28.8.18

Post 32:


Home, con Avvertenza Preliminare.
Cap. 31. ↔  Cap. 33.
Compendio di materiali occorrenti
Per una Storia di Seminara
raccolti da Antonio Caracciolo
in memoria del padre Rocco

Volume IV

11ª Edizione digitale

(1°.11.2000-…)

– Distribuzione riservata –
_________________

Sez.

Cap
LETTERATURA
P.
ind

Indice del II Volume
1
lalf

Estratti: alfabetico
2
lcro

Estratti: cronologico
54
ltem

Estratti: tematico
100
DeSa

Estratti: De Salvo
107
Geno

Estratti: Genova
120
cstc

Estratti: Congressi storici calabresi
124



Estratti: Dall’Archivio Muratoriano

viag

Viaggiatori
126





Cap. 17°
Volume II

Sezione Prima
del Vol. II

Estratti
su Seminara
presi da opere a stampa
ed ordinati
alfabeticamente per autore o per titolo


A
a

a | b | f | g |

ALFANO G.M: voce Seminara.
a. 1794 >
«SEMINARA città, emigrata dalla sua antica situazione per cagione del tremuoto del 1783., tiene vicino un gran lago; vi è la Badia di S. Elia nuovo, Dioc. Mileto, feudo della casa Spinelli, d’aria cattiva, fa di popol. 4277».

Giuseppe Maria ALFANO, Istorica descrizione del regno di Napoli diviso in dodici provincie, Napoli, Manfredi, 1798 [ma scritta nel 1794], p. 113.

*

ALBERTI Leandro: Su Seminara e dintorni nella “Descrittione d’Italia”
a. 1578 >:
p. 205:
«…Più avanti procedendo alquanto dal lito discosto, vedesi Gioia. Il cui territorio è molto bello, & pien di Vigne, d’Aranci, Limoni, & d’altri fruttiferi Alberi. E non meno è producevole di grano, e d’un largo, & cupo fiume, che credo sia del fiume Metauro[1], descritto da Strabone, & da Plinio, hora fiume di Seminara detto. Era ne’ tempi di Strabone quivi il porto Metauro, talmente nominato dai Zanclei [= Calcidesi, come si desume più avanti nel testo], secondo Solino. Poscia da Gioia 8. miglia lontano, si scopre Palma contrada. Poscia il castel Bagnara…».
p. 213:
«…A man sinistra della via da Rosarno a Seminara (della quale poi parlerò,) si scopre Polistena castello ben pieno di popolo; & più oltre due miglia sopra il monte Apennino il Castello Santo Giorgio, & da otto miglia alle radici dell’Apennino, la Città di Terra Nuova, molto popolosa…».
p. 213/14:
«…Ritornando a Rosarno, & caminando venti miglia per l’antidetta / pianura  si arriva al fiume detto S. Leo dalla contrada S. Leo ivi vicina, & poi di Seminara, & altresi di S. Gio. della prefatta pianura. Passato detto fiume, & salendo all’alto colle, ritrovasi Seminara ben’habitato castello. Appresso l’antidetto fiume, nella soprascritta pianura di S. Giovanni, furono spezzati, et rotti i Francesi dagli Aragonesi ne’ tempi di Lodovico 12. Re di Francia, & poi da quest’altro lato di detto fiume appresso Seminara, si dimostra il luogo sopra le rive d’esso (come io ho veduto) ove fu superato l’essercito di Ferrandino d’Aragona Re di Napoli da i Francesi, l’anno precedente, ch’erano stati superati detti Francesi dall’altra parte del fiume, in quella pianura avanti descritta. Et essendo fracassato l’antidetto essercito del Re Ferrandino, apena esso ebbe tempo di fuggir sopra una cavalla senza sella infino al mare, ove salì una barca, & paßò a Meßina, come etiando scrive Corio nell’historie di Milano. Passato Seminara si salisce sopra l’Apennino, ove si vede il bello, & buon paese, c’ha Seminara intorno, tutto lavorato, & fertile, & pieno di vigne, & d’alberi producevoli di saporiti frutti. Assai frumento si cava di esso paese con altre biade. Caminando sempre sopra i gioghi dell’Appenino, si arriva ai folti, & spaventevoli boschi di Solano addimandati pericolosi paßi di Solano, per i Ladroni che v’habitano. Quivi veggonsi le Pietrarezze de i Selici, ove sono molti pezzi di quei cavati di tal figura, sì come son quei de i quali si ritrovano silicate alquante vie intorno a Roma, & maßimamente la via Appia. Caminando adunque da Seminara quasi sempre sopra la schiena dell’Apennino, & per detti boschi, diciotto miglia, quasi sempre vedendosi l’Isole Eolie, & di Vulcano (dalla quale chiaramente si vede esalare fiamme, & fumo) si arriva a Fiumara di Muoro, scendendo però alquanto dalla cima di detto monte. …».
Leandro ALBERTI bolognese, Descrizione dell’Italia Coll’Isole apparteneti all’Italia, Venetia, presso Gio.…, 1578, pp. 205, 213-14

B
b

BARBIERI Matteo: Notizie istoriche dei Mattematici e filosofi del regno di Napoli scritte da Matteo Barbieri, in Napoli MDCCLXXVIII, presso Vincenzo Mazzola-Vocola, Impressore di Sua Maestà:
a. 1778:

p. 83:
Nello stesso Secolo fiorì Barlaamo detto il Calabro, di Seminara, non solo Teologo e mischiato nella lite coi Greci circa la Processione dello Spirito Santo, ma Mattematico ancora, come i nomi…


BARRIO, ed. T. Aceti: Estratti su Seminara, Taureana e paesi vicini:
a. 1737:

[58] Anno 1535. Carlo V, espugnata Tunisi, in Africa, passò in Sicilia; di lì, nel mese di Ottobre, sbarcò a Reggio ed entrato ben presto in Sinopoli fu ricevuto con i massimi onori dal conte Paolo Ruffo. Il 3 novembre entrò in Seminara, quindi in Monteleone, di poi giunse a Nicastro, Mamerto, Carpaciano e Rublano, dove, ai Signori del Fosso, che lo accolsero, lasciò come ricordo uno sprone, che ancora si conserva presso Carlo in Sicilia. Di lì per il territorio di Figline, volgarmente detto l’lmperatore e Fontana di Carlo V, si portò a Paterno e Dipignano, dove anche concesse privilegi; di poi per Tessano il 7 giunse a Cosenza, dove fu accolto con incredibili festeggiamenti. Il magistrato presentò diecimila giovani fatti venire dal suburbio cosentino, comunemente Casali, idonei quanto mai altri al servizio militare, affinché l’entrata in Cosenza fosse più spendida, con grande meraviglia dell’imperatore e del seguito. Era allora presente Pietro Antonio Sanseverino, principe di Bisignano, il quale, con magnificenza, come era giusto, accolse Carlo V nella reggia presso Villa Mauro, celeberrima per la caccia, nel territorio di Corigliano; la fama di questa magnificenza si diffuse in lungo e in largo. Cfr. Censt. Gregor. Ross ed altri. Agli uomini della famiglia Aceti Carlo V elargì vari benefici, come si ricava da un diploma e da un'iscrizione che addurremo. Anno 1554. In Cosenza fu portato a termine il bellissimo ponte sul Crati, detto di S. Maria, dal celebre architetto Gilberto Rublanense, come si legge in MS Belmont. Anno 1554. Carlo V abdicò e consegnò il potere al figlio Filippo II. Cfr. Mazzell.
[283-298]:
Capitolo XVII

TAURIANO. IL B. FANTINO ED ALTRI UOMINI
NOTEVOLI PER SANTITÀ,.


La città di (1) TAURIANO, o Tauriana, esistette in questi luoghi, e scomparve; dai suoi resti fu costruita la città di SEMINARA. Tauriano fu distrutta ai tempi del B. Nilo; di essa parla Plinio, come pure Pomponio Mela, che la colloca tra le citta di Metauro e Squillace; la ricorda anche Stefano: « Tauriana, dice, dalla quale Tauriano l’abitante ». Ateneo nel libro sesto tramanda che da questa città prese nome un pesce. Scrive infatti tauriano per piatto di pesci. « Il pesce spada, dice, è il tauriano, un pesce che dalla cittadella di Tauriano è detto tauriano. Plinio nel libro trentaduesimo: « Il tauriano, dice, alcuni lo chiamano pesce spada ». E ancora il pesce spada è col grifo puntuto; colpite da esso le navi nell’oceano sono colate a picco. Se ne trovano talvolta che superano la grandezza di un delfino, dice lo stesso nel libro nono. Strabone li chiama galeotti, il volgo pesce spada. La loro cattura avviene presto. Tauriano fu sede episcopale; Giorgio, Vescovo di Tauriano, partecipò al Sinodo di Costantinopoli sesto. E (2) Teodoro, Vescovo di Tauriano, partecipò al Sinodo di Nicea secondo. Fa menzione di questa sede episcopale il B. Gregorio Papa, lib. 2, nell’epistola a Paolino. Vescovo di Tauriano, al quale affida la chiesa di Lipari; e Paolo Diacono ricorda lo stesso Paolino, Vescovo della città di Tauriana, della Provincia dei Bretti; morto questo Vescovo, lo stesso Gregorio raccomanda la Chiesa di Tauriano a Giovanni, Vescovo di Squillace. E nei decreti di Papa Gregorio III, che fu in carica nell’anno dal parto della Vergine 735, è fatta menzione di Opportuno, Vescovo di Tauriano, sebbene erroneamente si legga di Metauria. Di questa città fu il beato (3) Fantino, abate, monaco [284] di S. Basilio, veramente decoro. Costui dapprima fu palafreniere di un concittadino; un suo concittadino scrisse in greco la sua vita e dice che nella chiesa di S. Fantino, la quale sorge non lontano dalla cittadella di Parma, sono sepolti i beati Giovanni e Gregorio, Vescovi di Tauriano. Fiorì il beato Fantino nel secolo del beato Nilo, del quale parleremo a suo luogo. Il beato Fantino godeva ciel suo amore scambievole con grande dolcezza e diletto. Il beato Bartolomeo nella vita del beato Nilo lo chiama celebre; era a capo del monastero del beato Mercurio. Di lui Bartolomeo stesso così scrive: «L’estasi, più veracemente fu uno scambio della destra dell’Eccelso, fu concessa al beato Fantino, il quale veramente fu profeta, e come udimmo che Geremia, col capo e il mento rasato, si aggirava in Gerusalemme travagliata dai lutti, e mostrava di se stesso la considerazione di uno stolto delirante, allo stesso modo era possibile vedere questo celebre uomo e veramente profeta e beato essere stato provato, infatti, sia vaticinando la sensibile distruzione della Calabria, e la miserevole invasione degli Agareni, o l’eversione totale della virtù, e il piegarsi dei monaci ai vizi e alla volgarità, cosa che più è da credere. In verità egli stesso deplorando le sventure si muoveva tra le chiese, i monasteri, e i libri, dicendo invero che quelle erano piene di asini e muli; questi sono bruciati col fuoco, dice, e scompaiono; questi, invero, poiché sono pieni di ragnatele e si perdettero, sono stati spezzati, ne quindi abbiamo libri da leggere. Quando vedeva un cenobita del suo monastero, io piangeva come morto, dicendo: “Io, o figlio, ti ò ucciso”. Faceva e diceva cose di tal genere; nè voleva stare sotto un tetto, ma sotto il cielo aperto, né voleva gustare cibo, ma, errando per luoghi deserti, viveva di erbaggi selvatici. Questi fatti indussero nella massima tristezza il beato Nilo (infatti allora dimorava in quella grotta presso il monastero del beato Mercurio la quale aveva un altare dedicato al beato Michele Arcangelo) e giorno e notte lo stesso beato Nilo piangeva la privazione di un buon compagno, amico e cooperatore. Spesso lo seguì per convincerlo a far ritorno al monastero e lì trovare riposo. In verità quello non volle obbedire alle sue esortazioni, dicendo: « Coloro che abitano nel monastero non sono miei cenobiti: se infatti lo fossero, piangerebbero con me. Invece gridano contro di me furente e dissennato. Sappi dunque, diletto padre, che migrerò verso la regione piu in alto, e ivi sarò istruito, e non ritornerò piu nel mio monastero». E così fece il beato, come disse, prendendo il luogo che a lui Dio assegnò prima di tutti i [285] secoli. La sua festa si celebra (4) il 24 luglio. Francesco Maurolico, Siculo, lo rivendica a Siracusa e, per sicula vanità, celia che i suoi genitori, Fanto e Diodata, furono martiri. Nello stesso monastero c’era il beato Luca, fratello del beato Fantino, a lui simile per prudenza e vita, e idoneo al governo e mediocremente istruito nelle sacre lettere. Il beato Nilo, insieme a tutti gli altri monaci di quel monastero, lo sostituì, contro la sua volontà, al beato Fantino nel governo del monastero. C’era anche, nello stesso monastero, il beato Zaccaria, uomo di grande virtù e santità, che il beato Bartolomeo chiamava Angelico, della benevolenza del quale anche il beato Nilo godeva. Non lontano da questo monastero c’era anche un altro monastero (era appunto allora la Calabria altro Egitto, madre patria di monaci), il cui nome il beato Bartolomeo à taciuto. Ritengo che esso fosse quello che sorge a Melicloclia, di cui diremo presto, nel quale monastero viveva il beato Giovanni, abate al tempo del beato Nilo, uomo e molto erudito nelle sacre lettere e pieno di santità, che il beato Bartolomeo chiama Grande. Egli attendeva alla lettura assiduamente, soprattutto di S. Gregorio Nazianzeno, e la illustrava agli altri. Il beato Nilo lo venerava come Giovanni Battista, così che spesso baciava con grande devozione anche le orme dei suoi piedi, e lo consultava sui dubbi della sacra scrittura, che egli chiariva molto sapientemente e dottamente, Tauriano fu distrutta da Agareni, Mauri, Cartaginesi, collegatisi in empia alleanza e allestito un grande esercito, aiutandoli i Siculi, al tempo del beato Nilo, durante il quale furono distrutte anche altre città di Calabria, Lucania e Puglia. Per questa devastazione, poichè alcune città rimasero vuote di cittadini, le sedi episcopali furono trasferite in altre sedi, o aggiunte ad altre. Su Geolia c’è il castello di (5) Drosio, che significa rugiada. E sopra sorge la nota cittadella di (6) Terranova, in luogo alto, circondata d’ogni parte da rupi, alle falde dell’Appennino, che è lambita dal fiume Marno, ricco di trote e nel quale sono le lontre. Dista dal mare diecimila passi; è cittadella antica, ma dopo la devastazione della Calabria, da seicento anni a questa parte, ricevuti nuovi coloni, è stata così chiamata. Vi si celebra un famoso mercato ogni anno e si produce ingente quantità di ottima stoffa di seta. Nella chiesa di S. Caterina si conservano due spine della Corona del Signore, un pezzetto del legno della croce e della colonna alla quale Cristo fu flagellato, come pure pezzetti del velo della beata Maria Vergine, reliquie dell’Apostolo Matteo, di Biagio, Cristoforo e altri santi. Questa cittadella trovandosi su un’altura, [286] gode di una grande pianura, che è fertile di grano e altre biade, e atta ai pascoli. Si producono vini molto rinomati e panni di cotone lodatissimi di due tipi, che gli indigeni chiamano maschili e femminili, nasce la canapa, si fanno belle uccellagioni di fagiani, starne, pernici e altri uccelli; sui monti si cacciano animali selvatici. In questo territorio si trovano i villaggi di (7) Rigicono, Leono, (8) Martino, con ortaggi rinomati, e dove scaturiscono acque calde e sulfuree, Martino di nuovo, Crestoo, che significa buono e utile, Vatono, da vateo, abbondo, (9) Radicina, pari a piccola città, con stoffe di cotone ottime. Di questo villaggio fu Giovanni Giacomo Bombini, erudito nelle lettere latine. Iotrinono, quasi medicinale, con ottime stoffe di cotone. Di questo villaggio fu Antonio Floceano, Giureconsulto esimio nella nostra età, il quale godette di grande stima in Napoli. Baracado, che significa breve, con un mercato annuo. Cortilado, Galatono, da un fatto; galatono signiflca infatti fanciullo lattante. Scrofonio, Molochio, che significa molle, e Molochio di nuovo, con un emporio. Di poi c’è Castellaco, un minuscoío castello.


NOTE DI TOMMASO ACETI

(1) Tauriano. Città antíchissima, deila quale Plinio, lib. 3 cap. 5. Porto d’Ercole, fiume Metauro, cittadella di Tauriano, Porto di Oreste e Medma. Si ignora tuttavia la sua origine, ed è incerto se derivi il nome da un certo Tauro, duce, o dal Tauro, monte dell’Asia, o invero dal fiume Metauro.
(2) Nel secondo Sinodo di Nicea, sotto Adriano I tenuto contro gli iconoclasti, act. VII, si legge di lui: Sedendo costoro innanzi al sacro pulpito del tempio della Santissima e alma Chiesa, che è detta Sofia, essendo presenti e ascoltando il gloriosissimo e magnificentissimo duca Petrona, chiarissimo Console, e Pietro, Patrizio, e il seguito imperiale, inoltre i Religiosissimi Archimandriti, presidenti e Monaci, in quell’ordine che è stato annotato nella precedente formula di diritto innanzi i santi e inviolati Vangeli di Dio, Teodoro, Santissimo Vescovo di Tauriano, dell’isola di Sicilia, prende nelle mani e legge la definizione edita. Dove bisogna notare che la Calabria è chiamata anche con il nome di Sicilia, come abbiamo annotato in Anastas. Biblioth. sotto Agatone, del quale si riparlerà più avanti.
Fu anche di questo luogo Marciano, Presbitero, da S. Gregorio creato Vescovo di Gerace, al quale affidò anche la causa del Clero Reggino contro il Vescovo Bonifacio. Epist. lib. 6 e Ughell.
(3) Il Beato Fantino. Tre furono i Santi uomini di questo nome: Fantino di Calabria, che alcuni fanno Cosentino, come è possibile vedere nel monastero di Grottaferrata nell’agro Tusculano, figlio di Giorgio e Briennia, del quale si parla nel menologio greco tradotto in latino dal Cardinale Sirleto. Fantino dl Tauriano, figlio di Giovanni e Tedibia del quale il Barrio qui parla; Fantino, ugualmente di [287] Tauriano, figlio di Fanto e Teodata, Martiri, che alcuni insulsamente rivendicano a Siracusa, dove dimorò per qualche tempo; ma anche dal Mandresio, scrittore siculo, che cita il codice di Pietro, Vescovo di Tauriano, risulta che fu di Tauriano. Egli, dopo il ritorno da Siracusa, convertì a Cristo Tauriano, sua città, e ivi, famoso per Santità e miracoli, volò al cielo il 24 luglio.
Furono anche di questo luogo i Santi Martiri Nivito, Canziano, Candido, Crisogono, Atteone, Quinziano, Proto, Teodoto, e Canzionilla, come si ricava da un antichissimo codice MS esistente nel Monastero Basiliano di S. Elia, e dal MS Gualt.
(4) Il 24 luglio. Nel Martirologio Basiliano è annotato il 23 luglio.

(8) Martino. Comunemente S. Martino della Piana. Villaggio antichissimo. Oui era la Valle dei Salini, comunemente Piana dl S. Martino, dove Carlo, Principe di Salerno, schierò l’esercito. Qui pure ci fu una adunanza sul regno tra il Pontefice Onorio IV e Carlo I d’Angio il 30 marzo 1283. Capit. regn. fol. 332.
Di qui furono Francesco e Angelo, dell’istituto dei Cappuccini, famosi per castità di vita e miracoli. Ouello famofi nel 1574, questi a Mileto nel 1572. Chron. p. 2 t. 1. Nella Diocesi di Mileto.

Capitolo XVIII

OPPIDO, SEMINARA, PALMI, BAGNARA
ED ALTRE CITTADELLE E VILLAGGI.
SCILLA E CARIDDI.

Sopra v’è la città di (1) OPPIDO, sede episcopale, alle falde dell’Appennino, posta in luogo alto e salubre, conferendo potere agli abitanti, tra i due fiumi, il Trecorio e il Mada, fecondo di trote e anguille; è cinta da ogni parte da valli. Vi si celebrano ogni anno famosi giorni di mercato. Il territorio fornisce tutte le cose necessarie agli abitanti; infatti è ferace di grano ed altri cereali, atto al pascolo delle greggi e irriguo; d’estate vi pascolano belle mandrie di cavalli. Si producono oli, vini, e stoffe di cotone ottime In questo territorio ci sono i villaggi di (2) Varapodo, pari a cittadella, con un emporio,.quasi piede pesante e stabile, Crotono, che significa lode, Tresilio, Misidano, e Sargonado. Qui le olive, grosse come mandorle e carnose, condite in botti, sono ottime a mangiarsi. Non lontano sorge il castello di (3) Cristina, posto in luogo basso, alle radici dell’Appennino, presso il quale scorre il fiume dello stesso nome.
Nel territorio ci sono boschi ghiandiferi comodi per nutrire i porci, come pure selve buone per legname da costruzione, suppellettili, navi. Si fanno cacce, quali a Calatro, si produce un olio rinomato; le olive, della grandezza di mandorle e carnose, condite in botticelle, sono ottime a mangiarsi. Vi sono, nel territorio, i villaggi di (4) Pedaulo, quasi piede grasso, o entrata di fanciulli, con ottime stoffe di cotone che minimamente invidiano le alessandrine; Sido, con un mercato annuo, che significa scheggia di legno e assicella, ugualmente con ottime stoffe di cotone quali si producono a Pedaulo; (5) Georgia, che significa coltivazione dei campi; Cocipedono, che significa pianto di bambini, Lobrico, e Sitizano, detto da sitizo, nutro, dove nasce il marmo. Questi villaggi [290] sono greci e celebrano messa in lingua e rito greco, ma nei discorsi quotidiani si servono della lingua latina e greca. Quindi, per colui che si dirige a mezzogiorno si offre la cittadella di (6) Sinopoli, in località posta alle falde dell’Appennino, ma sospesa, che il fiume Vado, abbondante di trote e anguille, lambisce. (7) Di questa cittadella fu il beato Paolo, Minorita, il cui corpo riposa a Nicotera. In questo territorio ci sono castagneti e i villaggi di Eufemia, (8) Precopo, Sinopoli, villaggio greco con un mercato annuale, (9) Acquario, dove si produce vino rinomato e abbondanza di ottimo olio; qui anche le olive, grosse come mandorle e carnose, preparate in botti, sono ottime a mangiarsi. Non lontano da Sinopoli c’è il debole castello di Cosileto. Quindi la cittadella di (10) Meliclochia, ove si produce ingente quantità di ottimo olio e olive qua!i a Sinopoli. Vi si tiene un mercato ogni anno. C’e anche la chiesa del beato Elia, Abate monaco di S. Basilio, il cui corpo si ritiene sia a Calatro. Di poi si presenta la città di (11) SEMINARA, resti di Tauriano, lontana dal mare tremila passi, su un declivio, volta ad oriente. Infatti, dopo la distruzione di Tauriano, il popolo scampato a quella strage si trasferi qui con il suo Pontefice, e la sede episcopale vi rimase per parecchi anni. Ma Ruggiero il Guiscardo unì questa sede e queila di Hipponium a Mileto, forse perchè al!ora gli abitanti di Hipponium e Tauriano erano pochi. Ma ora Hipponium e Seminara sono abbastanza popolose. Perciò ad ambedue dovrebbe essere restituita la sede episcopale, rimanendo a Mileto la sua. Infatti ora la diocesi di Mileto è estesa, tanto che può essere agevolmente divisa in tre diocesi. Vi si produce abbondanza di seta e di olio molto lodato, le olive sono grosse e carnose, quali a Meliclochia. Si producono panni rinomati, vino non volgare, si ricava il gesso speculare, si fanno uccellagioni di fagiani, starne, e altri alati di una certa grossezza. Non lontano sorge la fabbrica del beato Filarete, cenobio dei monaci di S. Basilio, dove si conservano un braccio dello stesso Filarete ed il capo del beato Elia, suo maestro. Questo beato Filarete fu monaco di S. Basilio, abitante di questa regione; il suo maestro fu, come ò detto, il beato Elia. La solennità del beato Filarete si celebra il 6 aprile. Ai piedi della cittadella scorre il fiume Metauro. In questo territorio c’è il villaggio di (a) Anna, Decalstidium nell’itinerario di Antonino Pio, con abbondanza di ottimo olio e olive grosse e carnose come a Seminara. Nell’agro fino al Cenide nasce in abbondanza il croco selvatico. Quindi v’è la cittadella di (12) Palmi, sul mare, con un olio conosciuto; dista da Geolia seimila passi. [291]
Non lontano sorge il santuario del beato Fantino, un tempo dedicato al beato Mercurio, monastero dei monaci di S. Basilio, presso il quale si recò il beato S. Nilo per prendere l’abito monacale, dove allora vivevano molti santi nuomini, e, tra gli altri, il beato Fantino, il beato Zaccaria, il beato Luca, e il beato Filarete. Sopra la città si leva un monte altissimo, a picco sul mare; quì c’è la grotta nella quale il beato Elia, Abate, intanto soleva trascorrere vita solitaria, che talvolta anche il beato Nilo abitava. A Palmi ci sono reti per tonni; infatti questo mare e pescoso; vi si catturano tonni, pesci spada, murene, orate, grongi e altri pesci di ottima qualità. Si raccoglie il corallo. Dopo Palmi si offre la città di (13) Bagnara con un porto; è bagnata dal mare; è posta in luogo alto tra i due fiumi Caziano e Stalassa; dista da Palmi settemila passi.
[…] Nell’agro di Scilla si produce un ottimo vino, detto (e) Melvasio, quale si produce a Creta. In questo mare, come ò detto, si fa una gran pesca di pesci spada. Della loro cattura Strabone nel libro primo cosi scrive: « La pesca del pesce spada, che si pratica nel tratto di mare di Scilla: mentre le barche, fornite di due remi, si tengono sul posto, un osservatore comune sta in alto; ogni barca ne à due, l’uno naviga, l’altro siede a poppa tenendo l’asta dal corpo senza la punta, perchè invero il giavellotto è forgente del pesce spada, si dice che sporga dalla superficie dei mare la terza parte della bestia, la barca si porta più vicino, quindi è ferito con giavellotto scagliato con mano. Allora, strappata l’asta dal corpo senza la punta perché invero il giavellotto è fornito di amo che possa estrarsi facilmente, e una funicella è acconciamente legata ad esso, piegano il peso attaccato dell’animaie, finchè travagliato e fuggendo è stancato. Allora lo trainano verso terra o lo caricano sulla barca. Se il giavellotto è caduto in mare, non va perduto. Infatti è ricavato da quercia o abete, così che, inabissatosi per il peso della quercia, di poi riportato in alto, facilmente può essere recuperato. Ma capita talvolta che il rematore sulla barca sia ferito dalla grande spada dei pesci. E poichè l’impeto dell’animale, simile a cinghiale, si scatena, la stessa caccia diviene molto aspra. Infatti quando i tonni, spinti lungo l’Italia, scivolano in massa e sono impediti dal raggiungere la Sicilia, si imbattono in animali più grossi, come ad esempio, delfini, pescicani ed altri simili a balene, si ingrassano i pescicani e i pesci spada, forniti di elmi, che dicono chiamarsi spada. […]

NOTE DI TOMMASO ACETI

(10) Meliclochia. Comunemente Melicoccà. Di questo luogo fu S. Luca, dell’istituto basiliano, Vescovo isolano, famoso per santita e miracoli, come si ricava da un antichissimo codice M.S in greco. che è conservato a Messina nel Monastero di S. Salvatore. È lecito congetturare che il Santo Vescovo fu molto gradito al conte Ruggiero il quale accrebbe molto il Vescovado isolano. Cfr. Ughell. Bernardo Spin., Giureconsulto e Pretore della città di Janna MS Gualt. Michelangelo Falvetta, Presbitero espertissimo della musica, prefetto dei musici nella Chiesa Cattedrale di Messina circa l’anno 1695. MS Mart. Pietro Gammacurta, dei Principi di Arturio,. della Congregazione del B Pietro di Pisa, discepolo di Campanella, famoso per l’arte della memoria e la dottrina. Alcuni tuttavia lo dicono di Ardurio. Morì in Roma, nel convento di S. Onofrio, nel 1689, settuagenario. Topp. Questa cittadella è sotto la signoria dei cavalieri di Gerusalemme.
(11) Seminara, Seminaria. Città famosa, quasi semenzaio, non tanto di beni, per il vantaggio della vita, quanto di illustri uomini per la gloria. Infatti poiché la maggior parte di Tauriano, allora fiorentissima. e distrutta dai Saraceni era confluita qui, portò non tanto ricchezze quanto virtù. Avvenne nello anno 986, come si rileva da Protospata, nel quale anno quasi tutta la Calabria fu devastata
Furono di questo luogo Filippo Spinelli, dei Conti di Seminara. Arcivescovo di Colosso, poi Vescovo di Policastro e Chierico della Camera Apostolica quindi Nunzio Apostolico presso l’imperatore Rodolfo, e Vicelegato di Romagna; infine, dopo tanti lavori portati a termine, da Clemente VIII creato S.R.E. Cardinale tit. di S. Bartolomeo presso l’isola tiberina 1’8 settembre 1603 e nel 1605 Vescovo di Aversa. Morì il 1616, piu che cinquantenario. Ciacon. e Oldoin. to. 4,. sebbene Gualtieri nel suo MS lo dica di Cristina. Giacobello, Minorita, Vescovo di Bova, anno 1441. Mori a Roma il 1443. Ughell. Barlaam, da monaco basiliano Vescovo di Gerace, anno 1342, del quale Barrio in suppl. sotto lib. III Cap. V. Costui, carissimo all’imperatore di Costantinopoli Andronico Paleoloso giovane, più di una volta sconfisse tutti gli scismatici greci, che lo avevano in odio, soprattutto nel 1341, nel Sinodo di Costantinopoli, alla presenza dell’imperatore e del Patriarca Giovanni. A nessuno secondo per erudizione sacra [296] e profana, insegnò a Leonzio di Tessalonica, Boccaccio, Paolo Perugino, Petrarca ed altri. Scrisse cinque Epistole contro i Greci, sul Primato del Papa, l’Etica degli Stoici e altre opere, testimonianze famosissime del suo acutissimo ingegno presso gli storici. Esistono anche vari MS a Vienna nella Biblioteca Imperiale. Cfr Niceforo Gregor. lib. 2 Ughell. nella stessa Diocesi n. 12, Filipp. Cipr., Bocc. in genealog. lib. 15, Filipp. Bergom. Vobb., Leon Allat., Topp. Vi fu anche un altro Barlaam, Vescovo di Gerace, nato a Costantinopoli, che alcuni dicono Calabro, e di due fanno uno.
Angelo Gerace, Minorita, uomo di santa vita, guardiano emerito del Cenobio di Betlemme, anno 1610, Vicario di Terrasanta, anno 1614, inviato in Egitto dal Sommo Pontefice Paolo V e Guardiano del S. Sepolcro; morì ucciso dai barbari. MS Gualt., dove loda la storia Seraf. Gonzag. Domenico Anania, della famiglia Domenicana, uomo di santa vita; morì a Soriano nel terremoto del 1659, con altri, dei quali altrove MS Mart. Domenico Cianciarusio, ugualmente della famiglia Domenicana; pubblicò l’opuscolo L’Umiltà non finta, Messina, ristampato nel 1690. MS Mart. Vincenzo Martelluccio, della stessa famiglia, uomo di santa vita. Amat. Francesco Silvestri, comandante militare nella guerra di Messina, anno 1674, come dal più volte lodato MS di Domenico Martire, autore contemporaneo. Francesco Sopravia, filosofo e medico espertissimo; scrisse de Natura rerum contro i Peripatetici. Maraf lib. I, cap. 30. Francesco Martelli, Conte Palatino. MS Mart. Francesco Tornese, musico e poeta celebre, Segretario della Città di Messina MS Mart Pietro, dell’istituto dei Cappuccini, Sacerdote, famoso per santità e miracoli. Morì il 1576, ottuagenario, nel giorno preannunciato della morte Gualt., Giovanni, dello stesso istituto. Laico, notevole per santità di vita e penitenza. Morì più che centenario in grande fama di santità; il corpo, cosparso di mirabile profumo e sudore, giacque insepolto per tre giorni, perchè fosse mostrato abbastanza a coloro che affluivano. Chron. anno 1593.
Giulio d’Alessandro, Comandante militare MS Mart. Giuseppe, della famiglia Francescana riformata, integerrimi di vita. Chron. Giacobello Franco, Conte Palatino, come da un’iscrizione esistente nella Chiesa dei P P. Conventuali. Scipione Chirico, Comandante militare. MS Mart. Tommaso Speranza, familiare dell’imperatore Carlo V, come da diploma del 1549. MS Gualt. Giovanni Battista Modio, medico celebre, uno dei primi figli di S. Filippo Neri, del quale oltre; sebbene alcuni lo dicano di Severina, tuttavia nessuno mette in dubbio che sia Calabro. Cfr. oltre, lib. IV, n. 1. Nella Diocesi di Mileto.
(12) Palmi. Parma. Ora comunemente Palme. Villaggio una volta abitato agli inizi dagli scampati di Tauriano; ora cittadella nota abbastanza popolata Di questo luogo fu Antonio, Minorita, celebre predicatore; vi costruì anche un cenobio Gonzag. hist. Seraph, e MS Gualt. Nella Diocesi di Mileto.
(13) Bagnara. Balnearia. Non una volta chiamata città Comunemente Bagnara, nome derivato dai bagni. O città, o cittadella, fu costruita dai Normanni sotto il conte Ruggiero, e dagli stessi si cominciò ad abitare nel 1085. Vi edificarono dapprima la Chiesa con il Monastero detto di S Maria e dei S.S. Dodici Apostoli, che passò poi ai Canonici Regolari di S. Agostino, poi all’Ordine Florense, quindi, cioè nel 1470, ai Canonici Lateranensi, e, sotto Sisto IV, nel 1471, al Capitolo Lateranense, che vendette la città, o cittadella, a Giacomo Ruffo nel 1579, come da documento e atti Capitolari. Questa città, o cittadella, gode di molti privilegi, come dai Diplomi di Carlo III, del 1381 Giovanna II, 1432, Alfonso, [297] 1443, e del Re Ferdinando d’Aragona, 1503, conservati nello stesso Archivio. La giurisdizione spirituale spetta al Priore del Convento di S. Domenico, che ivi presiede, come da Indulto di Sisto V del 7 maggio 1588. […]



OSSERVAZIONI DI SERTORIO QUATTROMANI

(a) Anna. Ora S. Anna. Decastalium per Antonino. Cosi tut~i

Gabriele BARRIO, Antichità e luoghi della Calabria. Prolegomenie, Aggiunte e note di Tommaso Aceti. (Roma 1737), trad. it. di Erasmo A. Mancuso, Cosenza, Brenner, 1979, 1985.




BASILE Antonino: Il frate “selvaggio” Marcantonio Capitò ed il diritto di asilo in Seminara alla fine del Cinquecento.
a. 1964 >

[343] Il vescovo Marcantonio del Tufo, di nobile famiglia napoletana, figlio di Alfonso del ramo dei baroni di Frignano, nominato vescovo di S. Marco il 5 aprile 1585, passò a Mileto di Calabria il 21 ottobre dello stesso anno. Energico, con grande concetto della propria autorità, egli era, come dice l’Amabile, «superlativamente battagliero nelle questioni giurisdizionali e naturalmente, anche per tal motivo, si trova nominato nella congiura del Campanella». Il conflitto che egli ebbe con l’autorità laica, in seguito al quale veniva scomunicato l’avvocato fiscale Xarava, è noto per l’importanza che ad esso avrebbe voluto dare il Campanella, amico del vescovo stesso, con l’intento di rendere credibile la sua tesi difensiva che lo Xarava perseguitasse per spirito di vendetta gli amici del vescovo, e quindi il Campanella stesso, aggravando le accuse contro di loro per odio al vescovo. Certo il forte senso della propria giurisdizione dominava il Del Tufo e lo induceva a permettere che i conventi della sua diocesi diventassero asilo di banditi[2] e a resistere energicamente alle richieste di arresto di essi, avanzate dall’autorità laica. Il Del Tufo aveva dimostrato la sua natura energica quando un fra Maurizio Telesio di Cosenza, uno di quei cavalieri gerosolomitani i quali, col titolo di frati e col benefizio della giurisdizione ecclesiastica, commettevano prepotenze e delitti, fu arrestato dall’auditore Vincenzo di Lega, in un paesello della diocesi di Mileto nel quale s’era asserragliato. «Allora un prete a nome del Rev.mo Vescovo di Mileto gli fu notificata in parola che lui et li detentori di detto Mauritio erano incorsi in censura, admonendoli a liberarlo».
Ancora maggiore energia il Vescovo dimostrò nella controversia sorta con l’autorità vicereale intorno alla faccenda di Marcantonio Capitò. Era costui un chierico selvaggio[3] della diocesi di Mileto, il quale, avendo bastonato un frate basiliano, per salvarsi dall’intervento della R. Audienza si era rifugiato in una chiesa. Per mantenere [344] intatto il diritto di giurisdizione il Vescovo aveva rifiutato di consegnarlo all’autorità. Perciò l’Avvocato fiscale D. Luise Xarava, uomo indotto, ma di straordinaria energia, si trovò costretto ad entrare nella chiesa per catturare il Capitò, che affidò alla custodia del castellano di Pizzo. I1 Vescovo scomunicò lo Xarava nonché il procuratore di Pizzo D. Fabrizio Poerio ed il Principe di Scilla, signore del luogo[4]. Poi, non pago delle scomuniche, nel febbraio 1598 mandò al Pizzo suo fratello Placido del Tufo, il quale, dopo aver convinto il castellano a togliere il Capitò dal carcere ed a custodirlo in una sua camera, nella notte, aiutato da due domestici del fratello, mediante una corda lo fece fuggire e ricoverarsi nel palazzo vescovile. Poiché il vescovo stesso non aveva dato alcuna punizione al Capitò e, anzi, lo aveva lasciato andar libero a Seminara, il Viceré lo fece carcerare di nuovo. Allora avvenne a Seminara una sommossa fomentata dai preti, i quali, armati d’accetta ed aiutati da alcuni laici, al grido di «viva il Papa» liberarono a viva forza il Capitò[5] . Ne sorse una questione spinosa tra l’Autorità laica e l’ecclesiastica, questione che noi possiamo seguire nel Carteggio del Nunzio Pontificio in Napoli con la corte di Roma del 1599[6]. Il fatto era gravissimo ed il Capitò veniva nuovamente incarcerato per ordine del Viceré conte di Olivares, il quale ne dette espresso incarico al capitano di Seminara con lettera del 25 giugno 1599[7]. Il conte di Lemos, succeduto frattanto all’Olivares, il 25 luglio ordinava al governatore di Calabria Ultra di mandare a Napoli alle carceri della Vicaria il Capitò, con tutte le precauzioni necessarie a che non accadessero disordini[8]. Successivamente, in data 15 settembre 1599, il Viceré ordinava a Carlo Spinelli, che era stato inviato in Calabria con pieni poteri per sedare la congiura di fra Tommaso Campanella, di arrestare un Ettore Saijvedra di Seminara, favoreggiatore delle rivolte dei preti e dei diaconi, che aveva forzato le carceri e liberato il Capitò[9].
Però improvvisamente la situazione cambiò e si ebbe l’improvviso cedimento da parte dell’autorità politica. Dal carteggio con Roma del Nunzio Jacopo Aldobrandini[10] si rileva che il Viceré, con grande soddisfazione del Pontefice, aveva promesso di rimandare il chierico Capitò libero in Seminara. Con lettera del 30 settembre 1599 diretta al Capitano di Seminara il Viceré gli dava comunicazione di aver deciso che il Capitò, già tradotto alle carceri della Vicaria, [345]

«fosse liberato et rimesso nella chiesa donde fu estratto, acciò possa godere della immunità ecclesiastica».

Veramente il Viceré non rinunziò mai al desiderio di veder punito il Capitò. Nella lettera citata al predetto Capitano egli, infatti, così continuava ingiungendogli di arrestarlo, nel caso che lo trovasse fuori dalla detta chiesa:

«et come che non per questo deve restare impunito del delitto per esso commesso vi dicemo et ordinamo che trovandolo fuori della detta Ecclesia lo dobbiate carcecare et inviare retto tramite in queste predette Carceri de la grave corte della Vicaria con aviso nostro, acciò che avuto et visto per noi se possa provvedere et ordinare lo dippiù».

L’ordine venne ribadito in una successiva lettera[11] al Capitano di Seminara, il quale aveva lamentato che il Vescovo di Mileto non avesse dato al Capitò altro castigo che quello di non uscire dal monastero:

«Il castigo che si haverà da dare al detto Capitò non si ha dare dal detto Vescovo ma da officiali regii e da noi, a chi tocca et compete dargli questo castigo… per questo ve dicemo et ordinamo che dobbiate attendere alla puntuale exsecutione di quanto da noi vi fu ordinato in l’havere in le mani detto Marco Antonio fuori di ecclesia et inviarlo subito retto tramite in la Gran Corte de la Vicaria».

Ma poiché mancano nell’Archivio di Stato altri cenni riguardanti Marco Antonio Capitò è da credere che questi si sia guardato dall’esporsi, uscendo dal monastero, al pericolo di essere di nuovo arrestato. Il Viceré, che era stato costretto a cedere, non mancava di fare, presso la Santa Sede, le sue rimostranze contro il Vescovo di Mileto, cercando di coinvolgerlo nella congiura del Campanella e accusandolo di proteggere facinorosi e fuorusciti, sicché il Pontefice dava ordine che il Del Tufo si presentasse a Napoli di fronte al Nunzio, per chiarire la sua condotta.

«Si è doluto il medesimo signor Viceré — scriveva in data 26 settembre il Cardinale di S. Giorgio Cinzio Aldobrandini al Nunzio di Napoli — che il medesimo Vescovo di Mileto dà impedimento alla giustizia, et protegge et ricetta huomini facinorosi et fuorusciti, il che giustifica S. E. negli avvenimenti freschi di Calabria. Et dice anche che egli mostra con parole e con fatti di tener poco conto degli ordini che se gli danno di quà (sic) allegandone alcuni esempi. Per il che comanda S. Beatitudine che V.S. lo chiami a Napoli innanzi a sé, et prenda informatione esatta sopra [345] quei capi che le saranno dati contra di lui et la mandi qui perché trovandosi veri penserà S. Beatitudine di rimediarci gravemente. Faceva pure istanza il Viceré che s’inviasse ordine a V.S. di assolvere il principe dello Sciglio, et certi altri[12] che il predetto Vescovo tiene scomunicati, adducendo che un Marcantonio Capitò, che diede causa ai rumori, dai quali nacque la scomunica fosse già restituito alla Chiesa».

L’autorità laica, dunque, aveva, purtroppo, dovuto cedere nell’affare del Capitò. Intanto erano giunte a Napoli quattro galere con gli arrestati della congiura del Campanella ed il Cardinale S. Giorgio, essendo stato informato che fra di loro c’erano otto chierici selvaggi della diocesi di Mileto, s’era affrettato ad insistere presso il Nunzio perché richiamasse presso di sé quel vescovo. Ma il Nunzio aveva risposto chiedendo che gli fosse ripetuto l’ordine[13] .
Il Cardinale S. Giorgio rispondeva ripetendo l’ordine di far andare il Vescovo predetto in Napoli con lettera del 17 dicembre 1599[14] e scriveva al nunzio in data 19 novembre dello stesso anno perché questi insistesse per la giurisdizione ecclesiastica sui chierici e sui frati prigionieri[15] Evidentemente alla Curia Romana si mettevano in relazione con l’atteggiamento del Vescovo di Mileto gli arresti degli ecclesiastici di quella diocesi. Ma in data 23 novembre e 26 novembre 1599 il Nunzio convocava a Napoli mons. Vescovo di Mileto, inviandogli la seguente lettera:

«Perché pur si stà (sic) in proposito che V.S. Rever./ma debba venire quà son forzato replicarle che lo faccia quanto prima. comanda così S.S. Meni anche con seco il suo teologo, che si vuol quà (sic)  ancor lui, et questa non sendo ad altro effetto per fine le bacio la mano. Dio la conservi»[16].

Probabilmente il Del Tufo non ricevette mai questa lettera, perché egli, impensierito senza dubbio di ciò che si diceva circa la sua partecipazione, almeno col suo assenso, alla congiura del Campanella, s’era messo in viaggio per via di mare per recarsi a Roma. I suoi nemici, particolarmente il principe di Scilla ed il Duca di Seminara[17], avevano approfittato della sua lentezza nel recarsi a Napoli per speculare e per incitare l’animo del Viceré contro di lui. Il nunzio aveva potuto in seguito, con le lettere che gli erano rimandate perché non recapitate, dimostrare che il Vescovo non aveva potuto ottemperare agli ordini di recarsi a Napoli, appunto perché non li aveva ricevuti[18]. Ma poiché sembrava che il Vescovo [347] non avesse voluto ubbidire agli ordini del Viceré, questi aveva voluto prendersi qualche soddisfazione. Erano avvenute le propalazioni di Maurizio de Rinaldis e s’era sparsa la voce che il Vescovo di Mileto era implicato nella congiura del Campanella. Era in realtà una diceria non corrispondente a verità, ma sembrò avere un certo fondamento quando il Del Tufo, mentre era in navigazione per Roma, era stato fermato, a Procida, per ordine del Viceré il quale, secondo la voce corrente, aveva chiesto, ed attendeva, il consenso del Papa per procedere contro di lui.
Il Vescovo era riuscito a farsi condurre in Napoli per presentarsi immediatamente al Viceré e s’era fermato in un convento, insistendo per continuare il suo viaggio verso Roma[19]. Queste notizie si rilevano da una lettera del residente veneto in Napoli al suo governo, con la data dell’11 gennaio 1600 del calendario comune. In essa è detto che il Vescovo

«aveva trovato modo di farsi accompagnare in Napoli dal Gov.re di quell’isola sotto la finta di voler rappresentarsi subito al V.Re».

Invece al Viceré s’era presentato sabato 6 gennaio in compagnia del Nunzio, come comunicava lo stesso Nunzio il giorno 11 gennaio, in cui partiva la lettera del residente veneto. La lettera con la quale il Nunzio dà notizia al Card. S. Giorgio del colloquio tra il Viceré e il Del Tufo è interessantissima.

«Il ragionamento — scrive il Nunzio — fu un’amorevole monizione con dire che i prelati si havevano a difendere con l’humiltà et carità e non con il punto et rigore di Cavalleria, per che sen ben era Cavaliere Napoletano doveva ricordarsi più d’essere Vescovo, et come tale procedere con ciascuno, et che non conveniva ch’egli moltiplicasse tanto quei Chierici selvaggi, che desse occasione di sospettare di lui, come aveva fatto adesso col difendere qualch’uno di quelli che si pretendevano complici nella ribellione seguita, com’era un chierico Cesare Pisano, in favore del quale si trovava fatto ex officio un Processo per giustificazione del suo clericato per esprimerlo dalla Corte Secolare quando si trattava d’un negotio così grave, et che era crimen Lesae Majestatis l’haver permesso a Chierici, o non almeno castigato come si conveniva, lo sforzare le carcere del foro secolare».

Viene qui la risposta del nunzio: certamente la carità e l’umiltà, dovevano essere le prime armi dei prelati, ma quando esse venivano disprezzate bisognava usare il rigore. Poi vennero le [348] giustificazioni del Vescovo: il processo contro il Chierico Pisani[20]  era cominciato prima che si sapesse della congiura e la violazione delle carceri era stata conosciuta dal Vescovo, tardi, dopo il fatto, ed era stata convenientemente punita. Quando ai chierici selvaggi egli ne aveva, fatte le proporzioni, meno di qualunque altro vescovo della Calabria.

«Scusò anche la molteplicità di Chierici selvaggi, o coniugati sol dire che n’haveva manco lui a proporzione, che alcun Vescovo di Calabria»[21].

Qui la conversazione prendeva tono amichevole. Con velata allusione contro lo Xarava e il principe di Scilla, l’Olivares raccomandava al vescovo di essere più cauto, promettendogli ogni appoggio, se fosse stato informato:

«Finalmente la medesima Ecc.za restò quieta, et gli disse che in avvenire avvertisse di non essere così sollecito nell’esecuzione delle scomuniche, perché se pure gli seguisse qualche disparere coi ministri laici, troverebbe modo di dargli soddisfazione, tuttora che ne fussi informata, et che in ciò non gli occorreva altro sì che poteva andare dove voleva».

A questo punto il Vescovo, il quale aveva avuto notizia che era stato dato ordine ai confini di non farlo uscire dal regno, chiese al Viceré un passaporto e l’Olivares gli rispose cortesemente promettendoglielo.

«Crederò che l’havrà avuto – scriveva il Nunzio al suo Governo – poiché non ho sentito altro et che verrà costà secondo mi ha detto, dove occorrendo si potrà sentire più particolarmente da lui il seguito, però non ne dico oltre»[22] .

Il Vescovo poteva così recarsi a Roma.

APPENDICE

[349] I1 Del Tufo tenne nel 1591 nella cattedrale di Mileto il secondo sinodo della sua Diocesi. Gli atti vennero pubblicati a Messina nello stesso anno.
Dal volumetto riportiamo, con lievi cambiamenti nella grafia, un brano che dimostra che la difesa delle posizioni circa il diritto d’asilo e quindi la posizione del Del Tufo nella controversia giurisdizionale, oggetto del nostro studio, dipende non da naturale animosità, ma dal senso del dovere che gli impone di conformare la sua opera alle disposizioni dei Romani Pontefici particolarmente alla Bolla di Gregorio XIV (Vedi Bull. IX, 424). Il sinodo venne tenuto quando pendeva ancora la controversia per l’affare Capitò.

Pag. 186 (Dal Cap. IV – Le scomuniche riservate ai vescovi).

Il Concilio Toletano scomunica coloro che violentemente estraheno dalla Chiesa quelli che ivi confugono, sopra che è da sapere che N. Sig. Papa Gregorio XIV per sua perpetua constitutione che comincia Cum alias, pubblicata in Roma alli 28 di Maggio 1591, modera, e riduce nella maniera che segue tutte le facoltà, Priuilegi e indulti concessi da qualsiuoglia Sommo Pontefice, e particolarmente da Pio Quinto e da la Santità sua o da qualsiuoglia Ministro della Sede Apostolica a Principi o Corte Secolari di poter estrahere o pigliare Laici delinquenti da dentro Chiese, Monasterij, e luochi Sacri e Religiosi, se quelli Laici che confugiranno nelle Chiese, et altri lochi predetti saranno pubblici ladroni, e assassini di strade o rubatori di capi, o hauranno commesso homicidi, e mutilationi di membri in esse Chiese o suoi cemeterij o a tradimento haranno ucciso alcuno, o saranno rei di assassinio, o heresia, o di lesa Maestà in persona del Principe.
Comanda Sua Santità a ciascuno Prelato e Superiore tanto Secolare quanto di qualsiuoglia ordine Regolare, che effendo richiesta dalla Corte Secolare di fare dare e consignare ad essa Corte i delinquenti predetti trouati nella sua Chiesa, o monastero lo faccia senza pericolo di irregolarità o di censure ecclesiastiche se a suo giudicio hauranno commesso alcuno degli delitti predetti, e vi sarà la licenza del Vescovo o suo offiziale con interuento di alcuna persona ecclesiastica da esso deputanda. Auvertendosi che non basta la licenza d’altro Prelato o ordinari inferiore a Vescovo etiam nelli luochi assenti, et nullius dioecis, ma in tal Caso l’authorità di concederla si devolue al Vescovo più vicino, qual licenza taluente si ricerca che senza essa in nessun modo può la Corte Secolare di propria autorità per pigliare e carcerare i delinquenti predetti, eccetto in caso di esso Vescouo e le persone ecclesiastiche predette richiesto come di sopra ricusassero e all’hora la cattura deue farsi con quanto manco scandalo e tumulto si può. E che dopo che essi delinquenti saranno estratti, e presi si riduchino alle carceri della Corte ecclesiastica con buona custodia, se sarà bisogno della Corte Secolare, né da quelle si possono estrahere [350] e consignare a Corte Secolare, ma per il Vescovo o Deputato da esso non sarà conosciuto ch’essi hauranno commesso alcuno delli delitti predetti.
In oltre comanda che tutta la cognitione del heresia spetti al Foro ecclesiastico ne in quello ò in qualsiuoglia modo s’intrometta sì come anco gli proibisce che non possa né debbia intrometterse in conoscere o in estrahere dalle Chiese o Monasterij etiam nelli casi predetti qualsiuoglia persona ecclesiastica Secolare o di qualsiuoglia ordine e militia, etiam S. Giovanni Gierofolimitano Regolari e contruueuendo estra li casi e delitti predetti o facendo alcuna cosa fuori ò contra il tenore di detta Constitutione incorre ipso facto nelle istesse censure e pene che da Sacri Canoni, Concili generali, e Constituzioni di Sommi Pontefici son state promulgate contra li violatori della libertà è immunità ecclesiastica.

(Sinodo – Diocesana – seconda celebrata dal M.ill.mo e Reuerend.mo Mons. M Antonio del Tufo, Vescouo di Mileto nella sua cattedrale nel Anno 1591. In Messina, presso Fausto Bofalini, 1591, pag. 186 e segg.).


Antonino BASILE, Conflitti giurisdizionali tra il vescovo di Mileto in Calabria ed il viceré di Napoli sulla fine del secolo XVI, in Atti del 3° Congresso storico calabrese, Napoli, Fausto Fiorentino Editore, 1964, pp. 341-352.


BELTRANO Ottavio: Breve Descrittione del Regno di Napoli
a. 1640 >
p. 105: Tabella: Signori Titolati, che sono in Regno, messi per ordine d’Alfabeto:
– Principe di Carriati, Spinello.
– Conte di Santa Cristina, è il primogenito del Principe di Cariati.
p. 263-265: Tabella dei fuochi della Calabria ultra: Vecchia e Nuova Numerazione: dati relativi a Seminara e ad alcune altre città:

Dove trovarete questo segno † sono le Camere riservate.
Vecchia

Nuova
1437
Seminara
1264



462
Bagnara
386
267
Bova
413
2296
Catanzaro
2406
191
Gioia
156
665
Melicucca, e Drosi
1175
900
Melito
917
1640
Monteleone
2147
804
 † Oppido
1023
508
Palma
617
1380
Reggio
1968
580
Rossarno
378
572
† Sciglio
522
444
† Sinopoli
573
542
† S. Christina
804
2000
Taverna
1407
2419
† Terranova
1407
3104
Tropea
3537

Nomi delle Città, e Terre di demanio, cioè Regie, che sono nella presente Provincia.
1430
Seminara
1132



1398
Cotrone
803
2299
Catanzaro
1884
685
Policastro
713
2380
Reggio
1546
3104
Tropea
3524
2064
Taverna
1398

Paga ciascun fuoco di questa provincia alla Regia Corte le medesime imposizioni, che paga la provincia di Calabria Citra, però solamente differisce nel pagamento del baricello, per lo qual pagamento paga grana due, e cavalli dieci.

p. 263: «In questa provincia sono 16 città, delle quali Reggio, e S. Severina sono Arcivescovadi, i Vescovadi sono Belcastro, Bova, Catanzaro, Cotrone, Gieraci, l’Isola, Monteleone, Melito, Nicastro, Nicotera, Oppido, Squillace, Taverna, e Tropea. Ha tra Terre, e Castella 136 che in tutto sono 155 oltre di quattro altre al presente distrutte, come Zurri, Sibari, Metapona, e Medamo… E sono il castello di Tropea con quel di Reggio con 47 Torri per guardia di questa provincia. In questa provincia risiede la Regia Audentia nella città di Catanzaro…».

Ottavio BELTRANO, Breve descrittione del Regno di Napoli, Napoli 1640.



F
f


FIORE Giovanni (†1683): Sulle origini di Seminara.
Vol. I (postumo a cura di Fr. Giovanni da Castelvetere cappuccino)
a. 1691 >

«MELICUCCA’…
…Ed ecco, con un sol frammezzo di Sole due miglia, in una vaga collinetta
C. XIII. SEMINARA.
I. Di cui per intenderne la prima origine, è d’uopo far ritorno al Fiume Metauro, raccordato nel principio di questo capo, ed alla Città Tauriana, qual gl’era al lato; ma più prima le scorreva di mezzo. Taurinum la scrisse Plinio (a), e secondo un’altra impressione, Tauroentum: corretto da Ermolao Barbaro (b), e da Nono Pinziano, e restituito alla vera lezzione di Taurianum. Tauriana la scrisse Stefano (c); onde nacque, ch’or Tauriano, or Tauriana, prese a scriversi; Pietro suo vescovo, qual fioriva circa il settecento settant’otto, così ne discorre (d).
II. Dice addunque, che la fondò un tale per nome Tauro; e quindi chiamata ne venne Tauriana. Etenim Taurus quidam extitit Urbis fundator, qui ipsius amore captus, eam pro suo nomine Taurianem indigitavit. La fabricò di quà, e di là dal fiume, ampissima di sito, e superba d’edificij; Haud certe ignobilem, imo vero quam illustrissimam, cuius reliquiae insigniaque ad nostra usque tempestatem manent. Hic inde in utraque ipsius fluminis parte extantia. Aeternemque splendorem, atque ipsius magnificentiam ostendentia [? testo restaurato e poco leggibile perché coperto da velina]. Discorre così però che di quel tempo, l’una parte era già vuota d’Abitatori, mercè alli gravi scosse patite da più popoli, com’egli apertamente vi soggionge; Tametsi […]

p. 149:

iam annis locus ille passus est eversione.
III. Anzi da quinci prese la nominanza di Metauro quel Fiume: cioè perche scorresse nel mezzo della Città detta Tauro, o Tauriane. Quoniam igitur medium Tauri Urbem flumen, interfluit, proinde iam tum Metaurus est dictus, idemque in praesenti retinet nomen. Ma qui sorge non lieve difficoltà, conciosiache, come più avanti dicevamo con Strabone. La Città qual fioriva a canto di questo Fiume era Metauria, oggidì Gioia, o alquanto differente di sito, non già Tauriana, & eiusdem nominis statio: Però è facile la risposta col dire, ch’amendue queste Città furono in questo tratto di Paese, così che Tauriana accoglieva nel mezzo il Fiume; Metauria gli stava lontana.
IV. Mà poi perche più tosto la lontana, che la vicina Città, si denominasse dal Fiume: La risposta è pur pronta, quando il Fiume avea preso il suo nome da Tauriana, giusta che or si è detto, col bagnarla di mezzo: dove che Metauria dal Fiume avea preso il suo. Onde viene in filo, che più antica stata fosse la fondazione di Tauriana, che di Metauria, e forse, da quel primo, o non molto appresso, in cui si Abitò la Calabria. Così adunque questa chiarissima Città essendo per più secoli, e prima, e dopo la venuta di Christo, fiorita in braccio alla felicità, Sedia Vescovale rinomatissima cominciò a pruovare per l’una parte (forse come più esposta, e meno difesa) gl’assalti nemici; tanto che finalmente a tempo del Vescovo Pietro, e molti anni avanti, era vuota d’Abitatori.
V. Disavventura, alla quale non olto doppo soggiacque l’altra metà; rimanendo affatto rovinata. Del tempo dell’ultimata sua rovina, vi è qualche divario tra Scrittori. Girolamo Marafioti (e), ne dissegna il mille settantacinque; mà con aperto errore, perche del mille settanta trè abbiamo la sua Sedia Vescovale, traportata in Mileto dal Conte Rogiero. Barrio (f), ne disegna il tempo  del B. Nilo, che Gualtieri (g), lo singolarizza al novecento. Mà certa cosa ella è, che l’anno novecento, e trè Taurianum era in piedi; impercio che transferendosi con solenne pompa il corpo di S. Elia Basiliano, rapporta lo Scrittore della sua Vita, che i suoi Monaci d’Aulina, gli vennero all’incontro fino a Tauriana; onde ne traggo la conghiettura, ch’ella avesse al’in tutto mancato, ne’ novecento cinquanta, in cui fù l’universalissima Inondazione de’ Barbari, con la rovina di molte Città, e Vescovadi. Questo quanto alla già fù Tauriana.
VI. Ora veniamo all’oggidì Seminara. Io non approvo l’opinione di Paolo Merola (b), e degl’Autori del nuovo Atlante (i), che Seminara fabricata si fosse nel sito medesimo di Tauriana, ubi Taurianum [?], apparendone, tra l’una e l’altro un frammezzo di alcune miglia. Approvo si, che deli estesi ancor lo scrisse Filippo Ferrario (k), che la gente sopravanzata insieme col loro Vescovo, l’abbia piantata ove oggi dì si vede quella Città, la quale con beneficio del sito commodo, e dell’aria salutevole tosto accresciuta di popolo, divenne l’una delle migliori di quel tratto, con la giurisdizione di cinque Villaggi, Strangi, Sant’Opalo, e Pesolo, già rovinati; Palmi di presente alienato; sì che non le sia rimasta, che Sant’Anna; di cui si fà raccordo nell’Itinerario d’Antonino Cesare, sotto nome di Decalstidio. Con tutto ciò ella è popolata sì, che può racchiudere nel suo seno mille cento trentadue Fuochi.
VII. Frà Leandro (l), la celebra come paese bello, e fertile. Barrio ne scende al particolare, Fit hic ferici, & olei probatissimi copia: olivae crassae, & carnose sunt, quales Melichochiae. Fiunt telae nobiles, nascitur Vinum non vulgare, & gipsum speculare; Fiunt aucupia phasianorum extornarum, & aliarum alitum.
VIII. Città che sovente ricevè l’onore della presenza de’ Principi grandi: cioè di Re Ferdinando II, e dell’Imperator Carlo V., come dimostra l’inscrizione su’l frontispizio della Chiesa dello Spirito Santo. Anno 1533. Carolus V. Romanorum Imperator semper Augustus, post quam debellavit Carthaginem, ingressus est Seminariam, tertio Novembr. die Mercurio, & n quarto mensis eiusdem recessit. Di questa Città alcuni affari spettanti a tumulti di guerra, vedili negl’anni di Christo mille duecento ottandadue, mille duecento ottant’otto, mille duecento novantasette, milleduecento novantaquattro, del Capitolo V. della Calabria guerriera.
IX. Quanto poi a gl’Uomini illustri d’amendue le Città Tauriana, e Seminara, sol differenti di sito, e che la Calabria illustrarono, furono Gregorio, Georgio, Lorenzo, Opportuno, Paolino, e Teodoro, tutti Vescovi. Li SS. Martiri Teodolo, e compagni, S. Georgio, e S. Giovanni.  Di Seminara propriamente Ferrante Spinelli, Giovanni, Barlaamo, Francesco Sopravia, Guglielmo Fantino Conventuale, Tomaso frate Domenicano, Iacopello de Frachis, Benedetto, Pietro, e Giovanni Frati Minori Cappuccini; Accresce i titoli con quel di Duca della Famiglia Spinelli, Principe di Cariati.

C. XIV. PALMI.
I. Era egli, come di sopra si è tocco, Villaggio di Seminara; ma nel corrente secolo sinembrato, e venduto a’ Marchesi d’Arena…».

Giovanni FIORE, Della Calabria  illustrata, Napoli, 1691, vol. I°, p. 148-49.

Vol. II, Napoli 1743, postumo a cura di fra Domenico Badolato:
p. 21:
«[…] San Mercurio, ed altri diecennove ne’d diece Decembre del 253…»
p. 22:
«SECONDA CLASSE DI MARTIRI.
[…]
L’anno 904, quando il medesimo Abraimo non sodisfatto della sanguinosa stragge recata dal figliuolo, vi passò in persona, insanguinando il barbaro ferro da Reggio a Cosenza.
L’anno 913…
L’anno 950. in circa a tempo del B. Nilo, quando tutta la Calabria, e la Puglia, e Lucania insieme si viddero naufragare nel proprio sangue: Rovinate le Cattedrali co’ loro Vescovi. Abbruggiati i sagri Monasterj dell’uno, e dell’altro sesso, e loro Religiosi, e Religiose menati a fil di spada.
L’anno 986.[…]
L’anno 1004. e 1014. […]
L’anno 1027. […]».
p. 43:
«II. DI S. FANTINO ABATE.
Tauriana, Città oggidì destrutta, se non sol quanto dalle sue rovine rinacque in sito poco distante la Città di Seminara, fu la Patria di questo Santo […].
…E quantunque avvisato dal B. Nilo (che non lungi dal suo Monastero di S. Mercurio in una grotta affligeva il suo corpo in penitenza)…
Già molto vecchio volò al Cielo dopo il 950. li 30. Agosto e però la sua festa si celebra il 24. Luglio…».

p. 44:
«V. DI SAN NILO ABATE.
Ebbe i suoi natali questo Santo in Rossano l’anno 905.…
p. 45:
[…] Non ebbe ferma la stanza; conciossiache vestito del sagro Abito del Monasterio di S. Nazario, indi passò a quel di S. Mercurio…
[…] volò al Cielo li 26. Settembre del 1000.».
p. 46:
«VIII. DI S. ELIA ABATE.
Per l’intendimento della vita di questo Santo Abate abbisognerà presupporre, che due furono li Santi di tal nome, nostro l’uno, Siciliano l’altro, li quali avendone avuti medesimi non pur li nomi, ma le operazioni, essendone vissuti nel tempo medesimo, con ciò anno dato occasione a qualche sbaglio. Fù questa avvertenza del P. Ottavio Cajetano (a)[23], onde così ne lascio scritto: […] nam alter Elias senior Ennia in Sicilia natus, Elias junior Rhegii in Calabria. […]. Nacque il nostro Elia in Reggio dalla Famiglia Bozzetta originaria di Reggio: suo padre ebbe nome Pietro, Leonzia sua madre…
p. 47:
Ma poi […] lasciato questo Monasterio, passò ne’ Monti sopra Seminara, dove fabricato un’altro Cenobio menava vita troppo austera. La moltitudine sì de’ miracoli, sì dele profezie  tosto lo rese famoso da per tutto: onde da per tutto correndogli dietro la gioventù, rese numeroso quel Monasterio d’Allievi santi, fra’ quali furono Luca, Vitale, Cosimo, Filareto tutti santissimi Monaci. Egli poi arrivato all’età d’anni 90. de’ quali 68. n’aveva logorato alla penitenza, riposò nel Signore gli undeci Settembre del 1050. Il suo corpo trasferito nel Monasterio di S. Elia sopra Galatro giace nascosto agli occhi umani; il capo però oggidì si conserva nel Monasterio vicino Seminara di Monaci Basiliani, detto S. Filareto…».
p. 66:
«I. DI SAN FANTINO. [da ricopiare per intero][24].
Nacque questo Santo nella Città di Tauriana, e furono suoi Genitori Fanzio, e Deodata, li quali essendo sterili…
Essendo in età d’anni 12. uscito fuori in campagna si vidde all’incontro una Cerva, con nelle corna molte Croci, dalle quale con voce umana articolata venne invitato, ch’il seguisse, soggiengendogli, che già era il tempo in cui, e fosse caccegiato, e caccegiasse. Camminando addunque dietro la Cerva lo spazio di due miglia, ed ebbe all’incontro nelle porte d’una spelonca un venerabile Vecchio, al quale la notte dianzi apparso Cristo, gli comandò, che venendogli la mattina Fantino, l’istruisse nella sua Fede… Indi la notte battezzandolo…[…] Forte si maravigliò il padre… […] amendue [= padre e madre] si risolsero al battesimo… Tratto dal carcere Fantino, e ritornato in Tauriana, non avendo di che vivere, essendoche l’avere paterno era caduto all’Imperial Fisco si pose a servire Belsaminio Governadore del Luogo, nella guardia de’ Bovi.

p. 67:

[…] ed arrivati al Fiume Metauro, che molto ingrossato scorreva…
[…] Un nobile per nome Andrea…
[…] L’anno 780. in circa Giovanni Vescovo di Tauriano, con altri Vescovi navigando in Costantinopoli all’Imperador Leone Porfirogenito…
[…] Intorno all’anno, che questo Santo volò al Cielo egli fu circa il 336…».

p. 433:

« Seminara. S. Mercurio, Monastero numeroso di 40. Suore della prima nobiltà, e di Seminara, e della Provincia, fabricato nel già fu Castello de’ Spinelli circa l’anno 1578.
L’Annunziata altresì Monastero di molta nobiltà. Lo vi fondò Nicolò Reggio, Gentiluomo della medesima Città, circa il 1637».

{da integrare ancora con altri numerosi estratti, che possono trovarsi nel vol. I e II non corredato da adeguato indice}.

Giovanni FIORE, Della Calabria illustrata, Napoli, 1743, vol. II°. Pagine sopra indicate.



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GALASSO: Estratti su Seminara: Economia e società nel Cinquecento
19923>:

p. 72: Seminara feudo degli Spinelli
«Feudo degli Spinelli, che nel 1495 le avevano acquistate da Ferrante II l’una per 4mila e l’altra per 3mila ducati, erano Seminara e Santa Cristina. Su Santa Cristina si accesero col tempo grossi debiti, ma la terra rimase agli Spinelli. Seminara fu invece venduta nel 1578 da Scipione Spinelli, conte di Cariati, ai Ruffo di Sinopoli per 100mila ducati. L’università, avuta notizia della vendita, preferì allora riscattarsi al demanio, pagando essa i 100mila ducati che sarebbero stati ricavati dalla vendita[25].
Pur non essendo riusciti ad acquistare Seminara, i vari rami dei Ruffo possedevano sulle ultime sponde tirreniche della Calabria una posizione oltremodo importante. Possedevano fin dal 1462 Bagnara, che aggiunsero al loro antico dominio di Sinopoli…».

p. 96 […] 97:
«Nella documentazione relativa al periodo in cui, dopo la seconda e più famosa congiura baronale contro Ferrante, in moltissime terre feudali si installò l’amministrazione regia, durandovi per alcuni anni fino al ritorno dei vecchi o di nuovi signori, le richieste avanzate al re da parte delle popolazioni interessate danno un ulteriore e chiara dimostrazione della fortissima accentuazione delle proprie attività economiche che è stata operata dalla classe feudale e che ora i funzionari regi proseguono tal quale. […] La università di Seminara lamenta, a sua volta, nel 1492 che < la corte de sua Majestà se ha pigliate ultra cento salmate de terreni per la defesa de le sue iomente, quali terreni per la maior parte sonno de particulare persone per le quale pateno grandissimo interesse per non havere da quelle reddito, et per havere perduto la industria de fare bestiame et non poterse comodamente fare massarie >[26] ».

p. 115 ss. e nota: sulla reintegrazione dei baroni ribelli nei loro possessi e sull’impossibile allenza del re con i comuni:
«…in questo comportamento della Corona è implicita una precisa valutazione di ordine politico per cui, da un lato, la feudalità viene ritenuta di gran lunga più forte dei comuni e, dall’altro lato, una lotta a fondo contro di essa, portata alle ultime conseguenze della spoliazione del baronaggio e della demanializzazione delle terre, non viene ritenuta suscettibile di successo. Sta di fatto che, quando il re vuol dare una assicurazione dell’ordine ristabilito nel Regno ai sovrani ai quali invia ambascerie, il punto sul quale egli insiste è quello del restaurato accordo coi baroni. Il che non impedisce che, in alcune delle terre confiscate ai ribelli, il re faccia vendere i beni stabili e le entrate spettanti ai rispettivi signori…

L’ordine era il seguente: «Quanto tocca alle cose stabili come so vigne, case, herbaggi, molini, maese, jardini, oliveti et altre cose simili, volimo che in tutte le terre et lochi notati et sottoscritti in lo presente capitolo debbeate de tutte le cose predicte fare essito, excepta delli molini et delli herbaggi, et le vendate etiam quo ad dominium et proprietatem per quello maiore precio ne trovarite, consultando di questo con lo nostro governadore in decte terre, et facendoce intervenire doi o tre uomini da bene che se ne intendano della valuta di decte robbe, acciocché nostra Corte non fosse ingannata; et con la interventione delli predecti governatori et huomini da bene ne farrite liberamente exito…, facendo in nome di nostra Corte tutte le cautele saranno necessarie a li compratori, in modo che possono accettare securamente. Et così farete exito et vendite delle baglie et omne altra intrata spectante a barone che nostra Corte havesse in decte terre, etiam quo ad dominium et proprietatem, procurando però che le dicte vendite se facciano con li incanti et debite subhastationi, secondo è solito et consueto quando la Corte vende, sì per la utilità di ipsa nostra Corte, come per la securità delli compratori. Li molini et herbaggi volimo li arrendate et affictate singulis annis, servatis servandis, per quello maggior prezzo ne trovarite». L’ordine è del 16 agosto 1487. In Calabria – dove furono a questo scopo inviati Francesco Scorno, Domenico Lettera e Polidoro Gagliardi – l’ordine riguardava le sefuenti terre: Laino, Orsomarso, Casalnuovo, Bisignano, Acri, Rose, San Marco, Malvito, Altomonte, Belvedere, Saracena, Morano, Cassano, Tarsia, Strongoli, Le Castella, Cirò, Squillace, Nicastro, Maida, Feroleto, Rocca d’Angitola, Pizzo, Mileto, Francica, contea di Arena, contea di Stilo, Seminara, Oppido e Gerace…Cfr. Regis Ferdinandi I Instructionum Liber, … per cura di L. Volpicella, Napoli 1916, pp. 135-136 e 138. L’esito dell’operazione non ci è noto, ma il demanio feudale non dovette tardare a ricostituirsi ben presto, nelle mani dei vecchi o di nuovi signori…».

p. 104, nt. 11: dissesto geologico: fiumara:
«…Per i dissesti del terreno non bisogna pensare soltanto alle maggiori calamità naturali, bensì anche e soprattutto ad eventi, per così dire, quotidiani. Su di essi ci offre una ricca documentazione proprio la serie delle informazioni per i relevii…


  • (1554, in ASN, Relevii, vol. 349, c. 246r.). (ivi, c. 222r.)».

  • p. 110: decremento di popolazione di Seminara in controtendenza con il fenomeno generale:
    «…Considerazioni analoghe si possono ripetere per la Calabria Ulteriore, dove emergono per il rapido incremento Gerace (da 1030 a 1327), Stilo (da 995 a 1593), Reggio (da 2380 a 3546) […] e – per la ragione opposte – Crotone (da 1398 a 803), Taverna (da 2000 a 1400), Terranova (da 2419 a 1735), Seminara (da 1430 a 1132)…».

    p. 125, nt. 26: sulla figura del massaro e sui cereali:
    «Ci sono feudi che rendono soltanto in cereali. Cfr., ad esempio, ASN, Significatorie e petizione di relevii, II serie, vol. 37, cc. 172 v.-173r.: Giacomo Antonio Selvaggio, relevio in morte dell’avo omonimo per il feudo di Cannava nelle pertinenze di Seminara, che rende tomoli 22 di grano (1603); …».

    p. 149: sulla coltivazione dei gelsi nel “giardino”:
    «…E certamente il fatto che il gelso entrasse assai spesso come elemento predominante nel quadro del “giardino” dovette contribuire al progresso della tecnica di coltivazione. Notevole è l’attestazione di intensa concimazione del terreno destinato ai gelsi. Il relevio per un feudo in agro di Palmi di Seminara nel 1592 menziona le spese per . Anche gli animali grossi concorrevano a questi lavori e, naturalmente, ne accrescevano il costo: , e un altro teste riferisce che [27]»

    p. 151: sulla produzione della seta:
    «Il vero e proprio boom della seta calabrese si ebbe, tuttavia, come s’è visto, nella parte meridionale della regione, e più propriamente nell’area compresa tra il bacino del Mesima e quello dell’Angitola. Monteleone divenne così la seconda capitale della seta calabrese, concentrandone ordinariamente un buon quarto e, rispetto alla sola Calabria Ulteriore, circa i due terzi della produzione. Lungo la costa tirrenica a sud della foce del Mesima e fino al Capo Spartivento la diffusione proseguì – con centro a Seminara e, soprattutto, a Reggio –, ma con intensità già minore…».


    p. 157-162: L’olivo e l’olio:
    [157] «È difficile dire con sicurezza quale coltura si possa far seguire per importanza, nel quadro della Calabria del ’500, ai cereali, al gelso e alla vite, ma che il quarto posto vada attribuito all’olivo rimane, nel dubbio, ciò che è di gran lunga più probabile. Due erano i centri principali dell’olivocultura regionale: l’uno, più vasto e diffuso, sul Tirreno tra Rosarno e Seminara, l’altro sul Jonio tra Corigliano e Cariati, con centro a Rossano; ma zone importanti di produzione si avevano un pò in tutta la regione, e in particolare a ridosso della piana di Santa Eufemia, nei territori della baronia di Bianco, della contea di Condoianni e del [158] marchesato di Castelvetere e, infine, lungo la valle del Crati. A difendere l’olivocultura concorrevano due elementi di considerevole importanza. Il primo era costituito dal fatto, piuttosto insolito per quel tempo, che le olive rimasero fino al 1615 “franche et esempte da qualsivogliano deritti perchè liberamente si extrahevano per infra et extra Regno”[28], laddove l’olio era soggetto ab antiquo ad imposizioni che, al pari di altre, furono, nella seconda metà del secolo XVI, notevolmente sconosciute. Il secondo era costituito dal fatto che il consumo delle olive da tavola era nel Regno assai forte, “maxime per esserno le olive lo companaggio di tanti et tanti poveri che sono in Napoli et per lo Regno”, e la loro preparazione assai più semplice ed economica di quella dell’olio, “atteso per converterle in oglio bisogna spettare che si maturi, che se raccogli et che si macini” e “al più per ogni tumulo e mezzo de olive se ne caverà uno staro di oglio, dal quale staro di oglio, et dopoi che sarà purificato, se ne perceperà da otto a nove carlini, in modo tale che considerata la spesa in raccogliere macinarle et purificarlo verrà a fruttare meno di seie carlini ciascheduno tumulo d’olive”, laddove “le olive che si consumano per mangiare si raccoglieno prima di maturarnosi et si curano con acqua et sale senza lo tanto travaglio et spesa come si fa di quelle per oglio”[29]. Nonostante, però, la diffusione della coltura va tenuto presente che ancora nel 1640 le esportazioni calabresi di olive “concie infornate et verde” sul principale mercato del Regno, ossia a Napoli, venivano giudicate non superiori alle cento tomola contro le circa 5.700 tomola che vi venivano immesse dai luoghi di Terra di Lavoro[30]:: il che ci fa pensare che, in misura ancora superiore a quanto accadeva per altre produzioni calabresi, le olive fossero destinate al mercato regionale.
    Non era così certamente per l’olio, che veniva ordinariamente preparato tra la fine di novembre e quella di dicembre in trappeti che erano assai spesso mossi da cavalli, ma non di rado anche dall’acqua corrente, e che, negli [159] anni in cui gli olivi non caricavano (almeno un anno su due), nonché in altri periodi e circostanze, venivano utilizzati per la macinazione della mortella della quale ci si serviva, come è noto, nella manifattura di tessuti[31]. L’olio veniva tratto non solo dalla polpa delle olive, ma, in una seconda macinazione, anche dai noccioli e dai residui di polpa che vi restavano attaccati e «la differentia che è dal oglio de noczole al oglio de polpa (sta in ciò che il primo) è solito valere lo terzo meno de quello de polpa»[32]; e costituiva una delle voci più importanti dell’esportazione calabrese, anche se la parte di altre province del Regno (specialmente quelle pugliesi) era nel complesso maggiore: basti, del resto, pensare che Lipari si riforniva di olio a Gallipoli.
    Il Moschettini e il Grimaldi, che nel secolo XVIII si [160] occuperanno con fervore illuministico dell’olivoltura meridionale, ebbero modo di rilevare alcune caratteristiche antiche e tradizionali di essa in Calabria. Il Moschettini rilevava, ad esempio, che “non ha l’alta Italia ulivi così grandi come quelli che crescono nelle Sicilie… Niuna delle province del Regno di Napoli ha gli ulivi della grandezza di quelli della Calabria meridionale e del Valdemone in Sicilia»[33]; e che “nella Calabria, come ne’ territori di Nicastro, di Palmi, di Geraci un olivo ben condizionato dà dieci e più tumoli di frutto”[34]. Il Grimaldi attestava che in Calabria nel territorio di Seminara da tempo immemorabile si soleva propagare l’ulivo con la tecnica dei “novoli” o “occhi”, laddove “negli altri paesi oleari della Calabria questo modo di fare i semenzai come usano i Seminaresi (era) ancora ignoto, propagandosi gli ulivi o co’ piantoni che si levano dal piè dell’ulivo, o col sotterrare il tronco del medesimo, o pure coll’annestare gli ulivi selvatichi o sia oleastri, modi tutti mal sicuri e lunghi relativamente a’ semenzai”[35]. [161] Ancora il Grimaldi osservava che “tutti gli oliveti, che trovansi al presente nella Calabria e nelle altre provincie del regno di Napoli, sono piantati a caso senza alcun ordine, perché le piante non rispondono l’una con l’altra, e sono così strette e confuse, che sembrano boschi foltissimi… e sotto niente si può seminare”[36]. Dal canto suo, il Moschettini notava pure come nel Mezzogiorno vi fossero moltissimi olivi, «che, piantati tra un masso sassoso, non è possibile in distanza di molti piedi dal ceppo trovar luogo, in cui la zappa o la vanga penetrasse. Intanto la loro vegetazione è nullameno degli altri prospera, e sono più degli altri fruttiferi»[37].
    p. 185: Seminara nel panorama agricolo della Calabria:
    «…Accanto a queste tre zone, che per molti versi primeggiano nel panorama agrario della Calabria cinquecentesca, altre zone di eguale, e talvolta superiore, complessità si possono riconoscere lungo la riviera tirrenica (ad esempio, Seminara, alla quale un agente mediceo attribuisce nel 1550 una produzione di 30mila libbre di seta e 20mila barili d’olio, nonché “assai grani et vini”; e Nicastro, che Scipione Ammirato definiva “luogo molto ben abitato et forse posto nel migliore et più ben coltivato paese di tutta la Calabria)[38]…»
    p. 187: panni di lana:
    «Manifatture di panni di lana di un certo rilievo vengono dal Barrio segnalate a Morano, Castrovillari, Bisignano, nei maggiori Casali di Cosenza, a Montalto, Tropea, Polistena, Seminara, Santa Caterina, Badolato, Catanzaro. Questa produzione di panni non era molto pregiata, in quanto, come del resto in tutto il regno, venivano lavorati solo “panni grossi d’inverno et altri per lutto e per infodare”[39], che andavano alle fieri e ai mercati locali. Nelle fiere più importanti del Regno, per quel poco che se ne ha documentazione, e a Napoli non se ne trova traccia rilevante […]. Il che non toglie che tele e velluti calabresi avessero una propria vitalità commerciale e fossero espressamente richiesti […], ma spiega come l’importazione di panni fosse in Calabria assai intensa…».
    p. 194: pece:
    «Nella regione si sfruttavano poi, ma, per la verità, non molto intensamente, alcune risorse minerarie o forestali locali: in particolare, l’ “argentera” di Longobucco, le miniere di ferro, specialmente di Stilo e del suo territorio, la pece, fabbricata soprattutto a Bova, a Seminara e a Santa Severina, e soprattutto il legname un po’ dovunque sui declivi boscosi della regione…
    p. 198:
    La preparazione della pece aveva luogo, a sua volta, in molti luoghi, ma specialmente in alcuni centri: Bova, Sila di Cosenza, Policastro, Santa Severina, Amendolara e Cariati|… Non sempre la produzione calabrese godeva di buona fama. Nel 1599 la Sommaria osservava, a proposito di quella venduta alla Corte dal Duca di Seminara e prodotta nel territorio di Cariati, che essa era di pessima qualità e che bisognava farla raffinare[40]. Anche la produzione di Cariati era limitata: poche centinaia di cantara[41]».
    p. 201: depauperamento del patrimonio boschivo:
    «…È anzi probabile che la lunga fase di sviluppo demografico attraversata dalla regione nel corso del secolo XVI abbia recato un contributo rilevantissimo al plurisecolare processo di rovina del suo patrimonio boschivo[42], segnandone una tappa decisiva».
    p. 206: città e campagne:
    «…Ma lo sviluppo complessivamente positivo dell’economia regionale durante il secolo XVI sollecitava pur sempre la concentrazione e il progresso delle funzioni urbane. Basti pensare alla facilità e rapidità con cui Reggio si riprese dalle numerose devastazioni barbaresche. Lo sviluppo della vita civile ebbe anzi un riconoscimento anche sul piano amministrativo con l’istituzione di una Udienza provinciale anche nella parte meridionale della regione, tradizionalmente dipendente dall’Udienza cosentina; e non è senza importanza il fatto che almeno tre centri – Reggio, Seminara e Catanzaro – si contendessero il privilegio della residenza della Udienza[43]».
    ------
    Pag. 230, nt. 5: Descrizione in un documento del 1573, relativo a Seminara, delle funzioni espletate dall’ «erario», cioè una sorta di esattore feudale del signore del luogo:

    «Lo predetto illustre Duca di Seminara fa esigere li soi entrate tanto baronali feudali, come burgensatici, dalo erario et quello ha carrico di affittare li terragi et esigerli, vendere li fondi deli celsi et esigere li dinari, fare cultivare le vigne et li giardini, ingabellare li olivi et esigere l’oglio, vendere la ligname de li boschi di castagna et così li molina, che sono tre, et dui trappiti, tanto in Seminara come in lo casale de Santa Anna dove li provedi di cofini, sporti, fusi, manigli, chianchi et trappitani et de tutte le altre cose necessarie, con grandissima fatica et travagli che bisogna di continuo vacare et assistere ali servitii de detto erariato» (ASN, Processi antichi. Pandetta nuovissima, n. 1.967/53.062).

    Pag. 244: questioni relative, in Seminara, nel 1573, alla riscossione feudale che tende ad essere affidata ad un esattore generale:

    «…Un altro aspetto della questione è messo, invece, il luce dai capi di accusa presentati, nel 1573, dall’università di Seminara contro il suo duca. Una gran parte dei censi fissi gravanti sulle terre sottoposte al vincolo feudale risalivano, infatti, ad epoca antichissima. Erano perciò di importo minimo e le relative voci acquistavano rilievo, nel quadro delle entrate feudali, per il loro numero, grande specialmente nei feudi più importanti e nelle zone di più antica colonizzazione. Senonché, la levità col tempo acquistata dal canone era un’altra ragione di difficoltà nell’esigerlo, poiché giustificava o incoraggiava i rifiuti e le dilazioni dei censuari, mentre altre difficoltà erano dovute ai complicati rapporti di successione e alle alienazioni che, dopo tanto tempo, erano venuti a mutare i possessori e a rendere spesso incerta la individuazione di coloro ai quali spettava l’obbligo di corrispondere in censo. L’università di Seminara ricordava perciò «come ci sono d’esigere in detto erariato da circa ducati novanta di censi, li quali sono assai fastidiosi di esigere perché ni sono molti di uno e di dui grana et mezo grano, et de piccioli seu denari, et la megliore parte sono di poco quantità che a pena passano dui carlini, et quando l’erarii non li esigevano lo predetto Illustre Duca ci l’ha fatto pagare de proprio ad essi erarii, li quali sempre si lamentano che [245] non li potevano esigere, et il Signor Duca ci li faceva pagare». Non sempre era, però, possibile mettere riparo così ad una dinamica umile, ma spontanea e tenace di defeudalizzazione, connessa con la già segnalata spinta dal basso alla trasformazione agraria, nella misura in cui essa era avvertibile e consistente, e col prevalere larghissimo della piccola conduzione quale criterio d’uso della parte del demanio feudale lasciata in colonia alle popolazioni. Nel caso di Seminara l’imposizione del duca agli erari di pagar essi i canoni non riscossi e la difficoltà di esigerli rendeva difficile il reclutamento dei funzionari per l’amministrazione feudale. Seminara citava il caso di tale Gio. Vincenzo Phone (?), che, nominato erario del duca, “volse pagare a chi da parte sua voleva fare detto officio docati ottanta, et havendo ricercato a molti con la detta offerta, nisciuno volsi acceptarlo, perché li pareva poco lo salario, et lo fastidio et lo travaglio del erariato era, come è, grandissimo et danoso”; e citava il caso di tale Gio. B. Spoliti, che, a sua volta, “essendo stato eletto erario dal Signor Duca, per non fare l’erariato offersi a notar Iacobo Paparone ducati cento che lo facesse da parte sua, et non lo volse fare, che ne voleva cento et diceotto”, sicché, insistendo lo Spoliti a rifiutare il carico affidatogli, il dca lo aveva fatto “carcerare in una fossa, dove è solito carcerarsi homini per la vita, et de illa non lo cacciò mai finché non si fece promettere di fare l’erariato, et detto Io. Battista per detta causa si partio di casa sua et andò vagando per lo territorio et al’ultimo si morse ala montagna fra pochi giorni, che li animali l’havevano incominciato a mangiare la faccia”. In altri casi eccessi simili, per l’uno o per l’altro motivo, non saranno stati consigliabili, e l’obsolescenza del vecchio sistema di contribuzione censuaria avrà fatto sentire senza attenuazione i suoi gravi inconvenienti di fastidi e di difficoltà. Lo stesso documento seminarese ci dà, inoltre, l’occasione di cogliere attraverso le prepotenze del duca, una difficoltà ancor più sostanziale. Secondo l’accusa, infatti, il duca avrebbe costretto “li erarii a spendere de dinari loro proprii nello principio dell’annata, et a mala pena li rihaveno al fine dell’anno, perché al principio non ci hanno entrate di esigere che bastassero ala coltura dele robbe de detto Signor Duca, et al’ultimo per [246] haverno la leberatoria sonno costretti a ritenersi per loro li residui deli debiti, et loro pagano di bursa propria”. E non ci vuol molto a capire che, quando non si volesse o potesse ricorrere alla prepotenza, la necessità di anticipare i capitali necessari alla coltivazione delle terre doveva essere un incentivo ulteriore, e tra i più forti, all’affitto generale delle entrate feudali»[44].

    GALASSO Giuseppe, Economia e società nella Calabria del Cinquecento, Napoli, L’Arte Tipografica, (s.d. ma 1967).

    *

    GALLUCCIO Teresa e LOVECCHIO Francesco: La Varia. Storia e tradizione, Palmi, 2000, © Golem, Rem Edizioni. Volume, di pp 123, catalogato in Palmi Casa della Cultura:

    p. 43/44:

    In passato la Varia veniva celebrata anche a Seminara, Rosarno, Polistena e Sant’Eufemia d’Aspromonte. (segue una foto p. 43 della Varia di Seminara - Stampa: Arch. Pro Loco). I festeggiamenti a Seminara avvenivano in onore della Madonna dei Poveri con la fonte storica più antica dovuta sempre a Giovanni Fiore che scrive:

    La Vergine Assunta in Cielo; Ecco una delle Maggiori Feste in tutto questo tratto di Paese; e ne vengono in filo le molte rimostranze di onore. In Seminara si cava fuori un arco trionfale, machina maestosa con in cima la Vergine volante al Cielo, con all’intorno una moltitudine di figluoletti musici in abito di Angioli, variamenti disposti per tutto l’arco trionfale, quale si porta processionalmente per le strade maestre della Città, concorrendovi numerosità di Popoli, per i quali si fa bellissima fiera. (Fiore Giovanni, Della Calabria Illustrata. Opera Varia Istorica, 1691, p. 458).





    GIUSTINIANI: voce “Seminara”:
    1805:
    «SEMINARA, città in Calabria ulteriore, in diocesi di Mileto, distante da Catanzaro miglia 80, dal mare 3, e da Napoli 250. Vedesi edificata in una collina, ove respirasi buon’aria. Gli scrittori calabresi la vogliono edificata dalla distruzione di Tauriana, che fu città antica, e poi vescovile nominata da Plinio[45] col nome di Tauricum, Tauraentum, e Taurianum, secondo le varie edizioni. Di questa antica città è da vedersi il Ch. Morisani[46], ma se fosse surta sulle di lei rovine Seminara, io non vo’ per poco asserire al mio leggitore siffatta opinione.
    Ella divenne ben presto un paese rispettabile di quella contrada, ed ebbe cinque villaggi appellati Strangì, Santopalo, e Pesolo, già rovinati a’ tempi del Fiore[47], ed esistenti Palmi, e Santanna. Il suddetto Fiore, ne porta la tassa di 1132 fuochi. Le tasse a me note sono le seguenti. Nel 1532 di fuochi 951, nel 1545 di 1524, nel 1561 di 1430, nel 1595 di 1132, che è quella del Fiore; nel 1648 dello stesso numero; e nel 1669 di 945.
    Fra Leandro Alberti[48] la decanta non poco per un paese bello, e fertile. Lo stesso conferma il Barrio[49] e specialmente per le produzioni dell’olio, del vino, e per l’abbondante caccia scrivendo: fiunt ancupia phasianorum, externarum, et aliarum alitum.
    Gli abitanti in oggi ascendono a circa 4300. Oltre dell’agricoltura di tutto ciò che serve al mantenimento dell’uomo, vi è l’industria di nutricare i bachi da seta, ed hanno bastante commercio con altre popolazioni del Regno. Molti suoi cittadini sono ancor distinti nella letteratura: Angelo Zavarroni[50] fa menzione di Antonio Spinelli, di Barlaamo, di Benedetto di Leone, di Domenico Ciancianeso, e di Francesco Sopravia. Il Fiore prima di lui fa menzione di taluni suoi suoi cittadini Vescovi natii però di Tauriana, e di altri frati poi di Seminara. Io aggiungo di essere stata padria di Franscescantonio Grimaldi, di cui parlai a lungo in altra mia opera[51].
    Nel 1783 questa città fu rovinata dal terremoto.
    Nel 1495 Ferdinando II la concedè a Carlo Spinelli[52], quale concessione fu confermata da Giovanna e Carlo[53]. Nel 1578 Scipione Spinelli la vendè al conte di Sinopoli per ducati 100000, ma i suoi cittadini proclamarono al Regio Demanio, offerendo di pagare la detta somma per soddisfare i debiti del Duca Scipione Spinelli, il che ottennero[54], e vi si nominarono i due casali Palma, seu Carlopoli, e Santanna. La detta università si vende poi molti corpi feudali[55]. Ma di nuovo passò in feudo alla famiglia Spinelli con titolo di ducato».

    Lorenzo GIUSTINIANI, Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli, Tomo IX, Napoli 1805, p.6-8. (Rist. an. Forni, Bologna, 1970).
    *

    GRIMALDI Domenico: Sulla formazione di una compagnia olearia.
    1785.
    [p. 39]
    «…Se la prossima scarsa raccolta dell’olio non avesse deluse le speranze degl’industrianti, io nella brieve dimora fatta in Seminara, ed in Palme [p. 40] avea indotto bastante numero di essi a formare una compagnia olearia divisa in azioni d’olio, per perfezionarne la qualità per l’uso cibario, ed insieme per assicurare le piazze estere che l’olio mercantile per l’uso delle fabriche che si sarebbe straregnato dalla medesima compagnia, sarebbe chiaro, lampante, e senza frode; mi sembrò questo l’unico mezo per accreditare il commercio esterno di sì fatto genere il quale per le frodi visibili che si commettono è giustamente cotanto screditato presso del forestiere. Si era formato il piano per umiliarlo alla M.V. affinchè si fosse degnata accordare alla nuova compagnia la sua Regal Protezione; e si era pensato dopochè si sarebbe ottenuta di mandare un manifesto in giro per tutte le piazze commercianti d’Europa, affinché fosse a loro notizia, che una compagnia d’industrianti d’olio della Calabria assicurava questo genere esente dall’invecchiate adulterazioni nell’estraregnarlo.
    Ma l’apparato dello scarso frutto, che inaspettatamente si scoprì qualche mese dopo che si era dato principio alle sottoscrizioni per la mentovata [41] compagnia, non meno che l’indigenza straordinaria degl’industrianti, gli scoragì in modo che lasciaron imperfetta l’impresa, malgrado, che ne aveano calcolato i decisi vantaggi. Resta bensì la speranza di veder stabilita la proposta compagnia la raccolta del 1786, in 1787 quante volte gl’industrianti troveranno danaro per far la necessaria coltura delli propri oliveti, ed insieme per rifar perfettamente le macchine olearie per spremerne il frutto: preparativi necessari per ottenere una ubertosa raccolta d’olio nell’anno seguente…».

    Domenico GRIMALDI, Relazione umiliata al Re d'un disimpegno fatto nella Ulteriore Calabria, con alcune osservazioni economiche relative a quella provincia, Napoli, 1785.

    *

    Istoria del Tremoto  della Reale Accademia: notizie sulla configurazione urbana precedente il terremoto del 1783.
    a. 1784 >
    [p. 326-327]
    «941. Non si può senza orrore contemplare la durezza, colla quale la natura annientò in pochi istanti le lunghe cure, e i ricercati lavori della mano degli uomini. Dalle case più umili alle più magnifiche, da’ luoghi i più profani a più sacri; e, per dirla in breve, per ovunque si gira lo sguardo, non incontransi in questo desolato soggiorno, che o ruine compiute, o fabbriche rovinevoli, ridotte in miserando rottame, e disperse dal tremoto del dì 5 di Febbraio. Nel Rame, segnato col num. LV si può vedere un picciolo saggio di quel terribile soqquadro, che quivi avvenne…
    [p. 330-331]
    «953. Seminara era stata col più industrioso accorgimento ornata di tutto ciò, che render potea comodo, ricco, e tranquillo il cittadino; perché non si era trascurato il pensiero di favorire le industrie, e di destarvi il traffico, e l’imagine di un commercio non del tutto passivo. La stessa agricoltura, tuttochè si risentisse ancora di quei vizj, che quasi universalmente o sono prediletti, o non conosciuti, pure dava segni di essere vicina a estollersi sulla sorte, e sull’abbandonamento comune».

    Istoria de’ fenomeni del tremoto avvenuto nelle Calabrie, e nel Valdemone nell’anno 1783, posta in luce dalla Reale Accademia delle Scienze, e delle Belle Lettere di Napoli. (1784). Ristampa a cura di Emilia Zinzi, Mario Giuditta Editore, Catanzaro-Roma, 1987.

    GUALTIERI Paolo, Glorioso Trionfo, over Legendario di SS. Martiri di Calabria, dove anco si tratta di alcuni Huomini Illustri, i quali esposero la vita in servigio di Dio, e di più dell’origine de’ Frati Capuccini, e loro progressi in Calabria, per D. Paolo Gualtieri, della Città di Terranova, Professore della Filosofia, e sagra Teologia, Per Matteo Nucci, in Napoli, 1630. (lettura esplorativa: fino a 380)
    a. 1630 >

    p. 38:
    e perciò havendo san Pietro convertito molte città della Magna Grecia, come Tauriano, Metauro, Medma, Vibone, Hipponio, & altre…

    p. 113:
    De’ Santi Martiri, THEODOLO, e Compagni, da Tauriano, la cui festa si celebra alli quindici del mese di Giugno. Capitolo XXI.

    [Fonti:] Ex Traditione, Veteri M.S. Menologÿs plurium Cathedralium, quorum verba adducentur. De eis Octavius Caietanus, in Idea Operis Sanctorum Siculorum, & alÿ.

    Tauriano Città maritima posta nell’ultimo della piana di San Martino, dove hoggi è il Castello di Gioia, fù Catedrale delle prime. Di essa, e suoi convicini furono nativi i Santi Martiri Theodosio, e Compagni, de’ quali non habbiamo lume di maggior certezza, fuor che la traditione, e certi caratteri scritti à penna in un libro mal conservato nella tribuna di S. Elia, nel Monastero di Melicuccà, dove ufficiano i Frati di San Basilio, scritto da dentro con caratteri Greci svaniti, (per il maltramento, e per l’antichità) nel cui margine vi sono le seguenti parole con carattere nostro, in rosso, Martyrium Sanctorum novem de Tauriana Theoduli, Candidi, Cantiani, Prothi, Chrysogoni, Artheonis, Quintiani, Niviti, & Cantiamillae, Celebratum, fuit in territorio, quod hodie est Despoti, uscirebbomo dall’historia, se volessimo dichiarar, come, quando, e dove, il Despoto di Romania, hebbe giuridittione nella Calabria, poscia che il predetto martirio sarà stato circa l’anni quattrocento del Signore, e’l Despoto circa l’anni 1300 da San Giorgio sin’à Mesiano hebbe giuridittione la città Tauriano, fù distrutta da Saracini circa l’anni novecento, per lo che si perdè affatto il pretioso tesoro delle vite, e martirio, non solo de’ predetti Santi, ma di molt’altri.(>114)

    p. 163:
    Come furono distrutti più Vescovadi in Calab. & uccisi i loro Prelati, in odio di Christo. Cap. XXXV. (>163)

    p. 174:
    Di Santo STEFANO da Rossano, chiamato Martire da altri Santi. Capitolo XXXVII.
    [Fonti:] Ex traditione, & Vita S. Nili, in cap. pracedenti allegata; De eo historici multi.
    Natan Profeta… (>174)
    p. 175:
    Circa gli anni 920 nella città di Rossano nacque da onorati parenti un bambino, à cui imposero il nome di Stefano, i quali per la povertà diedero il figlio all’esercitii bassi, e perché gli morì il padre carnale à tempo della sua fanciullezza, menò vita nelle campagne, lontano da ogni maestro sensibile, d’arti più colte. Ma non si discostò dal maestro invisibile, cioè dal suo Angiolo Custode, il qual gli insegnava la strada di Dio, à cui egli volentieri porgeva l’orecchie, lo che osservò fin all’età d’anni vent’uno. Fatta riflessione, e risolutosi poi di ciò che di sua vita far doveva, se n’andò da San Nilo il quale dimorava in una spelonca vicino la Real città di Seminara (la quale à tempo di San Nilo era Imperiale) sequestrato non solo da secolari, ma anco da suoi Monaci, & ivi à guisa di mutolo sen’stava, senza favellar (>175)

    p. 270v:
    Nel tempo di San Francesco da Paola erano in Italia i suoi Conventi divisi in due Provincie, cioè in quelle di Calabria, e dell’Isola di Sicilia, alla qual erano aggregati quei di Terra di Lavoro, e perché le nostre marine non erano custodite con torri di guardie sì spesse, come hoggi, ch’in ogni luogo sospetto, e cõmodo da potersi nascondere alcun vascello, vi è la torre, co’l suo guardiano, perciò i Turchi fecero {271r} molte prede, & occisioni, e particolarmente ne’ lidi di Palma, dove son diverse cale, e ridossi. S’alza anco ivi un monte, o scoglio, ultima coda degli Appennini, che vien celebrato per il più alto di quanti sono battuti dal mare, e perciò haveano la cima di quello come scorta, per lo che i Corsari infedeli venendo di notte si ricovrauno dentro quelle grotte, ò cale, e la mattina uscendo incontro aà naviganti di Calabria, che per la troppo vicinanza ogni dì tragittavano, faceanos schiavi molti di quelli, in una delle quali mattine inciamparono due Frati Minimi di Calabria…
    p. 278v:
    …Venendo voi con questi FF., mandati due per Seminara ad avvisar F. Bonaventura da Reggio, e 2. Altri, che vadino a Oppido…h
    p. 279r:
    Nomi di alcuni frati fuggiti per farsi Capuccini:
    F. Giovanni da Seminara, era de’ Conventuali.
    p. 279v:
    F. Benedetto da Seminara.
    F. Pietro da Seminara, lo antico.
    p. 282v:
    il Commissario (…) prese anco da ivi un certo Pietro da Seminara, novizio, giovane molto robusto, e l’armò con un bastone, e s’inviò verso ne capãne, ma quando il Commissario li era vicino, un guardiano di vacche cominciò a sgridar quella masnada, che à religiosi simil gente far suole, quando li ritrova in campagna, dicendo, salva Padre, & altre parole… | F. Pietro da Seminara, lo antico, e sua chiamata da Dio. | Arrivò il Commissario nel luogo abandonato da i Capuccini, & il primo che entrò fù il sudetto Pietro da Seminara, il qual con animo risoluto di rovinar tutti quei, che à prima fronte erano giudicati scommunicati alzò il bastone, e lo ritenne in aria sospeso. O miracolo, ò maraviglia dell’opere grandi di Dio, vedendo l’avventurato {283r} Pietro la miseria del mangiare, e dormire di quei poveri fuggiti, cominciò a dire. Questi sono i scommunicati che noi vogliamo carcerare? Questi sono gli apostati, i quali non vogliono osservar la regola de’ Mendicanti, con mangiar herbe silvatiche, e crude, à pena condite con poco di sale, & aceto, con dormir sopra l’ignuda terra? Per mia fè, che voglio esser anch’io del numero di questi scommunicati. Cercò con tutto ciò il Commissario per quelle selve, se potesse ritrovar alcun de’ i fuggiti; ma non poté in conto nissuno per qualunque usata diligenza ritrovarli, e così vota quella comitiva sen’ ritornò molto stracca, perché haveva caminato assai, essendo nell’andar ivi stato delusa da un incognito, al quale dimandarono per la strada delle dette capanne, & egli li dimostrò una via, che li conduce altrove. Fé sì molto buon guadagno, poscia che ritornò con un de’ suoi compagni meno, e questo fù il detto Pietro, il qual mentre ricercavano i Capuccini, si cacciò tanto oltre, cercando via, che à quelli li conducesse, che più volte lo sgridarono, dicendo, Aspetta novizion à passo F. Pietro, & egli più li sgridò, dicendoli, che tanto à passo, che tanto aspetta, andate à passo voi, ch’io mi voglio far Capuccino…

    p. 325r:
    (Carlo V conquista Tunisi) …Finalmente fù presa Tunisi, nella qual scaramuccia si dimostrarono valorosi molti regnicoli, un de’ quali fù il Capitan giovanni Calabrese, da Seminara, ancor che havesse ricevuto una palla di archibugio nella coscia…

    p. 360v:
    [miracolo del Crocefisso (diTerranova) testimoniato dal notaio Oliva di Seminara]:
    …Benché più stupendo fusse il miracolo del sangue nell’1533… In quell’anno dunque à tempo à tempo che l’immagine di M.V. sotto il titolo del Soccorso nella Real terra di Palma operava operava molti miracoli, la predetta Confraternità di Terranova condusse ivi il suo Crocefisso, ancor, che per 12 miglia di strada balza, e scoscesa, ma quando l’imagine del figlio fù in presenza di quella della Madre sudò sangue ad occhi veggenti di tutto il popolo. L’accorti Governatori di detta Confraternità subito fecero stipular un atto pubblico per mano di Notaro, e testimoni, il cui tenore è. Publicus actus testimonialis miraculorum Crucifixi sanctissimi, sanctissimae Annunciationis civitatis Terrae novae, stipulatus, & scriptus in rure Palmi sub die 20. Iulÿ, per Notarium Antonium Oliva de Seminara. Sub Anno Domini 1533. Die verò 20. mensis Iulÿ vj. Indictionis in Casale Palmi, sub Pontificatu sanctissimi Domini nostri Papae Clementis, anno eius octavo feliciter, Amen. Notum facimus, & testamur, quod hodie eodem praedicto die in nostri, & subscriptorum testium praesentia personaliter…… bo:

    p. 376 [Seminaresi nella battaglia di Lepanto]
    …Vi si sparse fama, che il Papa era per concedere il Giubileo à chiunque prendesse l’arme per difesione della Fede, come già poi fè bandire à sei d’Ottobre del 1571, quando i soldati collegati erano uniti sopra mare. Havevano concorso molto volentieri i Christiani per tal suono, e particolarmente dall’Italia, e Spagna, ma molto più gli uomini del Regno, trà i quali i Calabresi, come che i luoghi del detto imbarco, cioè Crotone, Taranto, e Messina erano più a loro commodi vi concorsero in gran numero, imperoche de’ soldati della nuova militia vi andarono più migliaia, sotto l’insegna del Re [377] Cattolico loro Duca lasciate da parte le compagnie straordinarie, la galera del Corsale da Castel Vetro, due di Vincenzo Passacalò da Seminara detto il Monaco, e molt’altre di Avventurieri, perché de’ Signori particolari Tropeani, ve ne furono trè, & è proprietà di quei sempre sempre rinforzarsi contro infedeli, poscia che nella guerra de Gerghi si ritrovarono sette compagnie de soldati Tropeani, come il Marafiote scrive, e molt’altre fregate, e vascelli di minor memoria, un de quali fù de Marini nostri compatrioti, che ne fecero capo Milio da Melicuccà loro antesignano. Vi andarono anco sotto l’insegna del Lione l’invitti figli della Lionessa, raccolti in sì breve tempo, ch’ammirato Tomaso Costo Napolitano storico di quei tempi de gli assoldati da un solo, scrisse così. “Il Toraldo haveva assoldato in breve spatio di quindici giorni due mila bellicosi fanti Calabresi, & c. Con la speditione dell’anno seguente vi mando altri co’l galeone detto Fenice.

    p. 380v:
    (Introduzione in Calabria dell’arte della seta al tempo di Federico II di ritorno dalle crociate):
    Molte furono le spedizioni, nelle quali i Religiosi, e soldati di Calabria ò soli, ò con altri s’opposero à nemici di Christo, tralasciate per non hauerle ne’ libri stampati, e per brevità, una de’ quali fù l’anno 1227, quando andarono con l’Imperador Federico per la recuperatione di Terra santa, della quale à pieno ragionano l’historici, ancor che il detto Imperadore ò per essersi infermato, ò per sua iniqua volontà se ne fusse ritornato, tutta via basta à soldati in casi simili per guadagnarsi la gloria, morir per strada, ò il partirsi, poiché così si concedono i Giubilei per ricuperar i luoghi santi. Vi andarono anco poi con l’istesso Federico, e ricuperarono Gierusalemme, oltre che havevano andato prima co’l lor Conte Ruggiero, che poi fù Rè di Napoli, e perché non ferono casa veruna, quel Dio che così preordinò, non gli venne meno della rimuneratione di premio eterno de’ sudori, patimenti, fatiche, e morti da loro volontariamente sofferte, ma etiamdio ne diede temporale, [381] mentre volle che ritornando da una delle dette speditioni conducessero i Maestri che sapeano lavorar la seta, & insegnassero tal mestiero nella Calabria, e nella Sicilia Isola. Prerogativa di molta importanza, concessa non ad altre nationi nell’Italia, fuor che ad esse due, & à quei che in ciò da loro hebbero dipendenza, poscia che all’hora il gran rimuneratore Dio diede non solo il modo co’l qual potessero nell’Italia, dove risiede il capo della Religione Christiana, e più fiori fee il suo culto adornar i sacri Altari, e Tempij, ma anco potessero con tal’industria commodamente vivere essi, & i posteri. E per haver notizia di ciò, saper si deve, che certi Monaci della Siria portarono à Giustiniano Imperadore di Costantinopoli il seme de’ vermi, i quali producono la seta, per ciò chiamati Sirici (ò sia stato detto così dalla provincia Sericana) la cui origine, perché è incognita non s’approva, lo che dicono haver derivato da i vermi generati nelle ulceri del patiente Giobbe, e mentre la Calabria era governata dal detto Imperadore, e dal Patriarca di Costantinopoli in quanto alla giuridittione spirituale, vi si facevano viaggi quasi continui da l’un luogo all’altro, si che e perciò, e per mezzo de’ Monaci, ed’ altre persone Ecclesiastiche, e de’ Catapani che venivano à governar detta Provincia, fù in essa condotto tal seme. Fa di mestiero anco per poter sodisfar à curiosi dire, che l’albero delle cue frondi si pasce detto animale, si fusse ritrovato prima del detto seme nella Magna Grecia, perché producendo egli frutti [382] dilettevoli al gusto, salutiferi à corpi humani, & utili al far de’ colori, facendosi da essi immaturi il rosso, e da’ i maturi il paonazzo, essendo anco arbore di facile traslatione, perché vive assai l’inverno fuori della terra, come già lo vediamo in luoghi dove non vi è l’esercizio della seta; è necessario dir così, perché i detti vermi non si possono nutrire se non vi sono delle frondi di quello in quantità, egli vien dimandato Moro da i fruti lividi, e dalli Italiani Celso. Ritrovasi di due sorti bianco, e nero, si dice bianco quello ch’hà le corteccie bianche, e produce i frutti dell’istesso colore, e perché è più dilicato si veste prima, e delle sue fronde si pascono i Sirici per necessità di negre. Il nero come più grosso di complessione produce le frondi declinanti al verde oscuro, & i frutti più al nero, ne l’uno, ne l’altro ricerca necessariamente cultura. Si moltiplica per novelli, per tronchi, rami, e seme. Pascono dunque con le frondi del detto moro la Calabria, e la Sicilia il sudetro Sirico sì facilmente, che niun paese viveria più felice di loro, se ’l Mondo non fusse pervertito, imperò che essendo l’huomo nato alla fatica datali in pena del peccato d’Adamo, è bisogno faticare per sostentarsi, ma con differenza, poscia, che altri faticano assai, altri poco, & altri quasi niente, e questi sono i mali negotianti, nel cui numero, non è bene ritrovarsi. La cultura della terra, e pastura de’ greggi, sono fatiche con le quali si vive senz’occasione d’offendere, né Dio, ne ’l prossimo. E necessaria la detta cultura, ma assai penosa, rendendo lo desiato frutto, dopò lo stento di dieci, ò 12, tal’hora 24 mesi, la pastura de’ greggi apporta pure gran travaglio, ma pascere il Sirico, è men faticoso d’ambedue, anzi dilettevole, e di spasso, poscia che vive da 45 giorni, indi si conserva in seme a guisa granelli di sinape involto in un fazzoletto, ò dentr’un vaso, per non esser oltraggiato da animali minuti, ne il freddo (fuor che ’l petrificante) li cagiona danno.   (>383)

    p. 411-12: Frate Antonino Tripodi da Reggio, guaritore itinerante:
    …Spesso chiamavano il Frate per esser visitati gli afflitti, i quali non potevano andar da lui, & egli molto volentieri vi andava, essendogli protettore sì appo gli huomini, come appò la Maestà Divina, lo che fé essendo chiamato ad istanza d’una gentil donna [411] da Reggio inferma, vi andò, e co’l segno della croce la guarì. Il simile sé chiamato a visitar un giovanetto da medici disperato, consegnandolo sano al padre (>411)

    p. 423:

    Di Frà PIETRO da Seminara Capuccino, il quale elesse ingiurie, persecutioni, e carceri per Christo. Capitolo LXXVI.

    [Fonti:] Ex hist. FF. Hieronymi à Dinami, Matthei à Sancto Martino, & Bonaventura à Reghio.

    Niun mai harebbe potuto rendersi persuaso, che Saulo (>423)

    Le allegate historie dicono, che Frà Pietro da Seminara prese l’habito da San Francesco, e fù discepolo di Frà Lodovico, ben che da principio non seguisse il suo Maestro, nulla dimeno si compiacque il Signore chiamarlo per altra strada, perciò che essendo egli nel luogo di Cinque Frondi, quando il Commissario andò a Sant’Elia [424] vicino la terra di Galatro, per carcerar quei Padri ragunati, & ammutinati insieme contro il Diavolo, mutati già nella serafica riforma de’ Capuccini, seco menò anco costui, dandogli un bastone smisurato alle mani, come ad uomo robusto, e forte, ancor che ei non fusse [?], il quale essendo entrato insieme insieme con gli altri in quella capanna, dove quei poveri romiti stavano mangiando all’hora del digiuno, come s’è detto, e vedendo quell’estrema povertà, santa penuria, e ricca estremità, compunto tra sé stesso, cominciò a dire: questi sono gli apestati che siamo venuti à carcerare? Questi sono i scomunicati? Questi sono quei che cercano vivere largamente, e fuor d’ubidienza? Con mangiar pezzoli di pane, herbe crude, bever acqua, e dormire in terra, mi par vedere tutto il contrario, e che questi siano i veri Frati minori, & osservanti della regola del Padre santo Francesco, e vivano secondo l’intention di quello, con tanto dispreggio, e povertà. Questi sono i veri servi di Dio, & io per adesso, e per sempre mi forzerò imitargli, anzi rimaner con essi. Cominciarono i compagni del Commissario à caminare per cercar i Capuccini che fuggiti se n’erano, ma andav il detto Frà Pietro prima de gli altri, acciò ritrovasse strada, ch’altrove lo conducesse, e passò tant’oltre che l’altri lo sgridarono, dicendoli, camina à passo novitio, aspetta Frà Pietro, & egli rispose, che tant’à passo, che tant’à passo, andate à passo voi, perché io mi voglio far Capuccino; Rimanete in pace. E così da saulo divenne Paulo, come spesso raccontava, e da persecutore di Capuccini, divenne Predicatore dell’opere di quelli. Si giuntò con essi loro, li ragionò del suo stato, l’accettarono, e si fé partecipe de’ patimenti, di quei, fuggendo dalle capanne di Filogasi, dormendo alle volte co’ i serpenti, e come vero discepolo di quei primi Padri, in breve tempo imparò nella Scuola del Signore non mediocre spirito di silentio, divotione, ritiramento, penitenza, mortificatione, dispreggio delle cose mondane, desiderio delle celesti, con animo, e proposito fermo d’imitar la vita, e vestigij del Padre San Francesco, sì che travagliando nella vigna del Signore con santa emulatione divenne gran servo di Dio, forma, e ritratto di tutte le virtù, anzi era sì infiammato del divin’amore, che pareva tutto estatico, e fuor di sé. Gli fù concesso il duono delle lagrime, onde per il continuo piangere che facea, haveva licenza di far le sue orazioni in cella, e nelle selve tanto di notte, quanto di giorno, stimolato dall’ubbidienza portò molti pesi della religione, cioè di Guardiano Diffinitore, Maestro di Novitij, e più fiate Custode. Mostrava gran carità con l’infermi, e rigidezza con la propria persona, era dolce, & affabile ne’ colloquij, ragionando spesso de’ patimenti, fughe, fami, infamie, vite, e miracoli di quei primi padri riformatori della sua religione, col le sue focose parole infiammava gli ascoltanti alla seguela della virtù. Hebbe gratia particolare di sanar molte infermità gravi, co’l segno della croce. L’anno 1576, verso l’ultimo di sua vita scrisse da Seminara à Frà Bernardino da Polistina [426] in questa forma. Padre…

    p. 429:
    Nell’anno 1594

    p. 447: frate Ludovico da Seminara al capezzale di Frate Antonino da Francica:
    Giunse l’hora d’esser chiamato dal Signore nel mese d’Agosto del 1603 quando nel Monastero di Polistina


    p. 449:
    …Ceramide sono certi canali di creta cotta…


    p. 451r:
    La Terra detta Gioia è nella Calabria…

    p. 456v:

    Di Frat’ANGELO da Seminara, il quale patì molto per la custodia del santo Sepolcro. Cap. LXXXIII.

     [Fonti:] Ex traditione, Relationibus, Historia Seraph. Gonsag. ubi suppresso nomine loquitur, et espistolis propria manu ipsius F. Angeli scriptis, inferius adducendis.

     Benché havesse prohibito il Signore la vanagloria, e iattanza, ammonendoci, che se tal’hora noi facessimo qualch’opera spirituale, tener nondimeno dovessimo modo onde altri accorger non si potessero, ne alcun segno in noi tal attione si vedesse, tuttavia S. Paolo una fiata raccontò ciò che egli patito havea (>456)

    Non intendiamo annoverar questo Frate trà i Santi, ò Beati, ma solamente raccontar qualche frammento delle sue eroiche attioni, de’ quali da sì lontani paesi si è potuto’haber [457] alcuna contezza, imperò che egli patì molti travagli in servigio del glorioso Sepolcro del S. salvatore, come rendono testimonianza le sue lettere scritte di proprio pugno, le quali si portano appresso, e ciò facciamo volentieri, perché ragionano di quei santi luoghi, ove fù operata l’universal redentione del mondo, & hebbe principio la nostra religione, & anco acciò vedano i Christiani quanto sia bramata la ricuperatione di Terra Santa da quei pochi, & afflitti servi di Giesù, i quali per il Divin culto ivi dimorano (à vergogna, e confusion nostra) poscia che in ogni lettera vi si fa particolar mentione. Travagliatissimo fù il caritativo Frate dal principio de’ suoi giorni, fin che lasciò la spoglia mortale, come manifesta il nome di Paolo impostogli nel sagro Battesimo, che vuol dir pargoletto, e piccino ne’ beni della temporal fortuna, essendo in tutto il tempo di sua vita bersaglio, e meta de colpi di quella. Nacque dunque Paolo nella città di Seminara circa l’anno 1560 da Bernardino Gieraci e Girolima Cianciaruso coniugi. Morì Bernardino prima che Paolo venisse all’età adulta, rimanendo il giovanetto in poter della madre, la qual molto ben attese al governo, & ammaestramento de’ suoi figli, per lo che più volte disse volersi vestir Frate, ma no havendo fine sì santo proposito, ritrovò il Re del Cielo altro mezzo per ridurlo à stato migliore, permettedno nch’egli improntasse certa armatura ad un suo amico, la onde havendo colui commesso con quella un micidio, fù preso carcerato, e posto ne’ tormenti, [458] tormenti, disse da chi havea ricevuto l’arme, e perciò venne Paolo ad esser chiamato dalla Corte, & indi fuorgiudicato. Stimò l’accorta girolima più spediente al giovanetto fuggirsene, che darsi in preda all’indiscreti ministri della giustizia, ma non lo fé fuggir nell’Isola di Sicilia luogo più vicino alla sua patria, perché harebbe potuto esser ivi fatto prigione, ancor che sia sotto titolo d’altro Regno, (e perciò luogo sicuro a’ delinquenti di Calabria), la onde posto ne’ tormenti haria grandemente patito, e forse confessato quel tanto che commesso non havea, essendo egli d’età immatura, perciò lo provedé di danari, e mandò nel territorio del Papa. Si conferì il giovanetto a Roma, ove dimorò mentre li bastarono i danari, quando poi vennero meno cominciò ritirarsi alla patria, e così disponendo Iddio fé il viaggio, passando per la Provincia di Principato, ove nella Terra di Evoli trattò con l’Osservanti di vestirsi Frate, havendolo visto quei molto ingegnoso, e d’aspetto che dava grand’inditio, lo riceverono, ove cambiandosi il nome di Paolo prese quello di Angiolo, si che fù poi egli detto Angelo Gieraci, Hieros termine Greco significa santo nella nostra favella, quasi dir volessimo essersi convertito in Angiolo santo, abbandonò con la madre, fratelli, sorella, e quanto havea, verso i quali fé tanto co’l suo buon esempio, che sì il fratello, come la sorella, e nipote abaracciarono la religione. Menò sempre il giovane vita esemplare sotto la disciplina di Frà Pietro del Cilento, il qual era stato compagno di Sisto V, la onde [459r] divenne molto caritativo, e desideroso di veder i santi luoghi calpicciati dal benedetto Giesù, e sua santissima Madre Maria Vergine, con haver fatto grandissimo profitto nelle sagre Lettere, per lo che esercitò diversi ufficij nella religione. Riscaldato da quel santo desiderio che li bruciava il cuore di visitar il santo Sepolcro, prese licenza da superiori, e senza aspettar la comitiva ordinaria circa l’anno 1590 si partì da Italia per Gerusalemme, ove arrivò dopo pericolosa navigatione, e faticoso camino. Fè ivi sua stanza diec’anni, e si dimostrò si santo, che i suoi superiori havendolo giudicato molto religioso, zelante, & atto al governo di quei luoghi, ne’ quali è necessaria scienza per distruttione dell’heresie, e de gli infedeli, carità per riparo de luoghi pij, santità per edificatione de’ fedeli, e pazienza per resistere a’ nemici del Christiano nome, lo crearono Guardiano di Bethleem, e Secretario della sua religione in quelle parti. Hà cura il Guardiano di Bethleem di quella Chiesa dove nacque il benedetto Christo, scesero dal cielo gli Angioli, e cantarono l’hinno Gloria in excelsis Deo, e vennero i Pastori per adorarlo, dove vi è la cisterna, nella quale si solea veder la stella, che guidò i trè santi Magi, ma solamente da persone vergini, evvi anco il luogo dove S. Girolamo traslatò la Biblia sacra, e fù poi sepolto, nella qual Chiesa si veggono segni sì misteriosi, che i Saracini vi vengono à vederli. Vi sono anco le sepolture de’ santi Innocenti, e poco discosto il luogo dove Maria Vergine co’l suo santo Bambino, e Gioseffo [460] stettero nascosti dieci giorni per timore d’Herode, e poi ne fuggirono in Egitto, nel qual luogo (come piamente si crede) cascò qualche goccia del latte di Maria Vergine, e perciò quella terra vien detta, latte della Madonna, e Terra di Maria Vergine, la qual hà virtù di far ritornare il latte alle donne che ne sono scarse, con prenderne un poco dentro l’acqua, e dir un Pater noster, & un’Ave Maria. (>460)

    p. 508:
    I nomi de’ Capuccini sono… [509] Giovanni da Seminara

    p. 519:

    Di BARLAMO da Seminara, il qual patì molto per la santa Fede. Cap. LXXXVIII.

    [Fonti:] Ex traditione, Relationibus, & Nichephoro Gregora Histor. Roman. Lib. xj. Cap. de Monaco Italo, ubi sic. Caeterum sub V esperas spectaculo illo absoluto Barlaamus ignominiam gravissimè foerens, plenis velis in Italiam abijt, & Latinorum instituta, & decreta in quibus erat aeducatus redijt, &c.

    Comandò à’ suoi il buon Giesù, che ovunque entrassero, prima da loro fusse annuntiata la pace, e dopo si predicasse il santo Vangelo, e se non li fusse (>519).


    (520) Nacque Barlamo nella città di Seminara, prima del mille, e trecento, dove egli fù da fanciullezza allevato sotto buona disciplina, e da maestri molto versati nelle scienze, dai quali imparò non solamente la perfettione delle lingue Greca, e Latina, ma di tutte le scienze umane, e Divine, s’esercitò particolarmente nella sagra Scrittura, e de’ santi Padri, alla cui lettione spendeva tutto il tempo che potea rubbar dall’altri studij, e dalle necessità corporali. S’avvide molto presto Barlamo delle vanità del mondo, e come delle sue transitorie, e fallaci delitie non lascia altro che pentimento à chi lo segue, e vergogna. (>520)
    p. 532:
    …& in vero è cosa da stupire a considerarsi, che nell’istesso tempo s’havessero ritrovate tra brevissime distanze più drappelli di Santi paesani, come in Reggio… In Seminara i SS. Filareto da Sinopoli, Fantino da Tauriano, co’l suo fratello Luca, & molti altri. Nella città di Stilo…

    p. 533:

    Lasciammo il discorso dell’attioni eroiche di F. Giovanni Teramone da Seminara, perché stiamo in dubio se egli annoverarsi si dovesse in questo libro dove si tratta di SS. Martiri, e d’altri cuori, i quali s’esposero à pericoli gravissimi, eleggendo ingiurie, scorni, vilipendi, fughe, persegutioni, e carceri per Christo (ciò vuol dir essere stato nel numero de’ FF. Colletti, ò de’ vestiti Cappuccini in Filocasi) e ben che F. Giovanni s’havesse eletto più travagli dell’hannoverati, fuggendo da (>533)


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    LIBERTI: Seminara. Note storiche tratte dal locale archivio parrocchiale.
    a. 1970 >


    LIBERTI Rocco: Sul Monte di Pietà di Seminara
    a. 1993 >

    p. 20:
    «…A pensare ad un primo vero monte di pietà da attivare nelle terre della Piana di Gioia, trascurando i tantissimi monti e monticelli allogati nelle cappelle delle chiese, fu un interessante personaggio, il nobile Marcantonio Leone, divenuto frate cappuccino col nome di fra Benedetto, il quale divisò di applicare le sostanze di famiglia di sua competenza ad un’istituzione da far sorgere nella natia Seminara, allora importante capoluogo dei feudi degli Spinelli di Cariati nel territorio.
    Fra Benedetto fu una figura assai singolare, un vero eroe della Fede.
    Nato nel 1564 da Sebastiano e da Francesca de Regio, fu inviato […]
    …si sarebbe spento nella sua Seminara il 14 marzo 1627, ma, al dire del De Salvo, sarebbe invece morto a Caserta all’età di 63 anni. In verità, come sufficientemente si ricava da un atto notarile del 17 giugno 1738, passò a miglior vita nella sua città il 14 marzo 1627 essendo di anni 63 e venne sepolto nella sacrestia della chiesa conventuale, donde nel 1715 fu traslato e portato dentro il tempio stesso (7)[56].
    Fra Benedetto diede il via alla fondazione, cui tanto doveva tenere, con pubblico strumento rogato il 20 marzo 1586 proprio nel monastero di Caserta, dove in atto risiedeva quale novizio. Da una fotocopia imperfetta dell’atto ricavata da una copia formata nel 1753, che fino a poco tempo fa si custodiva nell’archivio del Comune e che, consegnata ad un tizio, un ecclesiastico, è oggi irreperibile, traiamo che il notaio Orazio de Palermo di Seminara, portandosi in detto convento, stese pubblico rogito alla presenza di fra Benedetto e di fra Cornelio da Santa Cristina, guardiano e maestro dei novizi. Fra Benedetto intese allora costituire erede universale di tutti i suoi beni l’università della città d’origine, con la clausola che entro quattro anni fosse eretto un monte di pietà a sostentamento e soccorso dei poveri e delle persone degne di compassione di Seminara e casali, in tutto secondo le regole sancite nell’istituzione del monte di pietà dell’Annunziata di Napoli, evidentemente il modello cui potevano rifarsi i regnicoli. Qualora i sindaci non fossero riusciti nell’intento entro un lasso di tempo di sei anni, l’assegnazione sarebbe diventata appannaggio del Venerabile Ospitale della Chiesa di Spirito Santo, il quale, a sua volta, si sarebbe dovuto preoccupare annualmente di dispensare aiuti ai poveri ed alle persone misere e di somme in altre opere pie con espressa dichiarazione (8)[57].
    Nel 1609 il Cappellano Maggiore, venendo a riferire sull’erezione di un monte richiesto per Oppido, rendeva edotto il Reggente del Collaterale che l’istituto di Seminara era stato materializzato con Privilegio della Regia Cancelleria del 1588, al tempo in cui era viceré il conte di Miranda (Giovanni Zunica), dietro sua stessa relazione e con il voto ed il parere favorevole espressi dal Reggente Finari (9)[58]. A questo primo monte si è interessato nel 1977 Antonio Marzotti, che ha discorso in occasione del VI congresso storico calabrese in merito ad una ricerca condotta su dati del 7-800 rintracciati negli atti notarili custoditi allora nell’archivio di stato di Reggio e in documenti conservati nell’archivio del comune di Seminara, usufruendo in particolare di una platea del 1805. Assai varie le considerazioni maturate dallo studioso ed alquanti eloquenti le tavole proposte, che servono ottimamente a farsi un’idea precisa delle operazioni che vi si svolgevano.
    Dall’esame dei documenti del monte, uno dei ben 17 enti di credito allora presenti a Seminara, che concedevano concordemente prima l’interesse del 10 %, quindi, dopo l’emissione di prammatiche reali, quello del 5 %, il Marzotti si è convinto dell’esistenza di una “rigida contrapposizione tra classi subalterne e classe dominante, con una classe media pressoché inesistente” e la “considerazione che popolani, magnifici, massari, mastri ricorressero al Monte per sbarcare il lunario, o per mantenere decorosamente il loro stato; mentre i don vi ricorrevano per essere sostenuti nei loro affari”, risultando di conseguenza “prestito per il consumo per i primi, per investimento per i secondi”. Dagli stessi risalta peraltro assai chiaramente di tempo in tempo “l’ascesa dell’ulivo, la costanza di vigna e seminativi e il crollo della seta”, un fatto assai rimarchevole per Seminara, che per secoli fu il centro del commercio della seta col suo fondaco e con la radicata consuetudine di dare annualmente “la voce”, cioè il prezzo (10)[59].
    [p. 21:]
    La conduzione del Regio Sacro Monte di Pietà di Seminara, come ricaviamo dai rogiti dei notai seminaresi, fu affidata all’inizio a tre Governatori e Maestri, che si divisero i compiti di cassiero, pigniero e libriero. Ad essi venne successivamente ad aggiungersene un quarto, che si ebbe l’incarico di procuratore, ma alla fine si tornò nuovamente al numero iniziale. Le funzioni di cassiero, come riscontriamo, risultano quasi sempre svolte da un nobile. Nel 1660 e 1702 appaiono di pertinenza di Paolo Rocco, nel 1695 del mag. Paolo Striverio, nel 1739 di d. Domenico di Franco e del capitano d. Francesco Giovanni Sanchez, nel 1754 e dal 1758 al 1760 di d. Casimiro Coscinà, nel 1757 di d. Giovanni Sonnà, dal 1757 al 1758 di d. Domenico Repace, nel 1761 di d. Antonino Anile, nel 1771 di d. Giacomo Franco e nel 1802 di d. Cesare Franco. In genere, la carica durava un anno e andava dal primo andava dal primo maggio a tutto aprile, ma a volte accadeva diversamente. In qualche caso, come per l’amministrazione di d. Casimiro Coscinà, Antonio Melara e Dr. fisico Domenico Longo, rispettivamente cassiero, prigniero e libriero, si protrasse per ben due anni, 3 mesi e due giorni, dal 20 agosto 1758 al 1760.
    I vari passaggi di cassa riescono quanto mai utili a farci comprendere come di tempo in tempo il monte si qualificasse un ente in continua ascesa, anche se a ricorrervi erano più spesso i sindaci e i cittadini del ceto nobile o pseudo tale. Nel 1751 era dato riscontrarvi un valore di 6.076 ducati 54 grana e 10 piccoli in relazione a pegni in “mobile, oro, argento, rame, schioppi, ed ogn’altro genere”, oltre a vari “biglietti seu polize” per complessivi 1112 duc. 60 gr. e 6 picc. attinenti ad operazioni dei sindaci in carica tra il 1741 e il 1747. Nel 1754 si accertava un valore in pegni di 7.848 duc. 15 gr. e 2 picc., più 131 duc. e 72 gr. in monete d’argento e d’oro, oltre gli impegni di detti amministratori. In particolare, il biglietto dei sindaci d. Francesco Antonio Mezzatesta e nr. Michele Guardata si riferiva a cento ducati avuti al fine di una distribuzione ai poveri e pagabile con le prime rendite incassate in futuro dall’Università. Per il 1757 il valore dei pegni, sempre in aumento, toccava la cifra di 9.077 duc. 10 gr. e 4 picc. e ad esso si veniva ad aggiungere una somma di 1.210 duc. 9 gr. e 6 picc. in monete d’oro, d’argento e di rame. Nel 1761 si registrava una battuta d’arresto con gli 8.472 duc. e gr. 39 denunciati, ma nel 1765 si risaliva a quota 10.806 duc. 20 gr. e 4 picc., oltre al contante in argento e oro per un totale di 940 ducati.
    Come abbiamo potuto constatare, molto spesso a fare da pegni erano in passato le armi, un particolare che c’induce a pensare come fosse più facile allora per i cittadini possedere un pistolotto piuttosto che oro, argento o manufatti di una certa importanza. Nel 1754 era dato rilevare la scomparsa dai pegni della scopetta di Domenico Barritteri, della scopetta ed archibuggio di Francesco Burgisi e della scopetta di Giuseppe Genuese, nel mentre su di uno stipo si osservavano addirittura cinque scopette, delle quali non si conosceva il proprietario.
    La sede del monte risultava arredata con poche ed assai vetuste suppellettili. Ecco cosa poteva offrire nel 1761.
    Su una scrivania di metallo si vedevano due calamari, un pinnarolo e un campanello, un calamaro di landa di rame giallo, un rinaloro di stagno e una forbicetta ordinaria. Il rinaloro, per chi non lo sapesse, era quell’oggettino pieno di sabbia fine atta ad asciugare le scritture fresche d’inchiostro, indubbiamente l’antesignano della moderna carta assorbente. Quindi, era dato notare un vecchio baguglio (baule) vuoto, una cascia nuova di abete per riporvi la contabilità, sei sedie di paglia usate ed altra antica di tavola, due banche di castagno da servire alle operazioni del monte, una boffetta con tiraturi (tiretti), un martello a marco (marchio) necessario a marcare gli ulivi di proprietà dell’ente, un quadro con effigiata la Madonna Addolorata ed altro recante l’immagine del fondatore Marcantonio Leone, due cavalletti di legno e due tavole indubbrunate occorrenti all’epoca della vendita dei pegni.
    Le scritture consistevano in cinque libri di “impegnare, e spegnare”, due libri antichi per memoria, un privilegio in carta pecora, cinque volumi di Significatorie (il I e il II in atto erano detenuti dal notario Carlo Calogero, incaricato di redigere “la nova Platea”), un libro con annotazione dei pegni significati e obbligati a censo bullare al 5 %, vari atti riportati su carta pecora e carta bianca, il libro delle Significatorie  in atto ed altro con le copie degli Istrumenti, l’Inventario dei pegni eseguito l’8 settembre 1751, l’indice dei pegni, [22] una Platea vecchia, una Plateola, copia di un atto stipulato tra il monte e il principe di Cariati nel 1709 e, infine un foglio di notizie in merito alle liti intercorse tra il monte e i cittadini (11)[60]. La sessione sinodale del 1693 celebrata da mons. Paravicino aveva stabilito per la diocesi miletese, di cui Seminara era parte integrante, particolari direttive per la conduzione dei luoghi pii, in generale e del monte di pietà, in particolare. Per quest’ultimo, assieme ad altri adempimenti, prescriveva a coloro che vi erano preposti di esigere quanto dovuto dai debitori e di costringere i renitenti in curia usando la via del diritto, di non concedere più di sei ducati, di dare il mutuo richiesto previo pegno d’oro o d’argento o di rame o di tessuti per il doppio del valore, di non accettare armi, vesti di panno o di lana, di vendere i pegni dopo trascorso un anno e di non riceversi denari dal monte per uso proprio. Erano questi i cardini principali sui quali poteva fondarsi una saggia amministrazione nel pensiero del Presule, ma, in verità, disposizioni del genere venivano quasi sempre disattese, almeno per quanto riguardava i monti gestiti dai laici (12)[61].
    Nel 1792, dopo il grave disastro provocato dal sisma del 1783, il monte di Seminara si qualificava al Galanti come un ente di tutto rispetto con i suoi 80.000 ducati di fondo e con il particolare che entro la cifra dei dieci ducati non pretendeva alcun interesse. Metà delle sue rendite, come d’altronde era avvenuto per le altre istituzioni consorelle, risultava devoluta “per decennio” per atto sovrano alla ricostruzione degli edifici pubblici (13)[62].
    In seguito alla piena ripresa dei paesi, soprattutto dopo il superamento dell’occupazione francese, l’ente seminarese trasse nuova linfa e l’1 agosto 1837 ottenne con beneplacito reale di poter applicare a suo favore lo stesso regolamento ch’era stato approvato con decreto del 12 aprile 1828 per l’amministrazione del monte dei pegni di Oppido (14)[63].

    Rocco LIBERTI, Tra le istituzioni creditizie del passato nella Piana di Gioia: Il monte di pietà di Seminara, in Banca popolare cooperativa di Palmi. Periodico di Economia e Cultura, 1993, n° 0, maggio-luglio 1993, pp. 19-22.



    *



    LOBSTEIN: La nobiltà di Palmi e Seminara:
    1982:

    PALMI

    Silenzio dei nostri tre autori: Beltrano, Pacichelli, Lumaga.
    Il catasto onciario del 1746[64] indica che erano allora in posizione preminente i d’Aquino[65] (il capo famiglia è detto «nobile vivente»), i Grassi[66] («nobile vivente»), i Lacquaniti[67] («nobile vivente»), i Lupari («nobile vivente»), i Montepardo («nobile vivente»), i Morone («nobile vivente»), i Poeta («Dottore, nobile vivente»), i Prenestini[68] («nobile vivente» ), i Sacco[69] («vive del suo»), i Saffioti («vive del suo»), i Soriano[70] («nobile vivente»), gli Ubaldo («Capitano della torre»), i Valenzise («vive nobilmente»).
    Ed ecco altri dati che abbiam tratto passim dalle carte della R. Udienza di Catanzaro: nel 1781 eran sindaci Ignazio Montepardo e Pietro Bagalà, nel 1798 lo era Gaetano Soriano, così come l’anno successivo Gregorio Managò; nel 1801, infine, Pasquale Grassi era sindaco dei nobili.



    SEMINARA

    Il Fiore pose Seminara tra quelle città o terre caratterizzate dal fatto che nobili e popolo vi convivevano «con distinzione ma senza chiusura».
    Nulla il Beltrano. Pacichelli alla pagina 103: «Pregiansi però in essa del carattere di Gentilhuomini i Cavalli, Fiori[71], Franchi[72], Grani, Grimaldi[73], Lauri, Longhi[74], Marzani, Mezzatesta, Rossi[75], Silvestri[76] ed altri». Puntuale l’elenco del Lumaga.
    Alle sopradette famiglie vanno aggiunte quelle che nel 1793 ad istanza delle «antiche famiglie nobili originarie di Seminara» e, cioè, d’Alessandro[77], Coscinà, Franco, Longo, Marzano[78], Mezzatesta[79], Sanchez[80], vennero aggregate alla nobiltà di Seminara[81]: esse furono quelle di Gaetano Anile[82], di Carlo Antonio Calogero e di Antonio Falvetti.
    Secondo il catasto onciario del 1746[83], preminenti erano allora i d’Alessandro (il capo famiglia è detto «Nobile»), gli Anile («Magnifico»), gli Aquino[84] («del ceto dei Nobili»), i Barritteri («Magnifico»), i Calogero («Notaio»), i Celi («Magnifico»), i Chitti («Dottore»), i di Cicco («Magnifico»), i Coscinà («del ceto dei Nobili»), i Franco («dei Nobili»), i Lanzo («Notaio»), i Longo («del ceto dei Nobili»), i Marzano («del ceto dei Nobili»), i Mezzatesta («del ceto dei Nobili»), i Monizio[85] («del ceto dei Nobili»), i Rossi («del ceto dei Nobili»), i Sanchez («del ceto dei Nobili»), i Satriano[86] («del ceto dei Nobili»), i Silvestri («del ceto dei Nobili»), i Zangari[87] («Dottor fisico»). Dallo stesso catasto apprendiamo che i d’Alessandro possedevano il feudo rustico detto Salica e Prato, i Marzano il feudo rustico detto la Gabella della Tonnara e i Sanchez quello detto Furia ossia Pirara in contrada Cannavà. Ed ancora che D. Domenico di Franco, «de’ Nobili di questa città», marito di D. Agata Sanchez, aveva sei figli, uno dei quali era il quarantaduenne Francesco allora Vescovo di Nicotera, e un’altra, Giulia, quarantacinquenne, era maritata in Tropea a D. Marino Tranfo.
    Ecco adesso due dati di fatto ricavabili da altrettante questioni di natura contenziosa agitate presso la R. Udienza di Catanzaro. La prima è del 1763 e vede D. Francesco Antonio Mezzatesta di Seminara rivendicarsi «patrizio con privilegio di padre onusto», privilegio spedito dalla Regia Camera della Sommaria con cui viene esentato da tutti i dazi. E ciò, onde ottenere il rimborso di 55 ducati per cui era stato tassato per il 1769. Ma poiché l’Università di Seminara, nulla eccependo sulla di lui appartenenza al patriziato di Seminara, controobietta che il privilegio non risale che al 1769, il Mezzatesta rinuncia al ricorso (Carte della R. Udienza di Catanzaro M . 318-64-1) .
    Il secondo elemento che importa ricordare in questa sede è che nel 1781 nel corso di una vertenza originata dal fatto che da un dodicennio l’ospedale e i luoghi pii di Seminara non rendevano i conti, il Sindaco fece l’elenco dei cittadini nobili, i quali allora erano D. Antonio Clemente, D. Antonio Cimino, D. Antonio e D. Vincenzo d’Alessandro, Dottor fisico Antonio Zangari, D. Agazio e D. Lorenzo Mezzatesta, Dottor D. Basilio Anile, D. Domenico e D. Girolamo Cuscinà, D. Vincenzo e D. Antonio Sanchez, D. Emanuele Chitti, D. Francesco Paolo e Michelangelo Cicco, D. Vincenzo e D. Ferdinando Grimaldi, D. Vincenzo, D. Saverio e D. Gennaro Marzano, D. Giovanni Longo, Dottor D. Gaetano Rossi, D. Giacomo e D. Antonio Franco, D. Giov. Bernardo Longo, Dottor D. Giovanni Lanzo, Dottor D. Giuseppe Antonio Tedeschi[88], D. Mercurio Sanchez, D. Michelangelo e D. Giuseppantonio Monizio, Dottor D. Basile Melara, D. Vincenzo Franco, D. Vincenzo Nesci[89]. (Ibidem 0-334-2-VI)
    Va ricordato un provvedimento della Santa Sede del febbraio del 1638 indirizzato all’Università e agli uomini della terra di Seminara di «confirmatio fundationis monasterii monialium sub regula S. Clarae pro quellis nobilibus dictae terrae sub invocatione Annunciationis B.M.V. conferente stipe D. Nicolao Reggio de Seminara» (Archivio Segreto Vaticano Reg. Lat. a XV 1.6 f. 577)
    Vanno altresì menzionati provviste di benefici e indulti per oratori privati nei quali ricorre la qualifica di nobile. Eccoli: il 20 maggio del 1738 a Enrico Franco, «nobile, patrizio della città di Seminara» vien concessa licenza di udir Messa con i fratelli germani nell’oratorio privato di Seminara (Archivio Segreto Vaticano, Segreteria Brevi 9919 f. 387-387 v.), sempre un Enrico Franco (juniore?) e la moglie «de nobili genere della città di
    Seminara» ottengono indulto (in realtà si trattò di una rinnovazione) per l’oratorio privato (ivi, 3779 f. 457-457 v.); nel marzo del 1686 Filiberto de Lauro[90] «prete nobile» ottiene l’arcidiaconato nella Collegiata dell’Immacolata in Seminara (Ivi, Dataria .Apostolica per obitum F 102 f.145 v.); nel maggio del 1633 a Geronimo Marzano «chierico nobile» va la Cappella della SSma Annunziata nella città di Seminara (ibidem, Dat. Ap. per obitum ad annum), ed ancora a un Geronimo Marzano (lo stesso?) «prete nobile infermo» della città di Seminara nel giugno nel 1674 vien data facoltà di udir Messa nel suo oratorio privato (Ivi, S. Brevi 1535, f. 405 e f. 409); nel settembre del 1753 a Gaetano Mezzatesta «prete nobile» vien conferito un canonicato con prebenda nella Collegiata predetta della città di Seminara (Ivi, Dat. Ap. per obitum F 174 f. 170).
    A noi risultano gli altri dati che seguono: nel 1694 Giacomo Grimaldi era sindaco, nel 1759 Agazio Mezzatesta era sindaco dei nobili mentre Antonio Vicari era sindaco del popolo[91], nel 1774 Casimiro Cuscinà era sindaco uscente e subentrante era Giuseppe Repace. Altri sindaci furono nel 1779 un Domenico Antonio Cuscinà e nel 1800 un Giuseppe Antonio Monizio.

    Franz von LOBSTEIN, Nobiltà e città calabresi infeudate, Chiaravalle C.le, Edizioni Frama Sud, 1982. Voci “Palmi” (p. 67) e Seminara (p.98-100) con annotazioni rispettivamente a p. 181 e 209-211.


    P
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    MARAFIOTI Girolamo, Dalle Croniche et antichità di Calabria.
    Estratti su Seminara:
    1601:


    p. 66 a. e b.>

    «…quindi passando il fiume Catiano, incontriamo un’altro molto illustre castello, chiamato Seminara, edificato dopo le rovine di Tauriano, città antica di Calabria, della quale ragionaremo nel [b] fine di questo libro. E dà tre miglia in circa lontana dal mare, ma tiene l’affacciata sua verso Oriente, e tra tutti paesi à se convicini, con allegrezza grande nel matino si compiace salutare il Sole.E stata Seminara nel principio della sua fondatione sedia Vescovale, perche nel tempo quando fù distrutta Tauriano fuggirono le genti col Vescovo della Città, & habitarono in Seminara, mà Roggiero Guiscardo Signore di Calabria, e Sicilia, veggendo ch’allora i cittadini di Montileone, erano puochi, e meno erano anco di numero i Cittadini di Seminara, con la volontà di Gregorio settimo Sommo Pontefice Romano, da questi dui Vescovati, cioè, Seminara, e Montileone ha formato uno nella città di Mileto, nella quale il primo Vescovo è stato di nome Arnulfo, come appare nelle scritture, e privilegi della stessa Chiesa Vescovale. cominciò dopo fiorire, e moltiplicare se stessa, ch’hoggi è habitazione molto nobile, abbondante d’ogni cosa necessaria all’humano vivere, nelle cui campagne si fà abbondanza d’oglio finissimo, e vi sono caccie di diversi uccelli, ma in particolare, di turdi, faggiani, e starne, gli huomini, e donne sono specolative, perdono di natura, e nella civile conversatione dimostrano nobilmente, la gentilezza, e cortesia dell’animo. in questo territorio le vindemie sono abbondanti, si cava il gisso specolare, del quale si fanno bellissimi ornamenti stuccati nelle fabriche. in questi luoghi patì il Re Ferrando d’Aragona una crudele rotta da Francesi, come si dimostra appresso.


    Dell’entrata del Rè Ferrando in Seminara, e dell’apparecchio
    della guerra da farsi, tra lui, e Francesi.
    Cap. XXX

    Dopo ch’ebbe il Rè Ferrando racquistato S. Agata, e tutto il convicino paese, (come dicevamo à dietro) passò insieme col gran Consalvo Capitano della fantaria Spagnuola verso Seminara,

    [p. 67 a e b)

    dove una banda di Francesi quale (secondo riferisce M. Paolo Giovio) temerariamente era uscita fuori à fare la scoverta, fù rotta nel viaggio, dalla cavalleria Spagnuola, il Rè con allegrezza grande di tutti cittadini fù ricevuto in Seminara. Era nel campo del Rè Ferrando Marino Corriale Signore di Terra nova, il qual’havendo fin da principio della guerra costantemente seguitato la parte Aragonese, cioè d’Alfonso, e Ferrando, era stato da Francesi discacciato dallo stato

    MARCONE Nicola, Un viaggio in Calabria. Impressioni e ricordi,
    Roma, Tipografia Sociale, 1885:
    a.     1885:

    p. 82:

    Credesi che Palmi sorgesse sulle rovine di Tauriana: – Cassiodoro, in una delle sue lettere, ne loda il vino; e nello stesso atto di concessione, fatto da Ruggero I a’ Monaci di Bagnara, si parla d’un certo feudo di San Giorgio in Palmi. Probabilmente l’uno e l’altro alludono a qualche contrada di tal nome, essendo ormai accertato che a que’ tempi la città, non solo non esistesse, ma che la denominazione attuale è assai recente. Secondo Giustiniani ed altri molti, essa fu edificata al decimoquinto secolo, da Carlo Spinelli, e fu detta per qualche tempo Carlopoli. Forse, più tardi, e per la grandezza di città che ben presto raggiunse, e per sottrarsi alle pretensioni di Seminara, che avrebbela voluta a sé soggetta, prese il nome di Palme da una pianta di siffatta specie che dicesi ornasse pomposamente la piazza, ed oggi stesso figura sullo stemma della città; e di palma ha struttura la ricca fontana che, dal centro della vasta piazza, somministra le acque a’ bisogni della popolazione intera.

    P
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    PLACANICA: affitto di terre della chiesa a fine Settecento.
    1985:
    «…A fine Settecento, gli esponenti della borghesia produttiva di Calabria presero tutti in affitto terre della chiesa che mostrassero buone possibilità di sviluppo (viticultori, agrumicultori, massari attenti alle colture ortensi, ecc.), ma quasi nessuno di essi riuscì a mantenerne il possesso, ché la vittoria andò a piccoli, medi e grandi borghesi disposti a pagare subito e a rifarsi con le solite colture già dall’anno successivo. Un solo esempio per tutti: a Seminara, un esponente dell’avanzata famiglia dei Grimaldi, Vincenzo, fratello del grande agronomo Domenico (ma, forse, espressione dello stesso), chiese che gli venisse concesso un comprensorio di 20 grandi fondi (320 ettari), per ora disordinatamente fittato a vari particolari a canoni assai bassi, col patto, però, di apportarvi grandi migliorie (i famosi prati artificiali con erba medica, cedrangola e sulla, su cui tanto aveva insistito Domenico; irrigazioni e canali di scolo; sistemazione e ammendamento dei terreni; ecc.) e di poter pagare entro dieci anni. Scriveva l’ispettore Francesco De Bonis – anche lui in odore di giacobinismo – al ministro napoletano, caldeggiando la proposta di Grimaldi:

    Non volendo io entrare ad esaminare l’utile che ne verrà allo Stato dall’introduzione dei proposti prati artificiali ed irrigatori, per essere cosa affatto ignota in questi nostri paesi, mi dò l’onore di far presente a Vostra Signoria Illustrissima esser cosa fuori di dubbio che questa vasta tenuta di terre, se verrà diretta e regolata da personaggio ragguardevole – il quale ha tutti i mezzi e le cognizioni per eseguire in grande le operazioni della rustica economia – apporterà un utile deciso (De Bonis, 341).

    Né mancarono altre analoghe richieste: per esempio quella della famiglia Plutino di Reggio, che chiedeva di pagare con respiro un grosso fondo – da essa già tenuto in fitto – per potervi impiegare subito grosse somme allo scopo di costruirvi un edificio per la manifattura della seta e un altro come casa per i lavoranti. Ma inutilmente ci si appellava ai principî dell’«ottima industriosa coltura» o, come diremmo noi, del capitalismo agrario e dell’accumulazione. Lo stato borbonico, in ogni caso del genere, preferì chi potesse sborsare una somma appena decente, con i soliti disegni di arcaica utilizzazione delle terre calabresi».

    Augusto PLACANICA, I Caratteri originali, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Calabria, a cura di P. Bevilacqua e A. Placanica, Torino, Einaudi, 1985, p. 101-102.















    R
    r


    RICHARD: pagine di una guida turistica su Seminara anno 1832:
    a. 1832 >:
    «Da Monte Leone fino a Reggio, non si trovano che villaggi poco considerevoli, frà i quali citeremo Seminara, decorato del titolo di Città, sebbene vi si contino appena 2000 abitanti. Questo luogo non è interessante che per le rovine dell’antico Tauriano, che ne sono poco distanti…».

    RICHARD, Nuovo itinerario d’Italia, rifatto, accresciuto e corretto sulla nuova Guida d’Italia recentemente stampata in Milano con una carta postale, Livorno, Tipografia e Calcografia Vignozzi, 1832. A pag. 392 la voce “Seminara”.


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    SACCO: voce “Seminara”
    a. 1796 >
    «SEMINARA Città nella Provincia di Catanzaro, ed in Diocesi di Mileto, situata sopra una collina, d’aria buona, nella distanza di tre miglia dal Mare, di ottanta in circa dalla Città di Catanzaro, e di duecentocinquanta da Napoli, che si appartiene con titolo di Ducato alla Famiglia Spinelli, Principe di Cariati. Questa Città edificata dopo le rovine dell’antica Città Tauriana, fu distrutta poi nell’undicesimo Secolo da’ Saraceni. Riedificata in seguito, dopo qualche tempo divenne una Città cospicua della Calabria. Col terremoto del mille settecentottantatrè fu interamente adeguata al suolo. Al presente medianti le paterne cure del Regnante Ferdinando IV. Nostro Augusto Sovrano è stata riedificata in una miglior forma in un altro sito distante dalla sua antica posizione. In questa Città sono da notarsi una Collegiata ufiziata da diciotto Canonici, e da un Arcidiacono; due Parrocchie di mediocre struttura; e prima del terremoto vi erano due Monisteri di Monache di clausura, e sei Conventi di Regolari, il primo de’ Padri Basiliani, il secondo de’ Domenicani, il terzo de’ Minimi di San Francesco da Paola, il quarto de’ Conventuali, il quinto degli Osservanti, ed il sesto de’ Cappuccini. Le produzioni  del suo territorio sono grani, legumi, frutti, vini, olj, lini, e gelsi per seta. La sua popolazione ascende a quattro mila duecento settantasette sotto la cura spirituale di un Canonico, che porta il titolo d’Arcidiacono. Questa Città vanta di essere stata Sede Vescovile sin da’ primi Secoli della Chiesa, ed i suoi Vescovi Gregorio, e Teodoro intervennero l’uno al Concilio Costantinopolitano VI. e l’altro al Concilio Niceno II. Sotto il Pontefice Gregorio VII. fu poi unita alla Chiesa di Mileto, siccome seguita ad essere. La medesima Città è rinomata nella Storia Letteraria per aver data la nascita al Letterato Barlaamo, il quale si distinse nel XVI. Secolo per lo suo sapere nella Teologia, nella Filosofia, e nelle Mattematiche; al Filosofo, e Medico Francesco Sopravia, il quale scrisse un libro de Rerum Natura; ed al Filosofo, Giureconsulto, e Storico Francesco Antonio Grimaldi».

    Dal Dizionario geografico-istorico-fisico del Regno di Napoli, del Sacco, tomo III, anno 1796, pag. 405-406. Voce “SEMINARA”:


    SALETTA, Vincenzo: Distruzione di Tauriana e origini di Seminara:
    a. 1960:

    Pagg. 8-9: «La città che, come abbiamo detto, si estendeva dalla rupe di Tonnara alla pianura di Ciambra accanto al Metauro, (anche il De Salvo in Metauria e Tauriana – pag. 161 – indicò questi limiti), si andò sempre più rimpicciolendo, mentre i suoi abitanti, specie quelli della periferia, abbandonate le case al saccheggio[92], si ritiravano spesso non dentro le mura della città, ma addirittura nell’interno del territorio bruzio, dove andavano a fondare città più sicure, tra cui Seminara (5), San Martino, Terranova, ecc.». Testo della nota 5, p. 9, di Saletta: «Sull’origine di Seminara il Taccone Gallucci (Monografia di Storia Calabra ecclesiastica, pag. 140) dice qualche inesattezza. Egli, infatti, scrisse che il castello di Seminara venne fondato a seguito della distruzione della città di Taurianum nel 951, “servendo da ricovero ai cittadini fuggiaschi”. È noto, invece, che tale castello era stato costruito vari secoli prima dai cittadini Taurianensi allontanatisi dopo i primi saccheggi. Il Fiore, (Calabria Illustrata, Vol. I, pag. 124) ricorda che a Seminara furono rinvenuti i corpi di due sacerdoti: uno era il sacerdote Giovanni Emanuele, figlio di Carlo e di Angiola Alessandrina, morto ivi il 25 dicembre del 747, e l’altro era il sacerdote Paolo Squillace, figlio di Bruno e di Livia, morto pure a Seminara il 9 febbraio del 945. Il Minasi, infine, nella sua opera Le Chiese di Calabria, pag. 193, pur mantenendosi sulle generali per ciò che concerne l’epoca esatta, scrisse che Seminara venne fondata dai profughi Taurianensi tra il VII e l’VIII secolo “oppure quando Tauriana… era stata danneggiata dai Longobardi in sulla fine del VI secolo”».
    Pag. 11-12 + nt. 19: «La distruzione definitiva dell’infelice città avvenne il 951. Eccola nel racconto del Minasi (19) in tutta la sua drammaticità: « Era già più di un anno che gli empi Saraceni devastavano tutta la Calabria e corse notizia che si avvicinassero ad assalire le regioni mercuriane, nè pareva che volessero usare alcun riguardo ai monasteri nè alcuna pietà per i monaci. Tutti al primo avviso cercarono di ricoverarsi ai primi castelli in che s’imbatterono. Allora anche il Beato Stefano (compagno di San Nilo) dimorando nel cenobio di San Fantino, salì con gli altri fratelli al vicino castello, giacchè crescendo il rumore, non aveva potuto tornare alla spelonca di San Michele, ove soggiornava San Nilo. Questi, avendo osservato dalla parte superiore della spelonca il sollevarsi della polvere e la sopravveniente moltitudine dei Saraceni, pensò di nascondersi al loro furore per non tentare la Divina Provvidenza... Allora furono saccheggiati i monasteri di Mercurio e, come a noi sembra moltopossibile, fu distrutta Tauriana che, da quel giorno, non risorse più. Anche Sant’Elia, vestito di una rozza pelle, dilungossi dal monastero, ma poi anch’egli fu costretto a ripararsi nel castello nelle due successive scorrerie che furono fatte dopo il 951 » Testo della Nota 19:.«In questo racconto del Minasi c’è una sola inesattezza ed è che egli, quando parla del castello in cui si rifugiò il Beato Stefano, intende riferirsi al castello di Seminara. Ora (e ciò sarà molto più chiaro a chi conosca la località) è evidente che se il Beato Stefano non aveva tempo di raggiungere la sua spelonca a San Michele (o san Miceli) a maggior ragione non poteva averlo per raggiungere il castello di Seminara, molto più lontano, anche se non precisamente ubicato là dove oggi sorge la città di Seminara.
    Pag. 80: «La presenza di numerosi bolli doliari e marchi di fabbrica, rinvenuti nella zona archeologica di Taurianum, conferma interamente la tradizione orale, che faceva di Taurianum un centro di produzione vascolare e figulinaria, con larga produzione di laterizi e di prodotti fittili. L’arte antica si è tramandata, da padre in figlio, fino ad oggi, specie presso la vicina Seminara, fondata, appunto, dai cittadini Taurianensi dediti a questa attività».

    Storia archeologica di Taurianum. Iscrizioni e laterculi, Roma, Arti Grafiche Editrice, 1960


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    TRAVAGLINI: che cita Grio sullo stato fisico dopo l’83
    1985:
    «…Ricerche successive hanno consentito di consultare anche la Relazione sullo stato fisico della Calabria Ulteriore[93] redatta da Giuseppe Grio da Polistena. Ne riproduciamo alcuni passi relativi allo stato del territorio per quanto concerne gli aspetti idrogeologici:

    Le vaste pianure dette di Seminara e di Nicastro sono ormai famose pe’ laghi e pantanacci da cui sono coperte nella massima parte della loro estensione. Si approssima a queste infelici contrade il Marchesato di Crotone il cui suolo è molle nella maggiore estensione de’ pantanacci che lo ingombrano quasi tutti i mesi dell’anno.
    La piana di Seminara che presenta la superficie di un bacino di circa dugento quaranta miglia quadrate debba considerarsi almeno per un terzo coperta dalle acque stagnanti. Sosta di vantaggio un lago perenne della lunghezza di tre miglia, sopra uno e mezzo di larghezza. Questo lago compirà fra qualche altro anno i decreti del destino desolatore di Rosarno a cui è molto vicino. […] Le sue acque minuiscono sensibilmente in està, mentre non sprizzano dal suolo sottoposto, ma è lo sviamento delle acque di Mesima che le sostiene. […] La piana di Nicastro è ancora più male avventurosa e desolata per siffatti condizioni geologiche. Questa specie di cratere che presenta una superficie di circa dugento ottanta miglia quadrate è per la maggior parte o inondata da lagune o inzuppata da impuri e pestilenti pantanacci.
    Immediatamente sotto il Comune di Santa Cristina gli smottamenti ed abbassamenti di monti diedero l’opportunità alla formazione di un lago della estensione di un miglio di lunghezza, sopra mezzo di larghezza, la cui profondità giungeva a sessanta piedi parigini.
    In uno: tutta la costa da Seminara a Santa Cristina un tempo salubre e prospera, è divenuta finalmente lo spavento di provinciale per non capitarvi in està che rapidamente.
    Il Marchesato di Crotone ricordato dagli antichi per la sua salubrità non gode di condizioni molto migliori. […] È detto che la piana di Seminara, quella di Nicastro, il Marchesato di Cotrone sono divenuti nominati abbastanza per la copia delle paludi e pantanacci; ma ciò non esclude di dover valutare nel calcolo generale della superficie resa inutile dalle acque stagnanti, vari e moltiplicati altri punti su tutto il suolo della Provincia meno dannosi perché più ristretti e collocati in seno a vasti campi alberati.
    Coacervati però tutti i terreni impaludati bisogna farne ammontare la somma a due terzi de’ terreni piani suscettibili della miglior coltura».



    Giovanni TRAVAGLINI, Il controllo delle acque e la difesa del suolo, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Calabria, a cura di P. Bevilacqua e A. Placanica, Torino, Einaudi, 1985, p. 696-697.





    [1]Nella testatina sul margine destro del foglio: «Metauro fiume di Seminara».
    [2] « Et tutti li conventi erano pieno di banditi particolarmente della diocesi di Mileto, il vescovo li dava a mangiare per zelo della giurisdizione, quando erano assediati da’ birri. E Xarava ponea fama che il clero volesse ribellare (CAMPANELLA, citato in AMABILE, Fra Tommaso Campanella, la sua congiura, i suo processi e la sua pazzia, Napoli, 1882, vol. I p. 116.
    [3] A proposito dei chierici selvaggi, genia di irregolari, forniti di tonsura che nel campo ecclesiastico sono un po’ il « pendant » dei « bravi » e ricorreranno spesso nel corso del presente studio, bastino queste parole di Carlo Spinelli, il quale era stato inviato a sedare la rivolta del Campanella in Calabria: « Questi chierici vanno armati d’ogni specie d’armi, e sempre stanno nelle chiese con altri fuorusciti provvedendosi vicendevolmente ciò che questi vescovi permettono, e temo che la maggior parte delle vigliaccherie che si fanno siano imputabili a chierici, propriamente perché non vengono castigati e sono di esempio agli altri » (da una Relazione inviata al Viceré in data 28 settembre 1599 in AMABILE, op. cit. p. 316). È interessantissimo il brano che alla decadenza dedica l’anonimo autore d’una relazione sulla Calabria e i calabresi contenuta nel manoscritto Barberino latino 5392 pubblicato da G. S. Mercati nell’« Arch. Stor. Cal. Luc. » anno XII:
    «I chierici e i sacerdoti di così avventurate diocesi, o per lo privilegio del foro caminano in campagna e per la città armati di quell’armi che sono proprie de’ sicari e micidiali, l’uso dei quali è interdetto a’ laici con la pena del capo. Né basta loro il fare di sé medesimo un composto di Chierico e di Soldati, se non pubblicano la loro insolenza col fare gl’occhi d’ogni uno una scandalosa mostra dell’arme che portano. L’osservanza de’ Canoni, il rigor delle leggi ecclesiastiche per frenare la audacia loro quivi non è in uso, perché non ve n’ha cognizione. Huomini di questa sorte, invece d’essere ripresi vengono favoriti e difesi dal vescovo con titolo d’aver sempre alla mano gente brava e feroce che la giurisdizione ecclesiastica difende nelle Occasioni. Né però indegna forma di privilegio vien conceduta o difesa senza dal Prelato, traendone egli egualmente utile e forza. Per questo istesso fine e col medesimo pretesto si concedono a persone vili e da Campagna le patenti di Diacono Selvaggio ». Cfr. pure sull’argomento il nostro studio « I diaconi selvaggi e la loro presenza a Squillace nel secolo XV », nel «Bollettino della Società Calabrese di Storia Patria», Reggio di Calabria, 1948, n. 1.
    [4] AMABILE, op. cit. pag. 118, il quale ricorda in nota, dell’Arch. di Stato di Napoli i Registri Curiae vol. 38, an. 1595-99, fol. 123, vol. 54, an. 1596-1601 fol. 97, lett. Viceregale all’auditore di Lega in data 23 luglio 1598.
    [5] CAMPANELLA, Op. cit., pag. 30, dice come avvenne in favore del Capitò «quel rumor di chierici di Seminara che ruppero i carceri gridando “viva il Papa”, onde sembrò che il Vescovo di Mileto partecipasse alla preparazione della congiura del Campanella ed ebbe credito la voce che il clero volesse ribellare».
    [6] Fu pubblicato dall’AMABILE, op. cit., vol. II: Documenti e illustrazioni Napoli, 1882 pp. 47-83.
    [7] Registri Curie, vol. 43. Fol. 178 t., riportata dall AMABILE, op. cit., vol. pag 312.
    [8] Ibidem, vol. 46, fol. I; facendolo de maniera che non vi socceda fraga od altro strepito.
    [9] Ibidem, vol. fol. 19 t., cfr. AMABILE, Loc. cit.
    [10]Tale carteggio, esistente nell’Archivio di Stato di Firenze, venne pubblicato per intero dall’AMABILE, op. cit., vol. II, Documenti, pagg. 47-83.
    [11] La lettera predetta venne pubblicata dall’AMABILE, op. cit., vol. I, pag. 312.
    [12] Con successiva lettera, in data 1 gennaio 1600, il Nunzio chiese la facoltà di assolvere anche il Poerio e lo Xarava.
    [13] «Seguitò V. E. di dirmi che aveva inteso che fra questi prigioni, che sono in tutto 160, ce ne sono otto di quei che chiamano chierici selvaggi della Diocesi del Vescovo di Mileto, et che aveva anche qualche inditio contro il teologo del detto Vescovo, et venisse quà, et menasse con seco il detto theologo, risposi che senza nuovo ordine non lo chiamerei, et S. E. si contentò che ne scrivessi costà » cfr. la lettera del 9 novembre 1599 del Nunzio al Cardinale S. Giorgio, in AMABILE, op. cit., III, 49.
    [14] «Circa il far venire il vescovo di Mileto si contenta pure S. S. a che in soddisfatione del Sig. Viceré V. S. seguiti et adempisca li ordini vecchi che se le diedero le settimane passate, instandone V. S. Dei soddetti Chierici et Frati prigioni dice S. S. à che in ogni modo V. S. si assicuri bene che siano custoditi come prigioni suoi, et tenuti a sua libera dispositione». (Il Cardinale S. Giorgio al Nunzio, 17 novembre 1599, in AMABILE, op. cit., III, p. 52 doc. n. 56).
    «…Che i Chierici et Frati medesimi doveva V. S. farli dichiarare in ogni modo prigioni suoi. Et quanto a chiamare costì il Vescovo di Mileto, seguire le commissioni che le furono inviate nel mese di Settembre».
    (Il Card. S. Giorgio al Nunzio, 19 novembre 1599, ibidem).
    [15] In AMABILE, Op. cit., I, p. 54 e s. doc. n. 63.
    [16] AMABILE Op. cit., III, p. 56, doc. n. 68.
    [17] Scipione I Spinelli successe nel 1572 al padre Carlo II, primo duca di Seminara.
    [18] «Soggiungerò solo che trovo che delle lettere di quest’ultima chiamata non ha ricevuta alcuna, perché è stato più d’un mese in viaggio rispetto al tempo, et le lettere che lo trovarono partito mi sono state rimandate, però in questo non si è potuto trovare contumace come pretendeva il medesimo sig. Viceré il quale per quanto scopro, era stato molto sinistramente informato da quei Principe di Scilla e dal Duca di Seminara, che l’un et l’altro per quanto ho inteso hanno avuto da disputare con detto vescovo» (lettera dell’11 gennaio 1600 del Nunzio al Cardinale S. Giorgio, in AMABILE, op. cit., pag. 60, doc. n. 81).
    [19] Dal Carteggio del Residente Veneto in Napoli col suo governo, pubblicato dall’AMABILE, op. cit., III, Documenti, pp. 86-98. La lettera citata a pag. 95. I1 residente, Giovanni Carlo Scaramelli, era stato già residente a Costantinopoli presso la Sublime Porta. Nelle lettere, accanto a notizie precise, dà spesso notizie incontrollate, raccolte dalle dicerie correnti tra il popolo.
    [20] I1 Pisano venne impiccato e squartato, di fronte alla guardia del Castello, il 16 gennaio 1600.
    [21] In realtà la diocesi di Mileto, risultante dall’unione delle due diocesi di Vibona e di auriana, compiuta in seguito alla bolla Potestatem ligandi del 1503 (cfr. TACCONE GALLUCCI, Regesti dei Romani Pontefici per le chiese di Calabria, pp. 45-46) era vastissima e tra le più popolate della Calabria.
    [22] Il Cardinale S. Giorgio si congratulava in data 22 gennaio 1600 col Nunzio per l’intervento del Vescovo presso il Viceré che «del sospetto che haveva il medesimo Vescovo di trovar impedito il viaggio di Roma, quando fosse per venirvi crediamo che sarà del tutto vano» (dal Cart. Cit. filza 213, lettera del 22 gennaio 1600).
    [23] Vittae SS. Sicul. tom. 2. Anim. ad vitam S. Elia Innioris fol.
    [24]  Dalla vita del Santo narrata da G. Fiore e ripresa da fonti più antiche si ricavano elementi di vita urbana nella distrutta Tauriana ed indicazioni toponomastiche successive (Monastero di S. Fantino). Nella vita del santo la città di Tauriana appare ancora in prevalenza pagana; la conversione, favorita dai miracoli operati, è opera di Fantino. Non sembra vi siano state grandi persecuzioni di cristiani.
    [25] SNSP ms. XXVIII C 2, parte II, cc. 115-118 e 120-122. [SNSP = Biblioteca della Società Napoletana di Storia Patria, Napoli]
    [26] Codice Aragonese o sia lettere regie; ordinamenti ed altri atti governativi de’ sovrani aragonesi in Napoli, etc., Napoli, vol. III, p. 281.
    [27] ASN, Relevii, vol. 352, cc. 555-559.
    [28] ASN, Sommaria. Consulte, vol. 42, c. 161 v.
    [29] Ibidem.
    [30] Ibidem.
    [31] «Detta annata è stata vacante d’olio… e gli trappiti che prima erano valcatori si sono affittati per mortella» (ASN, Relevii, vol. 352, c. 511-529); «questo affitto per la mortella se fa dopoi che in detto trappito si è finito de macinare l’olive per fare l’oglio (e) dura lo macinare de la mortella per il mese di luglio e per tutto agosto» (ivi, vol. 351, cc. 113-276). Sembra che i trappeti calabresi fossero piccoli. Un teste, che depone per il relevio del barone di Marcellinara nel 1592, «interrogatus ogni macina d’olive quanti litri di ogli ne escino, dixit che esso deposante have visto et experimentato come trappitario che da ogni tomolo esci due litri. Interrogatus quanti tomola ci vanno ad una macina, dixit che nci vanno tomola quattro» (ASN, Relevii, vol. 351, cc. 34-70). Sappiamo, del resto, dell’impianto in Amendolara, nel 1537, ad iniziativa del barone della terra, di «un nuovo trappeto all’uso di lecce con grande spesa per macinare le ulive del suo uliveto, di modo che ne’… piccioli trappeti (esistenti ad Amendolara) la molitura non era che di sette tomoli di olive, e nel Leccese era di ventuno» (Bullettino delle Sentenze della Commissione Feudale, 1810, vol. 2, pp. 26-27). Menzione di “trappito a mano cioè col cavallo” e di “trappito d’acqua” in ASN, Relevii, vol. 351, c. 630 segg.; di “trappito che macina con cavallo” in ASN, Relevii, vol. 357, c. 108r.; “partito de pigliare lo trappito de S. Anna con pacto che loro mectessero lo cavallo et altre cose necessarie allo trappito et esso con soi compagni la fatiga lloro et che poi se spartessero li ogli guadagniavano et li denari” (ASN, Relevii, vol. 349, cc. 201v.-202r.).
    [32] ASN, Relevii, vol. 354, cc. 555-559.
    [33] Cfr. C. MOSCHETTINI, Della coltivazione degli ulivi e della manifattura dell’olio, Napoli 1794, vol. I, p. 175 (e cfr. pure p. 239).
    [34] Ibidem, p. 13.
    [35] Cfr. D. GRIMALDI, Istruzione sulla nuova manifattura dell’olio intrdodotta nel Regno Di Napoli, Napoli 1777, pp. 17-18.
    [36] Ivi.
    [37] Cfr. C. MOSCHETTINI, op. cit., p. 292.
    [38] ASF, Mediceo, f. 4072, c. n.n. per Seminara.
    [39] ASN, Sommaria. Diversi, II Numerazione, vol. 63, c. 156 r.
    [40] ASN, Sommaria. Notamenti, vol. 70, carte accluse. Anche il prezzo era alto: 40 carlini a cantaro contro i 22 pagati dalla Corte.
    [41] Ibidem: 7 o 800 cantara.
    [42] Ad es. nel territorio di Seminara, come informa il relevio del 1554 (ASN, Relevii, vol. 349, c. 204 v.): «have circa quindice anni che lo q. ex.te conte Carlo (Spinelli) comperò uno bosco et terre vacue da Nicodemo Yeria, quali sono siti in lo territorio de Seminara, in la contrata de lo feudo seu stagliato et da tre anni circa lo quondam ex.te conte Pirro Antonio nce se ne pastinò castagni et in dicto territorio per nce essere pastinato per tutto decti castagni non se semina, et de ditti piedi de castagni per essere piccoli non se have fructo nesciuno, declarando che li dicti castagni son pastinati in lo terreno che era vacuo».
    [43] La contesa fu risolta, come è noto, a favore di Reggio nel 1584, ma solo dieci anni dopo l’Udienza veniva di nuovo portata a Catanzaro. È anche da notare che all’istituzione della seconda Udienza si oppose sempre Cosenza, che nel 1594 ne chiese senz’altro la soppressione (AS = Archivo General de Simancas, Secretarías Provinciales. Nàpoles, Lib. 516, cc. 236v.-237r.). Ma, quando nel 1596 sembrò deciso dal re il ritorno all’unica Udienza, Cosenza dovette protestare contro la pretesa che essa fosse stabilita in Catanzaro, dove allora risiedeva quella di Calabria Ultra (AS, ibidem, Lib. 517, cc. 180v.-182r.). Catanzaro replicò, peraltro, energicamente (AS, ibidem, Lib. 517, cc. 184v.-187r., e Lib. 518, cc. 193r.-195r.), ma si dovette a sua volta difendere, nel 1600, dall’accusa di essere stata implicata nella congiura del Campanella, accusa mossale appunto, secondo il memoriale allora inviato dalla città a Corte…
    [44] Per i capi di accusa di Seminara contro il suo duca cfr. ASN, Processi antichi. Pandetta Nuovissima, n. 1.967/53.062.
    [45] Lib. 3. cap. 5.
    [46] Vedi il Morisani, Marm. Reg. p. 90.
    [47] Vedi FIORE nella Calabria abitata, p. 149.
    [48] Nella Descriz. d’Italia.
    [49] De antiqu. et sit. Calab.
    [50] Nella sua Biblioth. Calab.
    [51] Memoria degli Scritt. Legal. t. 2, p. 147. [= Naz. Roma]
    [52] Quint. I. fol. 1250.
    [53] Petit. 3. fol. 17.
    [54] Quint. Instrum. Reg. 5. fol. 7.
    [55] Quint. 98. fol. 301. Quint. 109 17. Quint. 106. fol. 248.
    [56] G. FIORE, Calabria Illustrata, vol II, Napoli 1691 [rectius 1741], pp. 163-164. A. DE SALVO, Ricerche e Studi storici intorno a Palmi, Seminara e Gioia Tauro, Palmi 1899, pp. 183-184, n. 3. S. MORABITO, Cappuccini calabresi nel mondo, Catanzaro, s. d., p. 74.
    [57] Comune di Seminara, congregazione di Carità, N. I dell’inventario, categoria I, casella I. Secondo il De Salvo (cit.; cap. 5, pp. 183-184 n. 3) fra Benedetto avrebbe testato col notaio Mario de Capua di Caserta disponendo che tutta la sua proprietà, del valore di 156.069.00 lire, andasse a prò dell’Università, che avrebbe dovuto venderla entro il periodo di 4 anni e col ricavato dar vita a un monte di pietà. Copia del testamento si conservava nel 1738 nella libreria del convento cappuccino di Seminara (SASP, Libro del Pr. di Nr. Carlo Calogero, ibidem).
    [58] ARCHIVIO DI STATO (ASN), Cappellano Maggiore, fasc. 1200, inc. I, f. 163.
    [59] A. MARZOTTI, Credito e investimenti nella Calabria del Settecento – Il Monte di Pietà di Seminara, Incontri Meridionali, a. 1981, nn. 1-2, pp. 163-189.
    [60]SASP, Libri del prot. dei notai Carlo Calogero, Antonino Capoferro, Giuseppe Antonio Calogero, Luigi Collura di Seminara, passim.
    [61] O. PARAVICINO, Synodus Diocesana Miletensis Secunda etc., Messanae 1693, cap. V, 10, p. 28.
    [62] G. M. GALANTI, Giornale di viaggio in Calabria (1792), Napoli 1981, p. 226.
    [63]  G. VALENTE, La Calabria nella legislazione borbonica, Chiaravalle C. 1977, p. 278.
    [64] Il Catasto onciario di Palmi trovasi in Archivio di Stato di Napoli, vol. N. 6280
    [65] Oltre che in Palmi e in Tropea troviamo dei d’Aquino in Cosenza, in Satriano e in Seminara.
    [66] I Grassi fiorirono anche in Squillace.
    [67] Per i Lacquaniti cfr. voce Mileto.
    [68] Per i Prenestino cfr. voce Nicotera.
    [69] Per i Sacco cfr. voce Monteleone.
    [70] Per i Soriano cfr. voce Monteleone.
    [71] Per i Fiori o de Fiore cfr. voce Cassano.
    [72] Per i Franchi o de Franchis cfr. voce Rossano. Il 18 marzo 1765, Cedolario 85, folio 637, a Enrico de Franco di Seminara fu intestata la Terra di Precacore, con il casale di Sant’Agata, con la bagliva e con la catapania, per successione al Barone Domenico, suo padre, deceduto il 29 novembre 1762. La Terra predetta era pervenuta a Domenico de Franco per vendita fattagli all’asta nel S.R.C., per D. 55.200, contro il patrimonio del Principe di Cosoleto Giuseppe Antonio Tranfo, con R. Assenso 15 giugno 1743, come al Cedolario 85, folio 241.
    I1 30 settembre 1766, Cedolario 85, folio 653, allo stesso Enrico de Franco fu intestato il FeudopPaterna, sito in territorio di Seminara, pervenutogli per vendita fattagli, per D. 3250, dal Barone Gaetano Spina, con R. Assenso 8 agosto 1758, registrato nel Quinternione 304, folio 56. Cfr. M. Pellicano Castagna, Le ultime intestazioni feudali..., cit.
    [73] Per i Grimaldi cfr. voce Polistena. Il P. Fiore da Cropani, op.cit., a cura di U. Ferrari, alle pagg. 352-354, così ne scrive: «Grimaldi: famiglia francese e nostra in Seminara e Catanzaro. Pepino Crasso Re di Francia sposò Pleriade figliuola di Grimaldo Duca di Baviera da’ quali, nel secondo parto, venne un maschio a cui, in memoria dell’avo materno, posero il nome di Grimaldo. Questi, divenuto Conte della Gallia belgica, maggior Signore della Francia e delI’Austrasia e Prefetto della cavalleria francese, gli successe Teobaldo et a lui Ugo Grimaldi di Monaco, già creato da Ottone primo Imperadore. Tutto questo è di Giovan Battista Ricciolo che lo trae da gravissimi scrittori e, singolarmente per la discendenza del sangue reale di Francia ne reca l’attestazione dell’hoggidì vivente Re di Francia Ludovico XIV il quale, in una lettera al Principe di Monaco, apertamente confessa egli e suoi antenati Principi di Monaco trarre la loro origine dal sangue reale di Francia per mezzo di Grimaldo figliuolo secondogenito del Re Pepino Crasso.
    A Grimaldo primo Principe di Monaco (siegue a dire il raccordato Riccioli) successe Guido Grimaldi et a questi Grimaldo suo fratello il quale venne seguito da Guido II Ammiraglio di Errigo IV Imperadore e questi da un altro Grimaldo e lui da Oberto il quale al Principato di Monaco aggionse la Baronia di S. Demitre nella Calabria superiore e fu maggiordomo dell’Imperador Federigo I. Venne lor dietro Grimaldo VII Principe di Monaco e Barone di S. Demitre l’anno 1218. Seguì Francesco VIII Principe e III Barone il quale fu Ciamberlano del Re Carlo primo. Ecco Raynerio IX Principe e IV Barone maggiordomo dell’Imperador di Constantinopoli il cui figliuolo, o Roberto o Bartolomeo od Angiolo, come diversamente si scrive, fu per Re Roberto VR in Calabria e spiccò il settimo ramo de’ Principi di Monaco. Perché il primo fu quel di Genova diramatovi da Grimaldo secondogenito di Grimaldo primo Principe. Il secondo fu quello de’ Signori di Policastro Duchi d’Evoli, Marchesi di Teano, Conti di Pola, di quei di Bologna, di Castro e di Cavelleroni, tutti successivamente originati da Iugo figliuolo d’Oberto V Principe. Portò il terzo ramo ne’ Signori di Castronuovo e Gutierres nel contato di Livio Oberto figliuolo del medesimo Oberto. Il quarto ramo lo spiecò, piantandolo nel Piemonte, Nicolò anche lui figliuolo d’Oberto. Diramò il quinto nel medesimo Piemonte Luchetto secondo genito di Grimaldo IV e VI Principe, procreando li Marchesi di Pietra Alta e Signori di Belforte. Andaron figliuolo di Francesco VII Principe nel sesto ramo generò i Conti di Bovesio e Panerano e Marchesi di Lavantio. Il settimo fu questo nostro, spiccato come sopra et hoggigiorno diviso in quei di Seminara et in quei di Catanzaro. Antonio, poi figliuolo di Rainerio e fratello o di Roberto o di Bartolomeo o d’Angiolo allargò l’ottavo ramo con li Signori d’Antipoli e Marchesi di Carbone a quali s’aggionse il nono ramo de’ Principi di S. Caterina et altri luoghi nella Sicilia diramatovi da Errigo sotto al regnare del Re Federigo II per detto di Filadelfo Mugnos.
    Hora de’ nostri Grimaldi le prime memorie viene a portarcele Rimbaldo, familiare del Re Carlo II e Castellano nel castello di Montileone il quale poi da Re Roberto l’anno 1318 ottiene in perpetuum sopra i fiscali della Provincia oncie 20 l’anno.
    L’anno 1470 Re Ferdinando concede a Francesco e Giovanni Grimaldi di Catanzaro il feudo del Ferro con provisione d’oncie otto l’anno vitalitie, così che l’uno succeda all’altro.
    L’anno 1480 il medesimo Ferdinando scrive alla vedova Marchese d’Errigo suo figliuolo che restituisca a Francesco Grimaldi docati trenta li medesimi imprestati dal Grimaldi a quegli e già lasciati in testamento. L’Imperador Carlo V sotto la data in Aquisgrano li 11 gennaro del 1531 crea Gavaliero e concede l’aquila nell’arma a Nardo, o vero Leonardo Grimaldi, quello che tempo avanti come Sindico della Città si era ritrovato presente nella sua coronatione in Bologna et di presente era pur esso Sindico della medesima per altri affari:
    Volentes te (sono le parole di Carlo nel privileggio) qui etiam Bononiae coronationi nostrae in Romanorum Imperatorem per Universitatem fidelissimae civitatis nostrae Catanzarij Sindicus ad nos adfuisti aliquo munere decorare, adstante magna Principum, Comitum, Baronum, Procerum et Aulicorum nostrarum turba, te Equitem aureatum arcito ense creavimus, quemadmodum tenore praesentium motu proprio et ex certa scientia, animoque deliberato et sano, ad hoc accedente consilio et regia aucthori tate nostra, Equitem aureatum creamus et equestris dignitatis cingulo decoramus, et omnia ad hunc ordinem pertinentia ornamenta concedimus et elargimur. Accingentes te gladio fortitudinis decernentesque et deinceps pro Equite aureato habearis. Praeterea ut status huiusmodi tuus militaris luculentius splendescat, tuaque etiam posteritas nostrae gratiae et magnificentia particeps efficiatur, arma tua, antiqua et quae hactenus deferre consuevisti confirmamus et approbamus eaque additione nostra nobiliora reddimus apponentes videlicet, in superiori armorum tuorum scuti parte, quae tertia sit aurea, sive crocea aquilam nostram nigram unius capitis, diademate nigro circumdati, ali caudaque expansis, pedibus protentis ore aperto et in dextera converso et in cono galeae communis clausae, tenijs sive lacinis aureis sive croceis et argenteis sive albis et viridibus redimitae super contortis eorumdem colorum fascijs, sive antiquorum Regum diademate anserem naturalis coloris in dextram prospecientem e cuius ore dicterium prodeat, non per più non poter, non quanto posso, quem admodum praesentius in medio latius depicta cernuntur... Volentes et aucthoritate nostra decernentes ut tu praefate Narde tuique heredes et descendentes in perpetuum huiusmodi insignijs deinde futuris temporibus insignium equestris dignitatis susceptae habere, et deferre, illisque in omnibus et singulis actibus, picturis horneamentis».
    [74] Per i Longhi o Longo cfr. voce Altomonte.
    [75] Per i Rossi cfr. voce Bisignano.
    [76] Per i Silvestri cfr. voce Galatro.
    [77] Per i d’Alessandro o d’Alessandria o Alessandri cfr. voce Monteleone. Nel 1772, Cedolario 86, folio 96, a Francesco Antonio d’Alessandro di Seminara fu intestato il Feudo Figurella sito in territorio di Seminara, pervenutogli per successione alla Baronessa Alfonsina Romano, di cui era nepote primogenito ed erede. Il 19 maggio 1801, Cedolario 87, folio 702, a Vincenza d’Alessandro Filippone di Seminara fu intestato il Feudo Moncoturni o Siderno, anch’esso sito in territorio di Seminara, per successione al fratello Barone Antonio, deceduto il 26 maggio 1799. Il Feudo predetto era pervenuto ad Antonio d’Alessandro senior, avo dell’intestataria, nel 1759, per successione alle famiglie Cavallo, Filippone e Scollino, la quale ultima l’aveva acquistato con R. Assenso del 7 agosto 1577. Alienato nel 1760, fu rivendicato nel 1770, come al Cedolario 97, folio 489. Cfr. M. Pellicano Castagna, Le ultime intestazioni feudali.., cit.
    [78]  Per i Marzano cfr. voce Bova.
    [79] Il 29 novembre 1776, Cedolario 86, folio 173, ad Agazio Mezzatesta di Seminara fu intestato il Feudo Cannavà o Pirara o Foria, sito in territorio di Seminara, per successione al Barone Francesco Antonio, suo padre, cui era pervenuto in seguito a transazione con il R. Fisco, nella sua qualità di erede di Cesare Mezzatesta, suo antenato, al quale il Feudo si diceva venduto dall’Università di Seminara. Cfr. M. Pellicano Castagna, Le ultime intestazioni feudali..., cit.
    [80] A metà del settecento, Cedolario 85, folio 378, a Mercurio Sanchez di Seminara fu intestato il Feudo Salica o Prato, sito in territorio di Seminara, per successione al Barone Antonio, suo padre, deceduto il 7 gennaio 1746. Il Feudo era pervenuto al predetto Antonio Sanchez per successione alla Baronessa Geronima Marzano, sua madre, deceduta nel 1710. Cfr. M. Pellicano Castagna, Le ultime intestazioni feudali.., cit.
    [81] Cfr. in proposito Un’aggregazione di nuove famiglie alle antiche della nobiltà di Seminara nel 1793, di Antonino Basile, in Archivio Storico per la Calabria e la Lucania, anno XVI pagg. 45 e segg.
    [82] Per gli Anile cfr. voce Galatro.
    [83] Il Catasto onciario di Seminara trovasi in Archivio di Stato di Napoli, vol. N. 6308.
    [84] Per i d’Aquino cfr. voce Palmi.
    [85] Per i Monizio cfr. voce Polistena.
    [86] Per i Satriano cfr. voce Mileto.
    [87] Per i Zangari cfr. voce Mileto.
    [88] Per i Tedeschi o Todeschi cfr. voce Montalto.
    [89] Per i Nesci cfr. voce Bova.
    [90] Per i de Lauro cfr. voce Rossano.
    [91] Dati, questi ultimi tre, ricavati da Antonino Basile, Il monastero di S Elia e di San Filarete presso Seminara, pagg. 159 e 966, Ibidem, anno XIV.
    [92] TACCONE GALLUCCI, Regesti dei Romani Pontefici, pag. 147.
    [93]Archivio di Stato di Napoli, Ministero dell’Interno, fs. 96/46.
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