Relationibus, Historia
Seraph. Gonsag. ubi suppresso nomine loquitur, et espistolis propria manu
ipsius F. Angeli scriptis, inferius adducendis.
Benché havesse prohibito
il Signore la vanagloria, e iattanza, ammonendoci, che se tal’hora noi
facessimo qualch’opera spirituale, tener nondimeno dovessimo modo onde altri
accorger non si potessero, ne alcun segno in noi tal attione si vedesse,
tuttavia S. Paolo una fiata raccontò ciò che egli patito havea (>456)
Non intendiamo annoverar questo Frate trà i Santi, ò Beati, ma
solamente raccontar qualche frammento delle sue eroiche attioni, de’ quali da
sì lontani paesi si è potuto’haber [457] alcuna contezza, imperò che egli patì
molti travagli in servigio del glorioso Sepolcro del S. salvatore, come rendono
testimonianza le sue lettere scritte di proprio pugno, le quali si portano appresso,
e ciò facciamo volentieri, perché ragionano di quei santi luoghi, ove fù
operata l’universal redentione del mondo, & hebbe principio la nostra
religione, & anco acciò vedano i Christiani quanto sia bramata la
ricuperatione di Terra Santa da quei pochi, & afflitti servi di Giesù, i
quali per il Divin culto ivi dimorano (à vergogna, e confusion nostra) poscia
che in ogni lettera vi si fa particolar mentione. Travagliatissimo fù il
caritativo Frate dal principio de’ suoi giorni, fin che lasciò la spoglia mortale,
come manifesta il nome di Paolo impostogli nel sagro Battesimo, che vuol dir
pargoletto, e piccino ne’ beni della temporal fortuna, essendo in tutto il
tempo di sua vita bersaglio, e meta de colpi di quella. Nacque dunque Paolo
nella città di Seminara circa l’anno 1560 da Bernardino Gieraci e Girolima
Cianciaruso coniugi. Morì Bernardino prima che Paolo venisse all’età adulta,
rimanendo il giovanetto in poter della madre, la qual molto ben attese al
governo, & ammaestramento de’ suoi figli, per lo che più volte disse
volersi vestir Frate, ma no havendo fine sì santo proposito, ritrovò il Re del
Cielo altro mezzo per ridurlo à stato migliore, permettedno nch’egli
improntasse certa armatura ad un suo amico, la onde havendo colui commesso con
quella un micidio, fù preso carcerato, e posto ne’ tormenti, [458] tormenti,
disse da chi havea ricevuto l’arme, e perciò venne Paolo ad esser chiamato
dalla Corte, & indi fuorgiudicato. Stimò l’accorta girolima più spediente
al giovanetto fuggirsene, che darsi in preda all’indiscreti ministri della
giustizia, ma non lo fé fuggir nell’Isola di Sicilia luogo più vicino alla sua
patria, perché harebbe potuto esser ivi fatto prigione, ancor che sia sotto
titolo d’altro Regno, (e perciò luogo sicuro a’ delinquenti di Calabria), la
onde posto ne’ tormenti haria grandemente patito, e forse confessato quel tanto
che commesso non havea, essendo egli d’età immatura, perciò lo provedé di
danari, e mandò nel territorio del Papa. Si conferì il giovanetto a Roma, ove
dimorò mentre li bastarono i danari, quando poi vennero meno cominciò ritirarsi
alla patria, e così disponendo Iddio fé il viaggio, passando per la Provincia
di Principato, ove nella Terra di Evoli trattò con l’Osservanti di vestirsi
Frate, havendolo visto quei molto ingegnoso, e d’aspetto che dava
grand’inditio, lo riceverono, ove cambiandosi il nome di Paolo prese quello di
Angiolo, si che fù poi egli detto Angelo Gieraci, Hieros termine Greco
significa santo nella nostra favella, quasi dir volessimo essersi convertito in
Angiolo santo, abbandonò con la madre, fratelli, sorella, e quanto havea, verso
i quali fé tanto co’l suo buon esempio, che sì il fratello, come la sorella, e
nipote abaracciarono la religione. Menò sempre il giovane vita esemplare sotto
la disciplina di Frà Pietro del Cilento, il qual era stato compagno di Sisto V,
la onde [459r] divenne molto caritativo, e desideroso di veder i santi luoghi
calpicciati dal benedetto Giesù, e sua santissima Madre Maria Vergine, con
haver fatto grandissimo profitto nelle sagre Lettere, per lo che esercitò
diversi ufficij nella religione. Riscaldato da quel santo desiderio che li
bruciava il cuore di visitar il santo Sepolcro, prese licenza da superiori, e
senza aspettar la comitiva ordinaria circa l’anno 1590 si partì da Italia per
Gerusalemme, ove arrivò dopo pericolosa navigatione, e faticoso camino. Fè ivi
sua stanza diec’anni, e si dimostrò si santo, che i suoi superiori havendolo
giudicato molto religioso, zelante, & atto al governo di quei luoghi, ne’
quali è necessaria scienza per distruttione dell’heresie, e de gli infedeli,
carità per riparo de luoghi pij, santità per edificatione de’ fedeli, e
pazienza per resistere a’ nemici del Christiano nome, lo crearono Guardiano di
Bethleem, e Secretario della sua religione in quelle parti. Hà cura il
Guardiano di Bethleem di quella Chiesa dove nacque il benedetto Christo,
scesero dal cielo gli Angioli, e cantarono l’hinno Gloria in excelsis Deo, e vennero i Pastori per adorarlo, dove vi è
la cisterna, nella quale si solea veder la stella, che guidò i trè santi Magi,
ma solamente da persone vergini, evvi anco il luogo dove S. Girolamo traslatò
la Biblia sacra, e fù poi sepolto, nella qual Chiesa si veggono segni sì
misteriosi, che i Saracini vi vengono à vederli. Vi sono anco le sepolture de’
santi Innocenti, e poco discosto il luogo dove Maria Vergine co’l suo santo
Bambino, e Gioseffo [460] stettero nascosti dieci giorni per timore d’Herode, e
poi ne fuggirono in Egitto, nel qual luogo (come piamente si crede) cascò qualche
goccia del latte di Maria Vergine, e perciò quella terra vien detta, latte
della Madonna, e Terra di Maria Vergine, la qual hà virtù di far ritornare il
latte alle donne che ne sono scarse, con prenderne un poco dentro l’acqua, e
dir un Pater noster, & un’Ave Maria. (>460)
p. 508:
I nomi de’ Capuccini sono… [509] Giovanni da Seminara
p. 519:
Di BARLAMO da
Seminara, il qual patì molto per la santa Fede. Cap. LXXXVIII.
[Fonti:] Ex traditione,
Relationibus, & Nichephoro Gregora Histor. Roman. Lib. xj. Cap. de Monaco
Italo, ubi sic. Caeterum sub V esperas spectaculo illo absoluto Barlaamus
ignominiam gravissimè foerens, plenis velis in Italiam abijt, & Latinorum
instituta, & decreta in quibus erat aeducatus redijt, &c.
Comandò à’ suoi il buon Giesù, che ovunque entrassero, prima da loro
fusse annuntiata la pace, e dopo si predicasse il santo Vangelo, e se non li
fusse (>519).
(520) Nacque Barlamo nella città di Seminara, prima del mille, e
trecento, dove egli fù da fanciullezza allevato sotto buona disciplina, e da
maestri molto versati nelle scienze, dai quali imparò non solamente la
perfettione delle lingue Greca, e Latina, ma di tutte le scienze umane, e
Divine, s’esercitò particolarmente nella sagra Scrittura, e de’ santi Padri,
alla cui lettione spendeva tutto il tempo che potea rubbar dall’altri studij, e
dalle necessità corporali. S’avvide molto presto Barlamo delle vanità del
mondo, e come delle sue transitorie, e fallaci delitie non lascia altro che
pentimento à chi lo segue, e vergogna. (>520)
p. 532:
…& in vero è cosa da stupire a considerarsi, che nell’istesso
tempo s’havessero ritrovate tra brevissime distanze più drappelli di Santi
paesani, come in Reggio… In Seminara i SS. Filareto da Sinopoli, Fantino da
Tauriano, co’l suo fratello Luca, & molti altri. Nella città di Stilo…
p. 533:
Lasciammo il discorso dell’attioni eroiche di F. Giovanni Teramone da
Seminara, perché stiamo in dubio se egli annoverarsi si dovesse in questo libro
dove si tratta di SS. Martiri, e d’altri cuori, i quali s’esposero à pericoli
gravissimi, eleggendo ingiurie, scorni, vilipendi, fughe, persegutioni, e
carceri per Christo (ciò vuol dir essere stato nel numero de’ FF. Colletti, ò
de’ vestiti Cappuccini in Filocasi) e ben che F. Giovanni s’havesse eletto più
travagli dell’hannoverati, fuggendo da (>533)
L
l
*
LIBERTI: Seminara. Note storiche tratte dal locale archivio
parrocchiale.
a. 1970 >
LIBERTI Rocco: Sul Monte di Pietà di Seminara
a. 1993 >
p. 20:
«…A pensare ad un primo vero monte di pietà da attivare nelle terre
della Piana di Gioia, trascurando i tantissimi monti e monticelli allogati
nelle cappelle delle chiese, fu un interessante personaggio, il nobile
Marcantonio Leone, divenuto frate cappuccino col nome di fra Benedetto, il
quale divisò di applicare le sostanze di famiglia di sua competenza ad
un’istituzione da far sorgere nella natia Seminara, allora importante capoluogo
dei feudi degli Spinelli di Cariati nel territorio.
Fra Benedetto fu una figura assai singolare, un vero eroe della Fede.
Nato nel 1564 da Sebastiano e da Francesca de Regio, fu inviato […]
…si sarebbe spento nella sua Seminara il 14 marzo 1627, ma, al dire
del De Salvo, sarebbe invece morto a Caserta all’età di 63 anni. In verità,
come sufficientemente si ricava da un atto notarile del 17 giugno 1738, passò a
miglior vita nella sua città il 14 marzo 1627 essendo di anni 63 e venne
sepolto nella sacrestia della chiesa conventuale, donde nel 1715 fu traslato e
portato dentro il tempio stesso (7)[56].
Fra Benedetto diede il via alla fondazione, cui tanto doveva tenere,
con pubblico strumento rogato il 20 marzo 1586 proprio nel monastero di
Caserta, dove in atto risiedeva quale novizio. Da una fotocopia imperfetta
dell’atto ricavata da una copia formata nel 1753, che fino a poco tempo fa si custodiva
nell’archivio del Comune e che, consegnata ad un tizio, un ecclesiastico, è
oggi irreperibile, traiamo che il notaio Orazio de Palermo di Seminara,
portandosi in detto convento, stese pubblico rogito alla presenza di fra
Benedetto e di fra Cornelio da Santa Cristina, guardiano e maestro dei novizi.
Fra Benedetto intese allora costituire erede universale di tutti i suoi beni
l’università della città d’origine, con la clausola che entro quattro anni
fosse eretto un monte di pietà a sostentamento e soccorso dei poveri e delle
persone degne di compassione di Seminara e casali, in tutto secondo le regole
sancite nell’istituzione del monte di pietà dell’Annunziata di Napoli,
evidentemente il modello cui potevano rifarsi i regnicoli. Qualora i sindaci non
fossero riusciti nell’intento entro un lasso di tempo di sei anni,
l’assegnazione sarebbe diventata appannaggio del Venerabile Ospitale della
Chiesa di Spirito Santo, il quale, a sua volta, si sarebbe dovuto preoccupare
annualmente di dispensare aiuti ai poveri ed alle persone misere e di somme in
altre opere pie con espressa dichiarazione (8)[57].
Nel 1609 il Cappellano Maggiore, venendo a riferire sull’erezione di
un monte richiesto per Oppido, rendeva edotto il Reggente del Collaterale che
l’istituto di Seminara era stato materializzato con Privilegio della Regia
Cancelleria del 1588, al tempo in cui era viceré il conte di Miranda (Giovanni
Zunica), dietro sua stessa relazione e con il voto ed il parere favorevole
espressi dal Reggente Finari (9)[58]. A
questo primo monte si è interessato nel 1977 Antonio Marzotti, che ha discorso
in occasione del VI congresso storico calabrese in merito ad una ricerca
condotta su dati del 7-800 rintracciati negli atti notarili custoditi allora
nell’archivio di stato di Reggio e in documenti conservati nell’archivio del
comune di Seminara, usufruendo in particolare di una platea del 1805. Assai
varie le considerazioni maturate dallo studioso ed alquanti eloquenti le tavole
proposte, che servono ottimamente a farsi un’idea precisa delle operazioni che
vi si svolgevano.
Dall’esame dei documenti del monte, uno dei ben 17 enti di credito
allora presenti a Seminara, che concedevano concordemente prima l’interesse del
10 %, quindi, dopo l’emissione di prammatiche reali, quello del 5 %, il
Marzotti si è convinto dell’esistenza di una “rigida contrapposizione tra
classi subalterne e classe dominante, con una classe media pressoché
inesistente” e la “considerazione che popolani, magnifici, massari, mastri
ricorressero al Monte per sbarcare il lunario, o per mantenere decorosamente il
loro stato; mentre i don vi ricorrevano per essere sostenuti nei loro affari”,
risultando di conseguenza “prestito per il consumo per i primi, per
investimento per i secondi”. Dagli stessi risalta peraltro assai chiaramente di
tempo in tempo “l’ascesa dell’ulivo, la costanza di vigna e seminativi e il
crollo della seta”, un fatto assai rimarchevole per Seminara, che per secoli fu
il centro del commercio della seta col suo fondaco e con la radicata
consuetudine di dare annualmente “la voce”, cioè il prezzo (10)[59].
[p. 21:]
La conduzione del Regio Sacro Monte di Pietà di Seminara, come
ricaviamo dai rogiti dei notai seminaresi, fu affidata all’inizio a tre
Governatori e Maestri, che si divisero i compiti di cassiero, pigniero e libriero.
Ad essi venne successivamente ad aggiungersene un quarto, che si ebbe
l’incarico di procuratore, ma alla fine si tornò nuovamente al numero iniziale.
Le funzioni di cassiero, come
riscontriamo, risultano quasi sempre svolte da un nobile. Nel 1660 e 1702
appaiono di pertinenza di Paolo Rocco, nel 1695 del mag. Paolo Striverio, nel
1739 di d. Domenico di Franco e del capitano d. Francesco Giovanni Sanchez, nel
1754 e dal 1758 al 1760 di d. Casimiro Coscinà, nel 1757 di d. Giovanni Sonnà,
dal 1757 al 1758 di d. Domenico Repace, nel 1761 di d. Antonino Anile, nel 1771
di d. Giacomo Franco e nel 1802 di d. Cesare Franco. In genere, la carica
durava un anno e andava dal primo andava dal primo maggio a tutto aprile, ma a
volte accadeva diversamente. In qualche caso, come per l’amministrazione di d.
Casimiro Coscinà, Antonio Melara e Dr. fisico Domenico Longo, rispettivamente
cassiero, prigniero e libriero, si protrasse per ben due anni, 3 mesi e due
giorni, dal 20 agosto 1758 al 1760.
I vari passaggi di cassa riescono quanto mai utili a farci comprendere
come di tempo in tempo il monte si qualificasse un ente in continua ascesa,
anche se a ricorrervi erano più spesso i sindaci e i cittadini del ceto nobile
o pseudo tale. Nel 1751 era dato riscontrarvi un valore di 6.076 ducati 54
grana e 10 piccoli in relazione a pegni in “mobile, oro, argento, rame,
schioppi, ed ogn’altro genere”, oltre a vari “biglietti seu polize” per
complessivi 1112 duc. 60 gr. e 6 picc. attinenti ad operazioni dei sindaci in
carica tra il 1741 e il 1747. Nel 1754 si accertava un valore in pegni di 7.848
duc. 15 gr. e 2 picc., più 131 duc. e 72 gr. in monete d’argento e d’oro, oltre
gli impegni di detti amministratori. In particolare, il biglietto dei sindaci
d. Francesco Antonio Mezzatesta e nr. Michele Guardata si riferiva a cento
ducati avuti al fine di una distribuzione ai poveri e pagabile con le prime
rendite incassate in futuro dall’Università. Per il 1757 il valore dei pegni,
sempre in aumento, toccava la cifra di 9.077 duc. 10 gr. e 4 picc. e ad esso si
veniva ad aggiungere una somma di 1.210 duc. 9 gr. e 6 picc. in monete d’oro,
d’argento e di rame. Nel 1761 si registrava una battuta d’arresto con gli 8.472
duc. e gr. 39 denunciati, ma nel 1765 si risaliva a quota 10.806 duc. 20 gr. e
4 picc., oltre al contante in argento e oro per un totale di 940 ducati.
Come abbiamo potuto constatare, molto spesso a fare da pegni erano in
passato le armi, un particolare che c’induce a pensare come fosse più facile
allora per i cittadini possedere un pistolotto piuttosto che oro, argento o
manufatti di una certa importanza. Nel 1754 era dato rilevare la scomparsa dai
pegni della scopetta di Domenico
Barritteri, della scopetta ed archibuggio di Francesco Burgisi e della
scopetta di Giuseppe Genuese, nel mentre su di uno stipo si osservavano
addirittura cinque scopette, delle
quali non si conosceva il proprietario.
La sede del monte risultava arredata con poche ed assai vetuste
suppellettili. Ecco cosa poteva offrire nel 1761.
Su una scrivania di metallo
si vedevano due calamari, un pinnarolo e un campanello, un calamaro di
landa di rame giallo, un rinaloro di
stagno e una forbicetta ordinaria.
Il rinaloro, per chi non lo sapesse,
era quell’oggettino pieno di sabbia fine atta ad asciugare le scritture fresche
d’inchiostro, indubbiamente l’antesignano della moderna carta assorbente.
Quindi, era dato notare un vecchio baguglio
(baule) vuoto, una cascia nuova di abete
per riporvi la contabilità, sei sedie di
paglia usate ed altra antica di tavola,
due banche di castagno da servire
alle operazioni del monte, una boffetta
con tiraturi (tiretti), un martello a
marco (marchio) necessario a marcare gli ulivi di proprietà dell’ente, un
quadro con effigiata la Madonna Addolorata ed altro recante l’immagine del
fondatore Marcantonio Leone, due cavalletti
di legno e due tavole indubbrunate
occorrenti all’epoca della vendita dei pegni.
Le scritture consistevano in cinque libri di “impegnare, e spegnare”,
due libri antichi per memoria, un privilegio in carta pecora, cinque volumi di Significatorie (il I e il II in atto
erano detenuti dal notario Carlo Calogero, incaricato di redigere “la nova
Platea”), un libro con annotazione dei pegni significati e obbligati a censo
bullare al 5 %, vari atti riportati su carta pecora e carta bianca, il libro
delle Significatorie in atto ed altro con le copie degli Istrumenti, l’Inventario dei pegni eseguito l’8 settembre 1751, l’indice dei
pegni, [22] una Platea vecchia, una Plateola, copia di un atto stipulato tra
il monte e il principe di Cariati nel 1709 e, infine un foglio di notizie in
merito alle liti intercorse tra il monte e i cittadini (11)[60]. La
sessione sinodale del 1693 celebrata da mons. Paravicino aveva stabilito per la
diocesi miletese, di cui Seminara era parte integrante, particolari direttive
per la conduzione dei luoghi pii, in generale e del monte di pietà, in
particolare. Per quest’ultimo, assieme ad altri adempimenti, prescriveva a
coloro che vi erano preposti di esigere quanto dovuto dai debitori e di
costringere i renitenti in curia usando la via del diritto, di non concedere
più di sei ducati, di dare il mutuo richiesto previo pegno d’oro o d’argento o
di rame o di tessuti per il doppio del valore, di non accettare armi, vesti di
panno o di lana, di vendere i pegni dopo trascorso un anno e di non riceversi
denari dal monte per uso proprio. Erano questi i cardini principali sui quali
poteva fondarsi una saggia amministrazione nel pensiero del Presule, ma, in
verità, disposizioni del genere venivano quasi sempre disattese, almeno per
quanto riguardava i monti gestiti dai laici (12)[61].
Nel 1792, dopo il grave disastro provocato dal sisma del 1783, il
monte di Seminara si qualificava al Galanti come un ente di tutto rispetto con
i suoi 80.000 ducati di fondo e con il particolare che entro la cifra dei dieci
ducati non pretendeva alcun interesse. Metà delle sue rendite, come d’altronde
era avvenuto per le altre istituzioni consorelle, risultava devoluta “per
decennio” per atto sovrano alla ricostruzione degli edifici pubblici (13)[62].
In seguito alla piena ripresa dei paesi, soprattutto dopo il
superamento dell’occupazione francese, l’ente seminarese trasse nuova linfa e
l’1 agosto 1837 ottenne con beneplacito reale di poter applicare a suo favore
lo stesso regolamento ch’era stato approvato con decreto del 12 aprile 1828 per
l’amministrazione del monte dei pegni di Oppido (14)[63].
Rocco
LIBERTI, Tra le istituzioni creditizie
del passato nella Piana di Gioia: Il monte di pietà di Seminara, in Banca popolare cooperativa di Palmi.
Periodico di Economia e Cultura, 1993, n° 0, maggio-luglio 1993, pp. 19-22.
*
LOBSTEIN: La nobiltà di Palmi e Seminara:
1982:
PALMI
Silenzio dei nostri tre autori: Beltrano, Pacichelli, Lumaga.
Il catasto onciario del 1746[64]
indica che erano allora in posizione preminente i d’Aquino[65] (il
capo famiglia è detto «nobile vivente»), i Grassi[66]
(«nobile vivente»), i Lacquaniti[67]
(«nobile vivente»), i Lupari («nobile vivente»), i Montepardo («nobile
vivente»), i Morone («nobile vivente»), i Poeta («Dottore, nobile vivente»), i
Prenestini[68]
(«nobile vivente» ), i Sacco[69]
(«vive del suo»), i Saffioti («vive del suo»), i Soriano[70]
(«nobile vivente»), gli Ubaldo («Capitano della torre»), i Valenzise («vive
nobilmente»).
Ed ecco altri dati che abbiam tratto passim dalle carte della R.
Udienza di Catanzaro: nel 1781 eran sindaci Ignazio Montepardo e Pietro Bagalà,
nel 1798 lo era Gaetano Soriano, così come l’anno successivo Gregorio Managò;
nel 1801, infine, Pasquale Grassi era sindaco dei nobili.
SEMINARA
Il Fiore pose Seminara tra quelle città o terre caratterizzate dal
fatto che nobili e popolo vi convivevano «con distinzione ma senza chiusura».
Nulla il Beltrano. Pacichelli alla pagina 103: «Pregiansi però in essa
del carattere di Gentilhuomini i Cavalli, Fiori[71],
Franchi[72],
Grani, Grimaldi[73],
Lauri, Longhi[74],
Marzani, Mezzatesta, Rossi[75],
Silvestri[76]
ed altri». Puntuale l’elenco del Lumaga.
Alle sopradette famiglie vanno aggiunte quelle che nel 1793 ad istanza
delle «antiche famiglie nobili originarie di Seminara» e, cioè, d’Alessandro[77],
Coscinà, Franco, Longo, Marzano[78],
Mezzatesta[79],
Sanchez[80],
vennero aggregate alla nobiltà di Seminara[81]:
esse furono quelle di Gaetano Anile[82], di
Carlo Antonio Calogero e di Antonio Falvetti.
Secondo il catasto onciario del 1746[83],
preminenti erano allora i d’Alessandro (il capo famiglia è detto «Nobile»), gli
Anile («Magnifico»), gli Aquino[84]
(«del ceto dei Nobili»), i Barritteri («Magnifico»), i Calogero («Notaio»), i
Celi («Magnifico»), i Chitti («Dottore»), i di Cicco («Magnifico»), i Coscinà
(«del ceto dei Nobili»), i Franco («dei Nobili»), i Lanzo («Notaio»), i Longo
(«del ceto dei Nobili»), i Marzano («del ceto dei Nobili»), i Mezzatesta («del
ceto dei Nobili»), i Monizio[85]
(«del ceto dei Nobili»), i Rossi («del ceto dei Nobili»), i Sanchez («del ceto
dei Nobili»), i Satriano[86]
(«del ceto dei Nobili»), i Silvestri («del ceto dei Nobili»), i Zangari[87]
(«Dottor fisico»). Dallo stesso catasto apprendiamo che i d’Alessandro
possedevano il feudo rustico detto Salica e Prato, i Marzano il feudo rustico
detto la Gabella della Tonnara e i Sanchez quello detto Furia ossia Pirara in
contrada Cannavà. Ed ancora che D. Domenico di Franco, «de’ Nobili di questa
città», marito di D. Agata Sanchez, aveva sei figli, uno dei quali era il quarantaduenne
Francesco allora Vescovo di Nicotera, e un’altra, Giulia, quarantacinquenne,
era maritata in Tropea a D. Marino Tranfo.
Ecco adesso due dati di fatto ricavabili da altrettante questioni di
natura contenziosa agitate presso la R. Udienza di Catanzaro. La prima è del
1763 e vede D. Francesco Antonio Mezzatesta di Seminara rivendicarsi «patrizio
con privilegio di padre onusto», privilegio spedito dalla Regia Camera della
Sommaria con cui viene esentato da tutti i dazi. E ciò, onde ottenere il rimborso
di 55 ducati per cui era stato tassato per il 1769. Ma poiché l’Università di
Seminara, nulla eccependo sulla di lui appartenenza al patriziato di Seminara,
controobietta che il privilegio non risale che al 1769, il Mezzatesta rinuncia
al ricorso (Carte della R. Udienza di Catanzaro M . 318-64-1) .
Il secondo elemento che importa ricordare in questa sede è che nel
1781 nel corso di una vertenza originata dal fatto che da un dodicennio
l’ospedale e i luoghi pii di Seminara non rendevano i conti, il Sindaco fece
l’elenco dei cittadini nobili, i
quali allora erano D. Antonio Clemente, D. Antonio Cimino, D. Antonio e D.
Vincenzo d’Alessandro, Dottor fisico Antonio Zangari, D. Agazio e D. Lorenzo
Mezzatesta, Dottor D. Basilio Anile, D. Domenico e D. Girolamo Cuscinà, D.
Vincenzo e D. Antonio Sanchez, D. Emanuele Chitti, D. Francesco Paolo e
Michelangelo Cicco, D. Vincenzo e D. Ferdinando Grimaldi, D. Vincenzo, D.
Saverio e D. Gennaro Marzano, D. Giovanni Longo, Dottor D. Gaetano Rossi, D.
Giacomo e D. Antonio Franco, D. Giov. Bernardo Longo, Dottor D. Giovanni Lanzo,
Dottor D. Giuseppe Antonio Tedeschi[88], D.
Mercurio Sanchez, D. Michelangelo e D. Giuseppantonio Monizio, Dottor D. Basile
Melara, D. Vincenzo Franco, D. Vincenzo Nesci[89].
(Ibidem 0-334-2-VI)
Va ricordato un provvedimento della Santa Sede del febbraio del 1638
indirizzato all’Università e agli uomini della terra di Seminara di
«confirmatio fundationis monasterii monialium sub regula S. Clarae pro quellis nobilibus dictae terrae sub
invocatione Annunciationis B.M.V. conferente stipe D. Nicolao Reggio de
Seminara» (Archivio Segreto Vaticano Reg. Lat. a XV 1.6 f. 577)
Vanno altresì menzionati provviste di benefici e indulti per oratori
privati nei quali ricorre la qualifica di nobile.
Eccoli: il 20 maggio del 1738 a Enrico Franco, «nobile, patrizio della
città di Seminara» vien concessa licenza di udir Messa con i fratelli germani
nell’oratorio privato di Seminara (Archivio Segreto Vaticano, Segreteria Brevi
9919 f. 387-387 v.), sempre un Enrico Franco (juniore?) e la moglie «de nobili
genere della città di
Seminara» ottengono indulto (in realtà si trattò di una rinnovazione)
per l’oratorio privato (ivi, 3779 f. 457-457 v.); nel marzo del 1686 Filiberto
de Lauro[90]
«prete nobile» ottiene l’arcidiaconato nella Collegiata dell’Immacolata in
Seminara (Ivi, Dataria .Apostolica per obitum F 102 f.145 v.); nel maggio del
1633 a Geronimo Marzano «chierico nobile» va la Cappella della SSma Annunziata
nella città di Seminara (ibidem, Dat. Ap. per obitum ad annum), ed ancora a un
Geronimo Marzano (lo stesso?) «prete nobile infermo» della città di Seminara
nel giugno nel 1674 vien data facoltà di udir Messa nel suo oratorio privato
(Ivi, S. Brevi 1535, f. 405 e f. 409); nel settembre del 1753 a Gaetano
Mezzatesta «prete nobile» vien conferito un canonicato con prebenda nella
Collegiata predetta della città di Seminara (Ivi, Dat. Ap. per obitum F 174 f.
170).
A noi risultano gli altri dati che seguono: nel 1694 Giacomo Grimaldi
era sindaco, nel 1759 Agazio Mezzatesta era sindaco dei nobili mentre Antonio
Vicari era sindaco del popolo[91], nel
1774 Casimiro Cuscinà era sindaco uscente e subentrante era Giuseppe Repace.
Altri sindaci furono nel 1779 un Domenico Antonio Cuscinà e nel 1800 un
Giuseppe Antonio Monizio.
Franz von LOBSTEIN,
Nobiltà e città calabresi infeudate,
Chiaravalle C.le, Edizioni Frama Sud, 1982. Voci “Palmi” (p. 67) e Seminara
(p.98-100) con annotazioni rispettivamente a p. 181 e 209-211.
P
p
MARAFIOTI Girolamo, Dalle Croniche
et antichità di Calabria.
Estratti su Seminara:
1601:
p. 66 a. e b.>
«…quindi passando il fiume Catiano, incontriamo un’altro molto
illustre castello, chiamato Seminara, edificato dopo le rovine di Tauriano,
città antica di Calabria, della quale ragionaremo nel [b] fine di questo libro.
E dà tre miglia in circa lontana dal mare, ma tiene l’affacciata sua verso
Oriente, e tra tutti paesi à se convicini, con allegrezza grande nel matino si
compiace salutare il Sole.E stata Seminara nel principio della sua fondatione
sedia Vescovale, perche nel tempo quando fù distrutta Tauriano fuggirono le
genti col Vescovo della Città, & habitarono in Seminara, mà Roggiero
Guiscardo Signore di Calabria, e Sicilia, veggendo ch’allora i cittadini di
Montileone, erano puochi, e meno erano anco di numero i Cittadini di Seminara,
con la volontà di Gregorio settimo Sommo Pontefice Romano, da questi dui
Vescovati, cioè, Seminara, e Montileone ha formato uno nella città di Mileto,
nella quale il primo Vescovo è stato di nome Arnulfo, come appare nelle scritture,
e privilegi della stessa Chiesa Vescovale. cominciò dopo fiorire, e
moltiplicare se stessa, ch’hoggi è habitazione molto nobile, abbondante d’ogni
cosa necessaria all’humano vivere, nelle cui campagne si fà abbondanza d’oglio
finissimo, e vi sono caccie di diversi uccelli, ma in particolare, di turdi,
faggiani, e starne, gli huomini, e donne sono specolative, perdono di natura, e
nella civile conversatione dimostrano nobilmente, la gentilezza, e cortesia
dell’animo. in questo territorio le vindemie sono abbondanti, si cava il gisso
specolare, del quale si fanno bellissimi ornamenti stuccati nelle fabriche. in
questi luoghi patì il Re Ferrando d’Aragona una crudele rotta da Francesi, come
si dimostra appresso.
Dell’entrata del Rè
Ferrando in Seminara, e dell’apparecchio
della guerra da
farsi, tra lui, e Francesi.
Cap. XXX
Dopo ch’ebbe il Rè Ferrando racquistato S. Agata, e tutto il convicino
paese, (come dicevamo à dietro) passò insieme col gran Consalvo Capitano della
fantaria Spagnuola verso Seminara,
[p. 67 a e b)
dove una banda di Francesi quale (secondo riferisce M. Paolo Giovio)
temerariamente era uscita fuori à fare la scoverta, fù rotta nel viaggio, dalla
cavalleria Spagnuola, il Rè con allegrezza grande di tutti cittadini fù
ricevuto in Seminara. Era nel campo del Rè Ferrando Marino Corriale Signore di
Terra nova, il qual’havendo fin da principio della guerra costantemente
seguitato la parte Aragonese, cioè d’Alfonso, e Ferrando, era stato da Francesi
discacciato dallo stato
MARCONE Nicola, Un viaggio in
Calabria. Impressioni e ricordi,
Roma, Tipografia Sociale, 1885:
a.
1885:
p. 82:
Credesi che
Palmi sorgesse sulle rovine di Tauriana:
– Cassiodoro, in una delle sue lettere, ne loda il vino; e nello stesso atto di
concessione, fatto da Ruggero I a’ Monaci di Bagnara, si parla d’un certo feudo
di San Giorgio in Palmi.
Probabilmente l’uno e l’altro alludono a qualche contrada di tal nome, essendo
ormai accertato che a que’ tempi la città, non solo non esistesse, ma che la
denominazione attuale è assai recente. Secondo Giustiniani ed altri molti, essa
fu edificata al decimoquinto secolo, da Carlo Spinelli, e fu detta per qualche
tempo Carlopoli. Forse, più tardi, e
per la grandezza di città che ben presto raggiunse, e per sottrarsi alle
pretensioni di Seminara, che avrebbela voluta a sé soggetta, prese il nome di Palme da una pianta di siffatta specie
che dicesi ornasse pomposamente la piazza, ed oggi stesso figura sullo stemma
della città; e di palma ha struttura la ricca fontana che, dal centro della
vasta piazza, somministra le acque a’ bisogni della popolazione intera.
P
PLACANICA: affitto di terre della chiesa a fine Settecento.
1985:
«…A fine Settecento, gli esponenti della borghesia produttiva di
Calabria presero tutti in affitto terre della chiesa che mostrassero buone
possibilità di sviluppo (viticultori, agrumicultori, massari attenti alle
colture ortensi, ecc.), ma quasi nessuno di essi riuscì a mantenerne il
possesso, ché la vittoria andò a piccoli, medi e grandi borghesi disposti a pagare
subito e a rifarsi con le solite colture già dall’anno successivo. Un solo
esempio per tutti: a Seminara, un esponente dell’avanzata famiglia dei
Grimaldi, Vincenzo, fratello del grande agronomo Domenico (ma, forse,
espressione dello stesso), chiese che gli venisse concesso un comprensorio di
20 grandi fondi (320 ettari), per ora disordinatamente fittato a vari
particolari a canoni assai bassi, col patto, però, di apportarvi grandi
migliorie (i famosi prati artificiali con erba medica, cedrangola e sulla, su
cui tanto aveva insistito Domenico; irrigazioni e canali di scolo; sistemazione
e ammendamento dei terreni; ecc.) e di poter pagare entro dieci anni. Scriveva
l’ispettore Francesco De Bonis – anche lui in odore di giacobinismo – al
ministro napoletano, caldeggiando la proposta di Grimaldi:
Non volendo
io entrare ad esaminare l’utile che ne verrà allo Stato dall’introduzione dei
proposti prati artificiali ed irrigatori, per essere cosa affatto ignota in
questi nostri paesi, mi dò l’onore di far presente a Vostra Signoria
Illustrissima esser cosa fuori di dubbio che questa vasta tenuta di terre, se
verrà diretta e regolata da personaggio ragguardevole – il quale ha tutti i
mezzi e le cognizioni per eseguire in grande le operazioni della rustica economia
– apporterà un utile deciso (De Bonis, 341).
Né mancarono altre analoghe richieste: per esempio quella della
famiglia Plutino di Reggio, che chiedeva di pagare con respiro un grosso fondo
– da essa già tenuto in fitto – per potervi impiegare subito grosse somme allo
scopo di costruirvi un edificio per la manifattura della seta e un altro come
casa per i lavoranti. Ma inutilmente ci si appellava ai principî dell’«ottima
industriosa coltura» o, come diremmo noi, del capitalismo agrario e
dell’accumulazione. Lo stato borbonico, in ogni caso del genere, preferì chi
potesse sborsare una somma appena decente, con i soliti disegni di arcaica
utilizzazione delle terre calabresi».
Augusto
PLACANICA, I Caratteri originali, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a
oggi. La Calabria, a cura di P. Bevilacqua e A. Placanica, Torino, Einaudi,
1985, p. 101-102.
R
r
RICHARD: pagine di una guida turistica su Seminara anno 1832:
a. 1832 >:
«Da Monte Leone fino a Reggio, non si trovano che villaggi poco considerevoli,
frà i quali citeremo Seminara, decorato del titolo di Città, sebbene vi si
contino appena 2000 abitanti. Questo luogo non è interessante che per le rovine
dell’antico Tauriano, che ne sono poco distanti…».
RICHARD, Nuovo itinerario d’Italia, rifatto,
accresciuto e corretto sulla nuova Guida d’Italia recentemente stampata in
Milano con una carta postale, Livorno, Tipografia e Calcografia Vignozzi, 1832.
A pag. 392 la voce “Seminara”.
S
s
SACCO: voce “Seminara”
a. 1796 >
«SEMINARA Città nella Provincia di Catanzaro, ed in Diocesi di Mileto,
situata sopra una collina, d’aria buona, nella distanza di tre miglia dal Mare,
di ottanta in circa dalla Città di Catanzaro, e di duecentocinquanta da Napoli,
che si appartiene con titolo di Ducato alla Famiglia Spinelli, Principe di
Cariati. Questa Città edificata dopo le rovine dell’antica Città Tauriana, fu
distrutta poi nell’undicesimo Secolo da’ Saraceni. Riedificata in seguito, dopo
qualche tempo divenne una Città cospicua della Calabria. Col terremoto del
mille settecentottantatrè fu interamente adeguata al suolo. Al presente
medianti le paterne cure del Regnante Ferdinando IV. Nostro Augusto Sovrano è
stata riedificata in una miglior forma in un altro sito distante dalla sua
antica posizione. In questa Città sono da notarsi una Collegiata ufiziata da
diciotto Canonici, e da un Arcidiacono; due Parrocchie di mediocre struttura; e
prima del terremoto vi erano due Monisteri di Monache di clausura, e sei
Conventi di Regolari, il primo de’ Padri Basiliani, il secondo de’ Domenicani,
il terzo de’ Minimi di San Francesco da Paola, il quarto de’ Conventuali, il
quinto degli Osservanti, ed il sesto de’ Cappuccini. Le produzioni del suo territorio sono grani, legumi,
frutti, vini, olj, lini, e gelsi per seta. La sua popolazione ascende a quattro
mila duecento settantasette sotto la cura spirituale di un Canonico, che porta
il titolo d’Arcidiacono. Questa Città vanta di essere stata Sede Vescovile sin
da’ primi Secoli della Chiesa, ed i suoi Vescovi Gregorio, e Teodoro
intervennero l’uno al Concilio Costantinopolitano VI. e l’altro al Concilio
Niceno II. Sotto il Pontefice Gregorio VII. fu poi unita alla Chiesa di Mileto,
siccome seguita ad essere. La medesima Città è rinomata nella Storia Letteraria
per aver data la nascita al Letterato Barlaamo, il quale si distinse nel XVI.
Secolo per lo suo sapere nella Teologia, nella Filosofia, e nelle Mattematiche;
al Filosofo, e Medico Francesco Sopravia, il quale scrisse un libro de Rerum
Natura; ed al Filosofo, Giureconsulto, e Storico Francesco Antonio Grimaldi».
Dal Dizionario geografico-istorico-fisico del
Regno di Napoli, del Sacco, tomo III, anno 1796, pag. 405-406. Voce
“SEMINARA”:
SALETTA, Vincenzo: Distruzione di Tauriana e origini di Seminara:
a. 1960:
Pagg. 8-9: «La città che, come abbiamo detto, si estendeva dalla rupe
di Tonnara alla pianura di Ciambra accanto al Metauro, (anche il De Salvo in
Metauria e Tauriana – pag. 161 – indicò questi limiti), si andò sempre più
rimpicciolendo, mentre i suoi abitanti, specie quelli della periferia,
abbandonate le case al saccheggio[92], si
ritiravano spesso non dentro le mura della città, ma addirittura nell’interno
del territorio bruzio, dove andavano a fondare città più sicure, tra cui
Seminara (5), San Martino, Terranova, ecc.». Testo della nota 5, p. 9, di
Saletta: «Sull’origine di Seminara il Taccone
Gallucci (Monografia di Storia
Calabra ecclesiastica, pag. 140) dice qualche inesattezza. Egli, infatti,
scrisse che il castello di Seminara venne fondato a seguito della distruzione
della città di Taurianum nel 951, “servendo da ricovero ai cittadini
fuggiaschi”. È noto, invece, che tale castello era stato costruito vari secoli
prima dai cittadini Taurianensi allontanatisi dopo i primi saccheggi. Il Fiore, (Calabria Illustrata, Vol. I, pag. 124) ricorda che a Seminara
furono rinvenuti i corpi di due sacerdoti: uno era il sacerdote Giovanni
Emanuele, figlio di Carlo e di Angiola Alessandrina, morto ivi il 25 dicembre
del 747, e l’altro era il sacerdote Paolo Squillace, figlio di Bruno e di
Livia, morto pure a Seminara il 9 febbraio del 945. Il Minasi, infine, nella
sua opera Le Chiese di Calabria, pag.
193, pur mantenendosi sulle generali per ciò che concerne l’epoca esatta,
scrisse che Seminara venne fondata dai profughi Taurianensi tra il VII e l’VIII
secolo “oppure quando Tauriana… era stata danneggiata dai Longobardi in sulla
fine del VI secolo”».
Pag.
11-12 + nt. 19: «La distruzione definitiva dell’infelice città avvenne il 951.
Eccola nel racconto del Minasi (19) in tutta la sua drammaticità: « Era già più
di un anno che gli empi Saraceni devastavano tutta la Calabria e corse notizia
che si avvicinassero ad assalire le regioni mercuriane, nè pareva che volessero
usare alcun riguardo ai monasteri nè alcuna pietà per i monaci. Tutti al primo
avviso cercarono di ricoverarsi ai primi castelli in che s’imbatterono. Allora
anche il Beato Stefano (compagno di San Nilo) dimorando nel cenobio di San
Fantino, salì con gli altri fratelli al vicino castello, giacchè crescendo il
rumore, non aveva potuto tornare alla spelonca di San Michele, ove soggiornava
San Nilo. Questi, avendo osservato dalla parte superiore della spelonca il
sollevarsi della polvere e la sopravveniente moltitudine dei Saraceni, pensò di
nascondersi al loro furore per non tentare la Divina Provvidenza... Allora
furono saccheggiati i monasteri di Mercurio e, come a noi sembra
moltopossibile, fu distrutta Tauriana che, da quel giorno, non risorse più.
Anche Sant’Elia, vestito di una rozza pelle, dilungossi dal monastero, ma poi
anch’egli fu costretto a ripararsi nel castello nelle due successive scorrerie
che furono fatte dopo il 951 » Testo della Nota 19:.«In questo racconto del
Minasi c’è una sola inesattezza ed è che egli, quando parla del castello in cui
si rifugiò il Beato Stefano, intende riferirsi al castello di Seminara. Ora (e
ciò sarà molto più chiaro a chi conosca la località) è evidente che se il Beato
Stefano non aveva tempo di raggiungere la sua spelonca a San Michele (o san
Miceli) a maggior ragione non poteva averlo per raggiungere il castello di
Seminara, molto più lontano, anche se non precisamente ubicato là dove oggi
sorge la città di Seminara.
Pag.
80: «La presenza di numerosi bolli doliari e marchi di fabbrica, rinvenuti
nella zona archeologica di Taurianum,
conferma interamente la tradizione orale, che faceva di Taurianum un centro di
produzione vascolare e figulinaria, con larga produzione di laterizi e di
prodotti fittili. L’arte antica si è tramandata, da padre in figlio, fino ad
oggi, specie presso la vicina Seminara, fondata, appunto, dai cittadini
Taurianensi dediti a questa attività».
Storia archeologica di Taurianum. Iscrizioni e laterculi, Roma, Arti Grafiche
Editrice, 1960
T
TRAVAGLINI: che cita Grio sullo stato fisico dopo l’83
1985:
«…Ricerche successive hanno consentito di consultare anche la
Relazione sullo stato fisico della Calabria Ulteriore[93]
redatta da Giuseppe Grio da Polistena. Ne riproduciamo alcuni passi relativi
allo stato del territorio per quanto concerne gli aspetti idrogeologici:
Le vaste
pianure dette di Seminara e di Nicastro sono ormai famose pe’ laghi e
pantanacci da cui sono coperte nella massima parte della loro estensione. Si
approssima a queste infelici contrade il Marchesato di Crotone il cui suolo è
molle nella maggiore estensione de’ pantanacci che lo ingombrano quasi tutti i
mesi dell’anno.
La piana di
Seminara che presenta la superficie di un bacino di circa dugento quaranta
miglia quadrate debba considerarsi almeno per un terzo coperta dalle acque
stagnanti. Sosta di vantaggio un lago perenne della lunghezza di tre miglia,
sopra uno e mezzo di larghezza. Questo lago compirà fra qualche altro anno i
decreti del destino desolatore di Rosarno a cui è molto vicino. […] Le sue
acque minuiscono sensibilmente in està, mentre non sprizzano dal suolo
sottoposto, ma è lo sviamento delle acque di Mesima che le sostiene. […] La
piana di Nicastro è ancora più male avventurosa e desolata per siffatti
condizioni geologiche. Questa specie di cratere che presenta una superficie di
circa dugento ottanta miglia quadrate è per la maggior parte o inondata da
lagune o inzuppata da impuri e pestilenti pantanacci.
Immediatamente
sotto il Comune di Santa Cristina gli smottamenti ed abbassamenti di monti
diedero l’opportunità alla formazione di un lago della estensione di un miglio
di lunghezza, sopra mezzo di larghezza, la cui profondità giungeva a sessanta
piedi parigini.
In uno: tutta
la costa da Seminara a Santa Cristina un tempo salubre e prospera, è divenuta
finalmente lo spavento di provinciale per non capitarvi in està che
rapidamente.
Il Marchesato
di Crotone ricordato dagli antichi per la sua salubrità non gode di condizioni
molto migliori. […] È detto che la piana di Seminara, quella di Nicastro, il
Marchesato di Cotrone sono divenuti nominati abbastanza per la copia delle
paludi e pantanacci; ma ciò non esclude di dover valutare nel calcolo generale
della superficie resa inutile dalle acque stagnanti, vari e moltiplicati altri
punti su tutto il suolo della Provincia meno dannosi perché più ristretti e
collocati in seno a vasti campi alberati.
Coacervati
però tutti i terreni impaludati bisogna farne ammontare la somma a due terzi
de’ terreni piani suscettibili della miglior coltura».
Giovanni
TRAVAGLINI, Il controllo delle acque e la
difesa del suolo, in Storia d’Italia.
Le regioni dall’Unità a oggi. La Calabria, a cura di P. Bevilacqua e A.
Placanica, Torino, Einaudi, 1985, p. 696-697.
[1]Nella
testatina sul margine destro del foglio: «Metauro fiume di Seminara».
[2] « Et
tutti li conventi erano pieno di banditi particolarmente della diocesi di
Mileto, il vescovo li dava a mangiare per zelo della giurisdizione, quando
erano assediati da’ birri. E Xarava ponea fama che il clero volesse ribellare
(CAMPANELLA, citato in AMABILE, Fra
Tommaso Campanella, la sua congiura, i suo processi e la sua pazzia, Napoli,
1882, vol. I p. 116.
[3] A proposito dei chierici
selvaggi, genia di irregolari, forniti di tonsura che nel campo ecclesiastico
sono un po’ il « pendant » dei « bravi » e ricorreranno spesso nel corso del
presente studio, bastino queste parole di Carlo Spinelli, il quale era stato
inviato a sedare la rivolta del Campanella in Calabria: « Questi chierici vanno
armati d’ogni specie d’armi, e sempre stanno nelle chiese con altri fuorusciti
provvedendosi vicendevolmente ciò che questi vescovi permettono, e temo che la
maggior parte delle vigliaccherie che si fanno siano imputabili a chierici,
propriamente perché non vengono castigati e sono di esempio agli altri » (da
una Relazione inviata al Viceré in data 28 settembre 1599 in AMABILE, op. cit. p. 316). È interessantissimo il brano che alla decadenza dedica
l’anonimo autore d’una relazione sulla Calabria e i calabresi contenuta nel
manoscritto Barberino latino 5392 pubblicato da G. S. Mercati nell’« Arch.
Stor. Cal. Luc. » anno XII:
«I chierici e i sacerdoti
di così avventurate diocesi, o per lo privilegio del foro caminano in campagna
e per la città armati di quell’armi che sono proprie de’ sicari e micidiali,
l’uso dei quali è interdetto a’ laici con la pena del capo. Né basta loro il
fare di sé medesimo un composto di Chierico e di Soldati, se non pubblicano la
loro insolenza col fare gl’occhi d’ogni uno una scandalosa mostra dell’arme che
portano. L’osservanza de’ Canoni, il rigor delle leggi ecclesiastiche per
frenare la audacia loro quivi non è in uso, perché non ve n’ha cognizione.
Huomini di questa sorte, invece d’essere ripresi vengono favoriti e difesi dal vescovo con titolo d’aver
sempre alla mano gente brava e feroce che la giurisdizione ecclesiastica
difende nelle Occasioni. Né però indegna forma di privilegio vien conceduta o
difesa senza dal Prelato, traendone egli egualmente utile e forza. Per questo istesso
fine e col medesimo pretesto si concedono a persone vili e da Campagna le
patenti di Diacono Selvaggio ». Cfr. pure sull’argomento il nostro studio « I
diaconi selvaggi e la loro presenza a Squillace nel secolo XV », nel
«Bollettino della Società Calabrese di Storia Patria», Reggio di Calabria,
1948, n. 1.
[4]
AMABILE, op. cit. pag. 118, il quale ricorda in nota, dell’Arch. di Stato di
Napoli i Registri Curiae vol. 38, an. 1595-99, fol. 123, vol. 54, an. 1596-1601
fol. 97, lett. Viceregale all’auditore di Lega in data 23 luglio 1598.
[5]
CAMPANELLA, Op. cit., pag. 30, dice
come avvenne in favore del Capitò «quel rumor di chierici di Seminara che
ruppero i carceri gridando “viva il Papa”, onde sembrò che il Vescovo di Mileto
partecipasse alla preparazione della congiura del Campanella ed ebbe credito la
voce che il clero volesse ribellare».
[6] Fu
pubblicato dall’AMABILE, op. cit., vol. II: Documenti
e illustrazioni Napoli, 1882 pp. 47-83.
[7] Registri Curie, vol. 43. Fol. 178 t., riportata dall AMABILE, op. cit., vol. pag 312.
[8] Ibidem, vol. 46, fol. I; facendolo de maniera che non vi socceda fraga od altro
strepito.
[9] Ibidem, vol. fol. 19 t., cfr. AMABILE, Loc. cit.
[10]Tale
carteggio, esistente nell’Archivio di Stato di Firenze, venne pubblicato per
intero dall’AMABILE, op. cit., vol. II, Documenti, pagg.
47-83.
[11] La
lettera predetta venne pubblicata dall’AMABILE, op. cit., vol. I, pag.
312.
[12] Con
successiva lettera, in data 1 gennaio 1600, il Nunzio chiese la facoltà di
assolvere anche il Poerio e lo Xarava.
[13]
«Seguitò V. E. di dirmi che aveva inteso che fra questi prigioni, che sono in
tutto 160, ce ne sono otto di quei che chiamano chierici selvaggi della Diocesi
del Vescovo di Mileto, et che aveva anche qualche inditio contro il teologo del
detto Vescovo, et venisse quà, et menasse con seco il detto theologo, risposi
che senza nuovo ordine non lo chiamerei, et S. E. si contentò che ne scrivessi
costà » cfr. la lettera del 9 novembre 1599 del Nunzio al Cardinale S. Giorgio,
in AMABILE, op. cit., III, 49.
[14] «Circa
il far venire il vescovo di Mileto si contenta pure S. S. a che in
soddisfatione del Sig. Viceré V. S. seguiti et adempisca li ordini vecchi che
se le diedero le settimane passate, instandone V. S. Dei soddetti Chierici et
Frati prigioni dice S. S. à che in ogni modo V. S. si assicuri bene che siano
custoditi come prigioni suoi, et tenuti a sua libera dispositione». (Il Cardinale S. Giorgio al Nunzio, 17
novembre 1599, in AMABILE, op. cit., III, p. 52 doc. n. 56).
«…Che i
Chierici et Frati medesimi doveva V. S. farli dichiarare in ogni modo prigioni
suoi. Et quanto a chiamare costì il Vescovo di Mileto, seguire le commissioni
che le furono inviate nel mese di Settembre».
(Il Card. S. Giorgio al
Nunzio, 19 novembre 1599, ibidem).
[15] In
AMABILE, Op. cit., I, p. 54 e s. doc. n. 63.
[16]
AMABILE Op. cit., III, p. 56, doc. n.
68.
[17]
Scipione I Spinelli successe nel 1572 al padre Carlo II, primo duca di
Seminara.
[18]
«Soggiungerò solo che trovo che delle lettere di quest’ultima chiamata non ha
ricevuta alcuna, perché è stato più d’un mese in viaggio rispetto al tempo, et
le lettere che lo trovarono partito mi sono state rimandate, però in questo non
si è potuto trovare contumace come pretendeva il medesimo sig. Viceré il quale
per quanto scopro, era stato molto sinistramente informato da quei Principe di
Scilla e dal Duca di Seminara, che l’un et l’altro per quanto ho inteso hanno
avuto da disputare con detto vescovo» (lettera dell’11 gennaio 1600 del Nunzio
al Cardinale S. Giorgio, in AMABILE, op.
cit., pag. 60, doc. n. 81).
[19] Dal
Carteggio del Residente Veneto in Napoli col suo governo, pubblicato
dall’AMABILE, op. cit., III, Documenti, pp. 86-98. La lettera citata a pag. 95. I1 residente,
Giovanni Carlo Scaramelli, era stato già residente a Costantinopoli presso la
Sublime Porta. Nelle lettere, accanto a notizie precise, dà spesso notizie
incontrollate, raccolte dalle dicerie correnti tra il popolo.
[20] I1
Pisano venne impiccato e squartato, di fronte alla guardia del Castello, il 16
gennaio 1600.
[21] In
realtà la diocesi di Mileto, risultante dall’unione delle due diocesi di Vibona
e di auriana, compiuta in seguito alla bolla
Potestatem ligandi del 1503 (cfr. TACCONE GALLUCCI, Regesti dei Romani Pontefici per le chiese di Calabria, pp. 45-46)
era vastissima e tra le più popolate della Calabria.
[22] Il
Cardinale S. Giorgio si congratulava in data 22 gennaio 1600 col Nunzio per
l’intervento del Vescovo presso il Viceré che «del sospetto che haveva il
medesimo Vescovo di trovar impedito il viaggio di Roma, quando fosse per
venirvi crediamo che sarà del tutto vano» (dal Cart. Cit. filza 213, lettera del 22 gennaio 1600).
[23]
Vittae SS. Sicul. tom. 2. Anim. ad vitam S. Elia Innioris fol.
[24] Dalla vita del Santo narrata da G.
Fiore e ripresa da fonti più antiche si ricavano elementi di vita urbana nella
distrutta Tauriana ed indicazioni toponomastiche successive (Monastero di S.
Fantino). Nella vita del santo la città di Tauriana appare ancora in prevalenza
pagana; la conversione, favorita dai miracoli operati, è opera di Fantino. Non
sembra vi siano state grandi persecuzioni di cristiani.
[25] SNSP
ms. XXVIII C 2, parte II, cc. 115-118 e 120-122. [SNSP = Biblioteca della
Società Napoletana di Storia Patria, Napoli]
[26] Codice Aragonese o sia lettere regie;
ordinamenti ed altri atti governativi de’ sovrani aragonesi in Napoli,
etc., Napoli, vol. III, p. 281.
[27] ASN,
Relevii, vol. 352, cc. 555-559.
[28] ASN,
Sommaria. Consulte, vol. 42, c. 161
v.
[29]
Ibidem.
[30]
Ibidem.
[31]
«Detta annata è stata vacante d’olio… e gli trappiti che prima erano valcatori
si sono affittati per mortella» (ASN, Relevii, vol. 352, c. 511-529); «questo
affitto per la mortella se fa dopoi che in detto trappito si è finito de
macinare l’olive per fare l’oglio (e) dura lo macinare de la mortella per il
mese di luglio e per tutto agosto» (ivi, vol. 351, cc. 113-276). Sembra che i
trappeti calabresi fossero piccoli. Un teste, che depone per il relevio del
barone di Marcellinara nel 1592, «interrogatus ogni macina d’olive quanti litri
di ogli ne escino, dixit che esso deposante have visto et experimentato come
trappitario che da ogni tomolo esci due litri. Interrogatus quanti tomola ci
vanno ad una macina, dixit che nci vanno tomola quattro» (ASN, Relevii, vol. 351, cc. 34-70). Sappiamo,
del resto, dell’impianto in Amendolara, nel 1537, ad iniziativa del barone
della terra, di «un nuovo trappeto all’uso di lecce con grande spesa per
macinare le ulive del suo uliveto, di modo che ne’… piccioli trappeti
(esistenti ad Amendolara) la molitura non era che di sette tomoli di olive, e
nel Leccese era di ventuno» (Bullettino
delle Sentenze della Commissione Feudale, 1810, vol. 2, pp. 26-27).
Menzione di “trappito a mano cioè col cavallo” e di “trappito d’acqua” in ASN, Relevii, vol. 351, c. 630 segg.; di
“trappito che macina con cavallo” in ASN, Relevii,
vol. 357, c. 108r.; “partito de pigliare lo trappito de S. Anna con pacto che
loro mectessero lo cavallo et altre cose necessarie allo trappito et esso con
soi compagni la fatiga lloro et che poi se spartessero li ogli guadagniavano et
li denari” (ASN, Relevii, vol. 349,
cc. 201v.-202r.).
[32] ASN,
Relevii, vol. 354, cc. 555-559.
[33] Cfr.
C. MOSCHETTINI, Della coltivazione degli
ulivi e della manifattura dell’olio, Napoli 1794, vol. I, p. 175 (e cfr.
pure p. 239).
[34] Ibidem, p. 13.
[35]
Cfr. D. GRIMALDI, Istruzione sulla nuova
manifattura dell’olio intrdodotta nel Regno Di Napoli, Napoli 1777, pp.
17-18.
[36] Ivi.
[37] Cfr.
C. MOSCHETTINI, op. cit., p. 292.
[38] ASF,
Mediceo, f. 4072, c. n.n. per Seminara.
[39] ASN,
Sommaria. Diversi, II Numerazione, vol. 63, c. 156 r.
[40]
ASN, Sommaria. Notamenti, vol. 70,
carte accluse. Anche il prezzo era alto: 40 carlini a cantaro contro i 22
pagati dalla Corte.
[41]
Ibidem: 7 o 800 cantara.
[42] Ad
es. nel territorio di Seminara, come informa il relevio del 1554 (ASN, Relevii,
vol. 349, c. 204 v.): «have circa quindice anni che lo q. ex.te conte Carlo
(Spinelli) comperò uno bosco et terre vacue da Nicodemo Yeria, quali sono siti
in lo territorio de Seminara, in la contrata de lo feudo seu stagliato et da
tre anni circa lo quondam ex.te conte Pirro Antonio nce se ne pastinò castagni
et in dicto territorio per nce essere pastinato per tutto decti castagni non se
semina, et de ditti piedi de castagni per essere piccoli non se have fructo
nesciuno, declarando che li dicti castagni son pastinati in lo terreno che era
vacuo».
[43] La
contesa fu risolta, come è noto, a favore di Reggio nel 1584, ma solo dieci
anni dopo l’Udienza veniva di nuovo portata a Catanzaro. È anche da notare che
all’istituzione della seconda Udienza si oppose sempre Cosenza, che nel 1594 ne
chiese senz’altro la soppressione (AS = Archivo General de Simancas,
Secretarías Provinciales. Nàpoles, Lib. 516, cc. 236v.-237r.). Ma, quando nel
1596 sembrò deciso dal re il ritorno all’unica Udienza, Cosenza dovette
protestare contro la pretesa che essa fosse stabilita in Catanzaro, dove allora
risiedeva quella di Calabria Ultra (AS, ibidem,
Lib. 517, cc. 180v.-182r.). Catanzaro replicò, peraltro, energicamente (AS, ibidem, Lib. 517, cc. 184v.-187r., e
Lib. 518, cc. 193r.-195r.), ma si dovette a sua volta difendere, nel 1600,
dall’accusa di essere stata implicata nella congiura del Campanella, accusa
mossale appunto, secondo il memoriale allora inviato dalla città a Corte…
[44] Per
i capi di accusa di Seminara contro il suo duca cfr. ASN, Processi antichi.
Pandetta Nuovissima, n. 1.967/53.062.
[45] Lib.
3. cap. 5.
[46] Vedi
il Morisani, Marm. Reg. p. 90.
[47] Vedi
FIORE nella Calabria abitata, p. 149.
[48]
Nella Descriz. d’Italia.
[49] De
antiqu. et sit. Calab.
[50]
Nella sua Biblioth. Calab.
[51] Memoria
degli Scritt. Legal. t. 2, p. 147. [= Naz. Roma]
[52]
Quint. I. fol. 1250.
[53]
Petit. 3. fol. 17.
[54]
Quint. Instrum. Reg. 5. fol. 7.
[55]
Quint. 98. fol. 301. Quint. 109 17. Quint. 106. fol. 248.
[56] G.
FIORE, Calabria Illustrata, vol II, Napoli 1691 [rectius 1741], pp. 163-164. A.
DE SALVO, Ricerche e Studi storici intorno a Palmi, Seminara e Gioia Tauro,
Palmi 1899, pp. 183-184, n. 3. S. MORABITO, Cappuccini calabresi nel mondo, Catanzaro,
s. d., p. 74.
[57]
Comune di Seminara, congregazione di Carità, N. I dell’inventario, categoria I,
casella I. Secondo il De Salvo (cit.; cap. 5, pp. 183-184 n. 3) fra Benedetto
avrebbe testato col notaio Mario de Capua di Caserta disponendo che tutta la
sua proprietà, del valore di 156.069.00 lire, andasse a prò dell’Università,
che avrebbe dovuto venderla entro il periodo di 4 anni e col ricavato dar vita
a un monte di pietà. Copia del testamento si conservava nel 1738 nella libreria
del convento cappuccino di Seminara (SASP, Libro del Pr. di Nr. Carlo Calogero,
ibidem).
[58]
ARCHIVIO DI STATO (ASN), Cappellano Maggiore, fasc. 1200, inc. I, f. 163.
[59] A.
MARZOTTI, Credito e investimenti nella Calabria del Settecento – Il Monte di
Pietà di Seminara, Incontri Meridionali, a. 1981, nn. 1-2, pp. 163-189.
[60]SASP,
Libri del prot. dei notai Carlo Calogero, Antonino Capoferro, Giuseppe Antonio
Calogero, Luigi Collura di Seminara, passim.
[61] O.
PARAVICINO, Synodus Diocesana Miletensis Secunda etc., Messanae 1693, cap. V,
10, p. 28.
[62] G.
M. GALANTI, Giornale di viaggio in Calabria (1792), Napoli 1981, p. 226.
[63] G. VALENTE, La Calabria nella legislazione borbonica, Chiaravalle C. 1977, p.
278.
[64] Il
Catasto onciario di Palmi trovasi in Archivio di Stato di Napoli, vol. N. 6280
[65]
Oltre che in Palmi e in Tropea troviamo dei d’Aquino in Cosenza, in Satriano e
in Seminara.
[66] I
Grassi fiorirono anche in Squillace.
[67] Per
i Lacquaniti cfr. voce Mileto.
[68] Per
i Prenestino cfr. voce Nicotera.
[69] Per
i Sacco cfr. voce Monteleone.
[70] Per
i Soriano cfr. voce Monteleone.
[71] Per
i Fiori o de Fiore cfr. voce Cassano.
[72] Per
i Franchi o de Franchis cfr. voce Rossano. Il 18 marzo 1765, Cedolario 85,
folio 637, a Enrico de Franco di Seminara fu intestata la Terra di Precacore,
con il casale di Sant’Agata, con la bagliva e con la catapania, per successione
al Barone Domenico, suo padre, deceduto il 29 novembre 1762. La Terra predetta
era pervenuta a Domenico de Franco per vendita fattagli all’asta nel S.R.C.,
per D. 55.200, contro il patrimonio del Principe di Cosoleto Giuseppe Antonio
Tranfo, con R. Assenso 15 giugno 1743, come al Cedolario 85, folio 241.
I1 30 settembre 1766,
Cedolario 85, folio 653, allo stesso Enrico de Franco fu intestato il
FeudopPaterna, sito in territorio di Seminara, pervenutogli per vendita
fattagli, per D. 3250, dal Barone Gaetano Spina, con R. Assenso 8 agosto 1758,
registrato nel Quinternione 304, folio 56. Cfr. M. Pellicano Castagna, Le ultime
intestazioni feudali..., cit.
[73] Per
i Grimaldi cfr. voce Polistena. Il P. Fiore da Cropani, op.cit., a cura di U.
Ferrari, alle pagg. 352-354, così ne scrive: «Grimaldi: famiglia francese e
nostra in Seminara e Catanzaro. Pepino Crasso Re di Francia sposò Pleriade
figliuola di Grimaldo Duca di Baviera da’ quali, nel secondo parto, venne un
maschio a cui, in memoria dell’avo materno, posero il nome di Grimaldo. Questi,
divenuto Conte della Gallia belgica, maggior Signore della Francia e
delI’Austrasia e Prefetto della cavalleria francese, gli successe Teobaldo et a
lui Ugo Grimaldi di Monaco, già creato da Ottone primo Imperadore. Tutto questo
è di Giovan Battista Ricciolo che lo trae da gravissimi scrittori e,
singolarmente per la discendenza del sangue reale di Francia ne reca
l’attestazione dell’hoggidì vivente Re di Francia Ludovico XIV il quale, in una
lettera al Principe di Monaco, apertamente confessa egli e suoi antenati
Principi di Monaco trarre la loro origine dal sangue reale di Francia per mezzo
di Grimaldo figliuolo secondogenito del Re Pepino Crasso.
A Grimaldo primo Principe
di Monaco (siegue a dire il raccordato Riccioli) successe Guido Grimaldi et a
questi Grimaldo suo fratello il quale venne seguito da Guido II Ammiraglio di
Errigo IV Imperadore e questi da un altro Grimaldo e lui da Oberto il quale al
Principato di Monaco aggionse la Baronia di S. Demitre nella Calabria superiore
e fu maggiordomo dell’Imperador Federigo I. Venne lor dietro Grimaldo VII
Principe di Monaco e Barone di S. Demitre l’anno 1218. Seguì Francesco VIII
Principe e III Barone il quale fu Ciamberlano del Re Carlo primo. Ecco Raynerio
IX Principe e IV Barone maggiordomo dell’Imperador di Constantinopoli il cui
figliuolo, o Roberto o Bartolomeo od Angiolo, come diversamente si scrive, fu
per Re Roberto VR in Calabria e spiccò il settimo ramo de’ Principi di Monaco.
Perché il primo fu quel di Genova diramatovi da Grimaldo secondogenito di
Grimaldo primo Principe. Il secondo fu quello de’ Signori di Policastro Duchi
d’Evoli, Marchesi di Teano, Conti di Pola, di quei di Bologna, di Castro e di
Cavelleroni, tutti successivamente originati da Iugo figliuolo d’Oberto V
Principe. Portò il terzo ramo ne’ Signori di Castronuovo e Gutierres nel
contato di Livio Oberto figliuolo del medesimo Oberto. Il quarto ramo lo
spiecò, piantandolo nel Piemonte, Nicolò anche lui figliuolo d’Oberto. Diramò
il quinto nel medesimo Piemonte Luchetto secondo genito di Grimaldo IV e VI
Principe, procreando li Marchesi di Pietra Alta e Signori di Belforte. Andaron
figliuolo di Francesco VII Principe nel sesto ramo generò i Conti di Bovesio e
Panerano e Marchesi di Lavantio. Il settimo fu questo nostro, spiccato come
sopra et hoggigiorno diviso in quei di Seminara et in quei di Catanzaro.
Antonio, poi figliuolo di Rainerio e fratello o di Roberto o di Bartolomeo o
d’Angiolo allargò l’ottavo ramo con li Signori d’Antipoli e Marchesi di Carbone
a quali s’aggionse il nono ramo de’ Principi di S. Caterina et altri luoghi
nella Sicilia diramatovi da Errigo sotto al regnare del Re Federigo II per
detto di Filadelfo Mugnos.
Hora de’ nostri Grimaldi le
prime memorie viene a portarcele Rimbaldo, familiare del Re Carlo II e
Castellano nel castello di Montileone il quale poi da Re Roberto l’anno 1318
ottiene in perpetuum sopra i fiscali della Provincia oncie 20 l’anno.
L’anno 1470 Re Ferdinando
concede a Francesco e Giovanni Grimaldi di Catanzaro il feudo del Ferro con
provisione d’oncie otto l’anno vitalitie, così che l’uno succeda all’altro.
L’anno 1480 il medesimo
Ferdinando scrive alla vedova Marchese d’Errigo suo figliuolo che restituisca a
Francesco Grimaldi docati trenta li medesimi imprestati dal Grimaldi a quegli e
già lasciati in testamento. L’Imperador Carlo V sotto la data in Aquisgrano li
11 gennaro del 1531 crea Gavaliero e concede l’aquila nell’arma a Nardo, o vero
Leonardo Grimaldi, quello che tempo avanti come Sindico della Città si era
ritrovato presente nella sua coronatione in Bologna et di presente era pur esso
Sindico della medesima per altri affari:
Volentes te (sono le parole di Carlo nel privileggio) qui
etiam Bononiae coronationi nostrae in Romanorum Imperatorem per Universitatem
fidelissimae civitatis nostrae Catanzarij Sindicus ad nos adfuisti aliquo
munere decorare, adstante magna Principum, Comitum, Baronum, Procerum et
Aulicorum nostrarum turba, te Equitem aureatum arcito ense creavimus,
quemadmodum tenore praesentium motu proprio et ex certa scientia, animoque
deliberato et sano, ad hoc accedente consilio et regia aucthori tate nostra,
Equitem aureatum creamus et equestris dignitatis cingulo decoramus, et omnia ad
hunc ordinem pertinentia ornamenta concedimus et elargimur. Accingentes te
gladio fortitudinis decernentesque et deinceps pro Equite aureato habearis.
Praeterea ut status huiusmodi tuus militaris luculentius splendescat, tuaque
etiam posteritas nostrae gratiae et magnificentia particeps efficiatur, arma
tua, antiqua et quae hactenus deferre consuevisti confirmamus et approbamus
eaque additione nostra nobiliora reddimus apponentes videlicet, in superiori
armorum tuorum scuti parte, quae tertia sit aurea, sive crocea aquilam nostram
nigram unius capitis, diademate nigro circumdati, ali caudaque expansis,
pedibus protentis ore aperto et in dextera converso et in cono galeae communis
clausae, tenijs sive lacinis aureis sive croceis et argenteis sive albis et
viridibus redimitae super contortis eorumdem colorum fascijs, sive antiquorum
Regum diademate anserem naturalis coloris in dextram prospecientem e cuius ore
dicterium prodeat, non per più non poter, non quanto posso, quem admodum
praesentius in medio latius depicta cernuntur... Volentes et aucthoritate
nostra decernentes ut tu praefate Narde tuique heredes et descendentes in
perpetuum huiusmodi insignijs deinde futuris temporibus insignium equestris
dignitatis susceptae habere, et deferre, illisque in omnibus et singulis
actibus, picturis horneamentis».
[74] Per
i Longhi o Longo cfr. voce Altomonte.
[75] Per
i Rossi cfr. voce Bisignano.
[76] Per
i Silvestri cfr. voce Galatro.
[77] Per
i d’Alessandro o d’Alessandria o Alessandri cfr. voce Monteleone. Nel 1772,
Cedolario 86, folio 96, a Francesco Antonio d’Alessandro di Seminara fu
intestato il Feudo Figurella sito in territorio di Seminara, pervenutogli per
successione alla Baronessa Alfonsina Romano, di cui era nepote primogenito ed
erede. Il 19 maggio 1801, Cedolario 87, folio 702, a Vincenza d’Alessandro
Filippone di Seminara fu intestato il Feudo Moncoturni o Siderno, anch’esso
sito in territorio di Seminara, per successione al fratello Barone Antonio,
deceduto il 26 maggio 1799. Il Feudo predetto era pervenuto ad Antonio
d’Alessandro senior, avo dell’intestataria, nel 1759, per successione alle
famiglie Cavallo, Filippone e Scollino, la quale ultima l’aveva acquistato con
R. Assenso del 7 agosto 1577. Alienato nel 1760, fu rivendicato nel 1770, come
al Cedolario 97, folio 489. Cfr. M. Pellicano Castagna, Le ultime intestazioni feudali.., cit.
[78] Per i Marzano cfr. voce Bova.
[79] Il
29 novembre 1776, Cedolario 86, folio 173, ad Agazio Mezzatesta di Seminara fu
intestato il Feudo Cannavà o Pirara o Foria, sito in territorio di Seminara,
per successione al Barone Francesco Antonio, suo padre, cui era pervenuto in
seguito a transazione con il R. Fisco, nella sua qualità di erede di Cesare
Mezzatesta, suo antenato, al quale il Feudo si diceva venduto dall’Università
di Seminara. Cfr. M. Pellicano Castagna, Le
ultime intestazioni feudali..., cit.
[80] A
metà del settecento, Cedolario 85, folio 378, a Mercurio Sanchez di Seminara fu
intestato il Feudo Salica o Prato, sito in territorio di Seminara, per
successione al Barone Antonio, suo padre, deceduto il 7 gennaio 1746. Il Feudo
era pervenuto al predetto Antonio Sanchez per successione alla Baronessa
Geronima Marzano, sua madre, deceduta nel 1710. Cfr. M. Pellicano Castagna, Le ultime intestazioni feudali.., cit.
[81] Cfr.
in proposito Un’aggregazione di nuove
famiglie alle antiche della nobiltà di Seminara nel 1793, di Antonino
Basile, in Archivio Storico per la Calabria e la Lucania, anno XVI pagg. 45 e
segg.
[82] Per
gli Anile cfr. voce Galatro.
[83] Il
Catasto onciario di Seminara trovasi in Archivio di Stato di Napoli, vol. N.
6308.
[84] Per
i d’Aquino cfr. voce Palmi.
[85] Per
i Monizio cfr. voce Polistena.
[86] Per
i Satriano cfr. voce Mileto.
[87] Per
i Zangari cfr. voce Mileto.
[88] Per
i Tedeschi o Todeschi cfr. voce Montalto.
[89] Per
i Nesci cfr. voce Bova.
[90] Per
i de Lauro cfr. voce Rossano.
[91]
Dati, questi ultimi tre, ricavati da Antonino Basile, Il monastero di S Elia e di
San Filarete presso Seminara, pagg. 159 e 966, Ibidem, anno XIV.
[92]
TACCONE GALLUCCI, Regesti dei Romani Pontefici, pag. 147.
[93]Archivio
di Stato di Napoli, Ministero dell’Interno, fs. 96/46.
Nessun commento:
Posta un commento