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Glossario
dei
termini in uso nel Catasto Onciario di Seminara o dei riferimenti in esso
contenuti.
Una spiegazione, breve e succinta, di
termini presenti nel Catasto è attinta
da repertori vari e non sempre verrà indicata la fonte, o non verrà indicata se
trattasi di termini oggi desueti ma allora di uso comune e frequente. La
ricerca è in genere effettuata in rete. Avverto che non prevedevo di rendere
pubblici i miei "Materiali” di lavoro. Gli appunti spesso sono presi da
repertori disparati di cui non ho sempre segnato la fonte. Pertanto avverto che
possono esservi interi brani presi di peso da qualche pubblicazione
specialistica. Le voci che qui appaiono sono in parte selezionati ed estratti
da altri Dizionari specialistici del Materiali, che verranno poi pubblicati a
parte nella forma originiaria, salvo essere subito superato dalla riprese delle
ricerche. La selezione qui fatta ha lo scopo di aiutare l'intelligenza del
Catasto e degli Istituti in esso menzionati.
A.
Apprezzi: nel catasto onciario è la
stima dei beni dichiarati dai censiti (cosiddetta “rivele”, ossia
dichiarazione) fatta da esperti appositamente nominati.
Attrasso: erano detti in attrasso i
censi (v.) di cui non solo non era più possibile l’esazione per un determinato
anno contabile, ma che risultavano ormai non più pagati da parecchio tempo: in
genere si trattava di decenni, e magari di parecchi decenni. Per quanto
riguardava poi la giustificazione dell’attrasso, e comunque della inesigibilità
e illiquidità dei canoni, poteva trattarsi molto spesso di «partite litigiose»,
per vari motivi controverse e per le quali pendeva il giudizio nei fori
competenti; altre volte si trattava di partite decotte, cioè congelate
definitivamente, per conclamata miserabilità dei debitori, attestata di solito
con «fede di povertà» rilasciata dal parroco.
B.
Barone: «Non è dubbio, che un Signor
d’un castello si chiami Barone, & che Baronia si dica il castello, ò più
castella da quel Signor possedute; pur che insieme vadan congiunte, percioche
altrimenti più Baronie sarebbono. È ancor Barone voce generica, che sotto il
nome de Baroni, & i Conti, & i Marchesi, & i Duchi, & i
Principi, & in somma qualunque altro Signor di feudo s’intende, pur che ad
un supremo Principe sien sudditi. Onde si dice la prima, & la seconda
guerra de Baroni, quando una gran parte de i già detti Signori al Re Ferrante
si ribellarono. Ma i Signori assoluti d’Italia, o d’altre provincie diconsi
propriamente Principi, & non Baroni. Come questa voce significa dominio
& dignità, così volgarmente è quasi per tutta Italia presa molte volte in
cattiva parte; onde baroni di Campo di fiore si chiamano in Roma una certa
sorte di mascalzoni, i quali non havendo arte alcuna, ò se pur n’hanno, quella
non volendo esercitare, ne à servigi altrui impiegandosi, vivono di rubberie,
& di tristizie», così Scipione Ammirato, Delle famiglie nobili napoletane, Firenze, 1580, p. 27, che
prosegue l’illustrazione del titolo, piuttosto generico, fino alla pagina
successiva.
Bracciale: nella stratificazione
sociale del villaggio meridionale in età moderna lo strato più numeroso era
costituito dai “bracciali”. Talora erano anche possessori di piccole quantità
di terra, i cui redditi venivano integrati col salario ottenuto lavorando nelle
fattorie. I “foresi” erano bracciali che vivevano permanentemente in campagna.
La figura del bracciale è però difficile da definire: «poteva essere, a seconda
del luogo e dell’epoca storica trattata», un povero lavoratore salariato, un
piccolo proprietario o enfiteuta, ma anche un contadino benestante. Non può
essere semplicemente equiparato al moderno bracciante agricolo. Da Orlandi, che
cita varie fonti.
C.
Camera della Sommaria: il supremo
organo finanziario creato da Alfonso I.
Canonicato: Il canonicato era una
«dignità» che veniva conferita o dalla S. Sede o dal vescovo con o senza
riconferma pontificia a sacerdoti della diocesi, raramente di altra diocesi, e
in caso incardinati nella stessa diocesi. I canonici avevano l’obbligo della
residenza o, comunque, di assistere agli offici che si celebravano in
cattedrale e di intervenire alle assemblee capitolari. Godevano senza dubbio –
a prescindere dai diritti che loro derivassero dalla nascita – della nobiltà di
privilegio secondo quanto ribadito dal Dispaccio sulla nobiltà del 1756. Va
detto che siffatte “dignità” e “prebende”, se furono attribuite a sacerdoti
appartenenti a famiglie note e nobili, scelti «e primariis familiis», non
mancarono a chi proveniva da civili e perfino da umili natali. È indiscusso
tuttavia che l’influenza e il prestigio delle maggiori si manifestavano anche
attraverso il conseguimento di dignità canonicali. Queste presupponevano una
gerarchia, una gradualità, per cui ci è dato osservare, come alcune bolle
precisano, a fianco del titolo concesso, «seconda dignità», «quinta», «settima
dignità». Venivano spesso investiti di specifiche responsabilità i sacerdoti
laureati, i quali, evidentemente, per grado di preparazione meglio potevano ad
esse corrispondere, fino ad assolvere alla funzione di vicario generale o di
«luogotenente» del vescovo; ma non era la regola.
Bibliografia. – Bollari dei vescovi di Gerace, a cura di Franz von Lobstein con una
saggio introduttivo di Giuseppe Sorge, Chiaravalle Centrale, edizioni effeemme,
1977, pp. 47-49.
Cappuccini (Ordine dei PP): Nei primi
decenni del secolo XVI, tre Francescani Osservanti italiani – Matteo da Bascio
e i fratelli Ludovico e Raffaele Tenaglia da Fossombrone – si trovarono uniti
da un medesimo desiderio: vivere la loro vocazione dando maggiore importanza
alla contemplazione e all’osservanza pura e fedele della Regola di San
Francesco. L’intenzione iniziale non era tanto quella di fondare un nuovo
Ordine religioso, quanto di imitare San Francesco e i suoi primi compagni,
presi a modelli di vita.
Nel 1528, con l’aiuto della nipote di Papa Clemente VII, la duchessa
di Camerino Caterina Cybo - che li aveva ammirati per la carità con cui avevano
servito i malati durante la peste del 1525 - essi ricevettero l’autorizzazione
pontificia per vivere secondo quanto desideravano. Tra le altre cose Papa Clemente
VII aveva dato loro facoltà di vestire l’abito francescano con un cappuccio a
punta e di portare la barba – simboli questi di povertà, semplicità e
austerità. L’Ordine dei Cappuccini - che all’inizio furono chiamati "Frati
minori della vita eremitica" - deve il suo nome al cappuccio a punta
dell’abito. Ancora oggi essi si distinguono dagli altri Frati Minori per il
lungo cappuccio a punta e per la barba che molti di loro portano.
Matteo da Bascio, Ludovico e Raffaele Tenaglia non furono i soli Francescani
del tempo ad avvertire la necessità di una riforma dell’Ordine. Poco dopo aver
ricevuto la bolla papale Religionis zelus (3 Luglio 1528), molti altri
francescani dell’Osservanza iniziarono ad unirsi ai riformati, tra i quali i
nomi insigni di Giovanni da Fano, Bernardino d’Asti e Bernardino Ochino, i
quali sarebbero stati le colonne della nuova famiglia francescana. L’ingresso
di questi frati nell’Ordine comportò anche lo sviluppo nel ministero. Infatti,
mentre i primi Cappuccini erano impegnati soprattutto nel lavoro manuale,
questi ultimi arrivati diedero grande importanza alla predicazione e agli
studi, senza tuttavia indebolire lo spirito di preghiera e l’austerità. Le due
forme di lavoro – manuale e apostolico – coesistono ancora oggi nell’Ordine.
La Riforma Cappuccina ebbe un rapido sviluppo numerico: cinquant’anni
dopo l’Ordine contava più di 3500 frati. Il 1600 e 1700 sono "i secoli
d’oro" della loro espansione. Intorno al 1761 il numero dei Cappuccini
raggiunse la vetta di 34.000 unità, sparsi in tutta Europa, nelle Americhe,
India e Africa del Nord.
All’inizio del 1999 la statistica riporta quasi 11.000 Frati
Cappuccini presenti in 92 paesi del mondo: è il quarto Ordine maschile più
numeroso.
In tutta la sua storia, l’Ordine Cappuccino ha avuto molti frati la
cui santità è stata riconosciuta anche dalla Chiesa, da San Felice da Cantalice
(1517-1587), canonizzato nel 1712, fino a padre Pio da Pietrelcina (1887-1968),
recentemente beatificato, e cinque frati tra i 108 martiri di Auschwitz, beatificati
da Papa Giovanni Paolo II il 13 Giugno 1999. In tutto, essi vantano 10 Santi e
25 beati, mentre anche altre Cause di Canonizzazione sono in corso.
I ministeri e servizi dei Frati Cappuccini sono vari e numerosi
secondo le situazioni in cui essi stessi si vengono a trovare. Ci sono
professori e sarti, consiglieri spirituali e cuochi, predicatori, cappellani,
parroci e medici…ma più importante di quello che fanno è la maniera in cui lo
fanno. Come indica la locuzione "Frati minori", l’intento dei Cappuccini
è quello di essere fratelli ai piedi di tutti coloro che essi stessi servono.
L’affabilità e la disponibilità ad andare là dove sono più richiesti e
il loro modo di lavorare e di vivere ha meritato loro l’appellativo di
"Frati del popolo".
Per saperne di più sull’Ordine Cappuccino visitate i siti elencati
sulla nostra pagina Links. (Dal sito ufficiale dei PP. Cappuccini).
Casa
palaziata: «La casa
palaziata si sviluppava in genere su due o più piani: il proprietario collocava
la sua residenza al primo piano. Al piano superiore risiedevano gli altri
membri del fuoco, quali sorelle e fratelli non sposati. Alcuni locali del piano
terra erano riservati dal proprietario per uso proprio come magazzini di
deposito e cantine per conservare il vino. In alcuni casi i benestanti
preferivano locare i loro immobili ed abitare in case fittate più ampie,
pagando anche cospicui canoni.» (fonte)
|| Casa palazziata: vi abitava il magnifico (v.). Il tipo
più diffuso di “casa palazziata”, detta anche “soprana”, cioè fornita di stanze
poste al piano superiore, si differenziava dalla semplice “casa” per la ricerca
dell’isolamento e per le dimensioni dei locali, ma soprattutto per l’adozione
di elementi architettonici specifici (come il portale d’ingresso sulla pubblica
via, o come il cortile, presente nelle case palazziate più grandi). Della casa
palazziata esisteva tuttavia un versione ridotta, la “casetta palazziata”. Come
pure, in alcuni luoghi, per esempio ad Acquaviva delle Fonti nel 1653, erano
segnalate «case palazziate con cortili grandi, coverti e scoverti, gradiate,
loggette, et altre commodità ad uso della città di Napoli». Da G. Orlandi.
Catasto onciario:
Nella prima metà del Settecento, in molti stati italiani si volle realizzare un
vero e proprio censimento delle persone e della ricchezza, con lo scopo di
poter distribuire il carico fiscale in maniera più equa ed uniforme. Nel regno
di Napoli, il complesso di questa rilevazione, voluta da Carlo di Borbone,
prese il nome di catasto onciario, –
detto così dalla moneta di conto che fu presa a base della valutazione, l’oncia. L’operazione, pure attraverso
numerose difficoltà, tra cui, maggiore, l’opposizione della nobiltà e del
clero, ebbe un notevole successo, testimoniato da ben novemila volumi che sono
custoditi nell’Archivio di Stato di Napoli, e che riportano una quantità di
dati preziosi da permettere una ricostruzione, comune per comune, delle
condizioni di vita, della consistenza della proprietà privata, demaniale,
feudale, e della ricchezza immobiliare e mobiliare delle popolazioni. Fasi
preliminari del documento finale che va sotto il nome di catasto onciario
sono le rivele e gli apprezzi. Le prime sono le dichiarazioni
giurate dei censiti; i secondi sono la valutazione dei beni dichiarati fatta da
periti appositamente nominati. || Riporto l’informazione che segue, avendola
ripresa dalla Rete in un sito dedicato alla storia del Comune di Rogiano, in
provincia di Cosenza, ed adattandola opportunamente alle esigenze di questi
“Materiali”. Manca purtroppo (o non riesco io a trovare) il nome dell’Autore
della nota. Trattandosi di informazione generale sulla struttura e la storia
del catasto onciario i dati che seguono valgono anche per il catasto onciario
di Seminara, che reca la data del 1746. Quindi per la redazione del catasto
seminarese non dovettero esservi quelle difficoltà che altrove ne ritardarono
la compilazione. Si apprende dalla nota seguente che il “catasto onciario”,
ovvero il documento finale che seguiva ad una serie di atti preparatori, veniva
prodotto in duplice copia, della quale una restava all’università. || a) Catasto Onciario: Struttura. – Carlo III
di Borbone, appena cinque anni dopo la sua incoronazione a re di Napoli e di
Sicilia, per porre fine ai disordini provocati dal rapace governo spagnolo e
per assicurare una più equa ripartizione del carico fiscale tra i cittadini del
regno, ordinò con dispaccio del 4 ottobre del 1740 la compilazione dei Catasti
in tutte le città del Regno. A quel dispaccio seguirono le “istruzioni” emanate
dalla Regia Camera della Sommaria tra il 1741 e il 1742, integrate e modificate
con successive istruzioni, avvenute in conseguenza del concordato concluso tra
la Santa Sede e Carlo III nel 1741, riguardanti il trattamento da usarsi nei
confronti degli enti ecclesiastici. Delle “istruzioni” contenenti le norme per
la compilazione del catasto, detto onciario , e la liquidazione della tassa
furono rese esecutive il 28 settembre 1742. Il catasto venne redatto in doppio
esemplare, uno destinato all'università stessa, l’altro con tutti gli annessi (preliminari,
apprezzi, rivele) al grande Archivio della Camera della Sommaria
di Napoli. Con queste ultime istruzioni si concludeva il complesso normativo
per la formazione del Catasto Generale. In esso era fissato anche il termine di
quattro mesi per il completamento del detto catasto, rispettato in pratica solo
da poche università. Ad una sollecita esecuzione si opponevano, oltre che la
volontà dei contribuenti a denunziare i loro beni, la imperizia degli amministratori,
la debolezza e la scarsa efficienza del governo centrale. L’opposizione
maggiore veniva, però, da quei comuni che vivevano a gabella, facevano cioè,
fronte ai tributi e alle spese comunali con il ricavato dei dazi sui consumi e
con altre entrate indirette. Infatti si rese necessario nel 1753, a più di
dieci anni dall’ordinanza l’invio di commissari per completare o realizzare i
catasti di quelle città che non avevano adempiuto alle istruzioni governative;
Roggiano era tra le città inadempienti. A quell'epoca risale la compilazione
del Catasto Onciario di Roggiano Gravina. La complessa struttura del catasto
onciario è articolata in quattro parti: atti preliminari, apprezzo,
rivele, onciario. La formazione del catasto, come si legge nelle
prime istruzioni, è demandata agli amministratori, sindaci ed eletti che
compongono il corpo della università. Agli stessi competono gli atti
preliminari; si tratta di bandi, ordini, inviti, processi verbali, attestazioni
varie che si susseguono secondo le formule delle “istruzioni”, in modo da
formare un processo degli atti. Il primo riguarda la formazione e l’esibizione
delle rivele, di cui diremo in seguito. Il secondo riguarda la convocazione del
pubblico parlamento per la elezione di sei deputati: due del primo ceto, due
del mediocre e i restanti due del dell’inferiore e di quattro estimatori: due
cittadini e due forestieri. Altri atti che gli amministratori dovevano
produrre, erano l’attestazione del “patrimonio sacro” dei sacerdoti, la
designazione di due deputati ecclesiastici da affiancare a quelli laici e gli
“stati d’Anime”, essenziali ai fini del completo rilevamento catastale e al
controllo delle rivele. Ancora da allegare sono gli “stati discussi”, e una
fede giurata degli amministratori riguardo i beni, sia feudali che
burgensatici, del feudatario. Infine altri atti riguardano eventuali reclami,
l’Apprezzo dei beni e la discussione delle rivele dei deputati e degli
estimatori (a cura di altri deputati ed estimatori a loro volta eletti dal
popolo). L’apprezzo del catasto riguarda solo gli appezzamenti
agricolo-forestali compresi nel territorio dell’università; non è contemplato
l’apprezzo dei fabbricati, come risulta dalla apposita norma delle istruzioni.
Gli Estimatori sono i principali artefici di questa parte del catasto. Questi
devono essere “agrimensori, apprezzatori, ben esperti ed intesi della Terra
dove si forma il Catasto” . Secondo la norma l’apprezzo deve essere generale e
andava fatto sia per i beni ecclesiastici che quelli feudali, anzi andavano apprezzati
anche quelli esenti, in modo da evitare “ogni via di frodo e occultazione”.
L’apprezzo era meramente descrittivo: non era richiesta, infatti, alcuna
rappresentazione geometrica degli appezzamenti e tanto meno una mappa generale
del territorio. Il libro dell’apprezzo raccoglieva le partite descritte dalle
note giornaliere degli apprezzatori, dette “squarciafogli”, nonchè i tipi di
coltura, i fabbricati rurali esistenti ed i toponimi della contrada, dove quei
terreni erano ubicati. Dunque esso conteneva gli enunciati più importanti per
identificare il paesaggio agrario sottoposto all’esame degli apprezzatori. Le
Rivele, regolate dall’apposito bando erano abbastanza simili al nostro modello
740, e andavano redatte secondo un modulo dettato nelle Istruzioni. Ogni rivela
è espressa in prima persona da ogni cittadino, anche se non possessore di beni.
Si apre con lo stato di famiglia: nome, cognome, relazione di parentela,
patria, arte o condizione, età. Inoltre andavano indicate le figlie sposate,
anche se non conviventi, ed eventuali servi o garzoni. Esse contenevano anche
altre indicazioni: i beni mobili ed immobili, i pesi cioè le passività in
genere ed infine se la casa di abitazione era di proprietà o se era presa in
fitto. Alle rivele raggruppate alfabeticamente secondo le categorie stabilite
(cittadini e forestieri, laici ed ecclesiastici, abitanti e non abitanti),
veniva allegato il cosidetto “spoglio”, ovvero la trascrizione della Rivela
espressa in terza persona. Esso è il documento base per la discussione della
rivela, in cui erano segnate le annotazioni riferite dall’apprezzo, le
correzioni, le eventuali aggiunte. Lo svolgimento della discussione era
contemplato precisamente dalle istruzioni. Particolare attenzione è
raccomandata per la rivela del barone, sia per riguardo alla sua persona sia
per riguardo ai suoi beni. In base agli spogli discussi si formeranno le
partite da inserire nell’onciario. Dalle istruzioni non erano richiesti
esplicitamente la firma o il segno di croce: solo i deputati e gli estimatori
avevano l’obbligo di firmare e datare la discussione di ogni rivela. Sia nelle
rivele che negli spogli i valori dei proventi dei beni rappresentavano la
“rendita” ed erano espressi in ducati e frazione di essi. Secondo alcuni
storici la maggiore novità del Catasto Carolino consisteva non tanto sulla
proprietà, ma sulla rendita. L’Onciario è il documento conclusivo del
Catasto. In esso si susseguivano in ordine alfabetico onomastico le partite
catastali. Queste, riproducendo, sostanzialmente gli spogli delle rivele,
contengono in linea di massima le seguenti indicazioni: Stato di famiglia, il
testatico, la tassa sui mestieri (once d'industria), la casa di abitazione, le
case date in fitto, i terreni, il denaro impiegato in negozio o mercanzia, i
capitali e censi enfiteutici , gli animali, i pesi (debiti, censi, ed altre
passività). I tributi riguardavano, con le dovute distinzioni, la maggioranza
dei contribuenti cittadini, tranne le donne immuni da tributi personali. La
prima distinzione veniva fatta tra cittadini e forestieri, i primi costituivano
“fuochi”, i secondi venivano inseriti nel catasto o perchè risiedevano nel
comune o perchè vi possedevano dei beni. Una seconda distinzione veniva fatta
tra laici ed ecclesiastici (sia che si trattasse di persone fisiche che di
istituzioni religiose). In base a queste due fondamentali distinzioni si
avevano le seguenti categorie di persone da accatastare: a) Cittadini abitanti
e non abitanti: erano tenuti al pagamento del testatico i soli capofamiglia e
della tassa sui beni i soli maschi da 14 anni in poi (i sessagenari erano
esenti).
Erano altresì esenti da testatico
e dalla tassa sul lavoro coloro che vivevano di rendita o di proprietà; i
nobili. b) Anche le vedove e le vergini erano esenti dal testatico e
dall'imposta sul lavoro e pagavano per i beni solo se la rendita superasse i
sei ducati. c) Gli ecclesiastici secolari pagavano solo per quella parte di
rendita che superasse i limiti entro cui era fissato nella diocesi il
patrimonio sacro, che doveva restare esente. d) I forestieri: essi pagavano la
tassa sui beni detta bonotenenza e uno ius abitationis di 15 carlini. e) Gli
ecclesiastici secolari comparivano nel catasto solo per quella parte di rendita
che superasse il massimo consentito come patrimonio sacro. f) Le chiese, i
monasteri e i luoghi pii erano tenuti al pagamento della tassa per metà. g) I
forestieri non abitanti laici: anche se non abitanti, ma proprietari di beni
nel comune, dovevano pagare la “bonotenenza”. h) I forestieri non abitanti
ecclesiastici: dovevano pagare la tassa sui beni, sempre che gli stessi
superassero la rendita immune come patrimonio sacro. – Il feudatario veniva
tassato solo per i beni burgensatici e poteva rientrare in tre diverse
categorie: nella prima se costituiva “fuoco” dell’università; nella seconda se
abitava nell’università; nella terza se non costituiva fuoco e non abitava
nell’università. Secondo il legislatore del tempo sotto la generica
denominazione di “beni”, andavano considerati innanzitutto gli immobili: i
terreni, le case, i molini, i trappeti e via dicendo, con l’avvertenza che le
case di proprietà erano esenti da tasse. Il legislatore avvertiva che doveva
essere annotato anche l’interesse di denaro dato a prestito, o investito in
altre attività. Inoltre si avvertiva che l’imprenditore, se forestiero, doveva
pagare la tassa nell’università di cui era cittadino e non in quella in cui
investiva il proprio denaro. Non era trascurato neppure il possesso di animali
la cui rendita veniva tassata al 10%. Anche per essi il proprietario era tenuto
a pagare nel Comune in cui era cittadino e non in quella dove praticava la sua
attività armentizia. Questo facilitava le frodi, in quanto gli apprezzatori,
non erano gli stessi da comune a comune. Questi sono i beni descritti
nell’Onciario, la cui rendita, espressa in ducati e frazioni di ducati, veniva
poi tradotta in once nella “collettiva generale delle once”. – Letteratura: CENTRO STUDI A. GENOVESI,
Il mezzogiorno Settecentesco attraverso i Catasti Onciari, Napoli 1986; A.PERELLA, L’eversione della feudalità nel napoletano,
Campobasso 1909; D. CIARALDI, Sopra i difetti del catasto del Regno di Napoli.
Napoli, Orsino 1795. B) Catasto onciario:
ricostruzione del centro storico del comune di Rogiano sulla base dei dati
ricavabili dal suo catasto onciario. Si riportato qui di seguito, traendoli
dalla stessa fonte indicata in a, dati relativi per il comune di Rogiano, nella
speranza che essi possano risultare utili per una analoga ricostruzione del
centro storico dell’antica Seminara totalmente distrutta dal terremoto del
1783. || b) La serie completa dell'onciario si trova presso l'Archivio di Stato
di Napoli, nel fondo della Regia Camera della Sommaria, che era la magistratura
centrale del regno preposta ai lavori per la formazione del catasto. Ciascun
catasto consta di uno o più volumi a seconda della grandezza del comune: per le
università più piccole le rivele, gli apprezzi ed il catasto formano un unico
volume; per le più grandi costituiscono volumi distinti. La denominazione di
questo catasto deriva da oncia, che
era una moneta di conto, non reale, in base alla quale si calcolavano i redditi
e le relative imposte. Nel 1749 Carlo III fece coniare una nuova moneta
denominata oncia napoletana, del valore di sei ducati, che, tuttavia, ebbe
scarsa diffusione, in quanto si continuarono ad usare il ducato ed i suoi
sottomultipli: il carlino, che era la decima parte di un ducato, la grana, che
era la centesima parte, ed il cavallo, che era la millesima parte. L'oncia,
usata per il calcolo del reddito imponibile, equivale a tre carlini; quando si
riferisce, invece, a reddito proveniente da animali, equivale a sei carlini.
Passiamo ora ad esaminare come è organizzato il catasto onciario. I proprietari
sono divisi per categorie: i cittadini, le vedove e le vergini in capillis (vale a dire le nubili che
non avevano preso i voti religiosi), i forastieri abitanti, i forastieri non
abitanti bonatenenti (coloro che possedevano beni nel comune senza risiedervi),
gli ecclesiastici secolari tanto cittadini che forestieri, le chiese e i luoghi
pii, sia locali che forestieri. Nell'ambito di ogni categoria i contribuenti
sono elencati in ordine alfabetico per nome e non per cognome. Le imposte
previste dall'onciario erano di tre tipi: il testatico, che gravava sui
capifamiglia, ad eccezione di coloro che avevano compiuto i sessant'anni, ed
era uguale per tutti (in genere ammontava ad un ducato per fuoco); l'imposta
sui redditi da lavoro - sull'industria - che gravava sui soli maschi a partire
dall'età di quattordici anni (dai quattordici ai diciott'anni si pagava la
metà), che era calcolata in base al reddito presuntivo previsto per i vari
mestieri e non in base al reddito reale; l'imposta sui beni, che gravava sugli
immobili (case, terreni, mulini, frantoi, ecc.) sul bestiame e sui capitali
dati in prestito ad interesse. Dal testatico e dall'imposta sul lavoro erano,
esonerati coloro che vivevano more
nobilium, cioè di rendita, o che esercitavano professioni liberali.
Paradossalmente, il bracciale veniva tassato per la sua industria ed il notaio
no. Il catasto fornisce dettagliate informazioni sui beni dei contribuenti:
delle abitazioni è descritta la tipologia, l'ubicazione, spesso anche la
grandezza ("casa palaziata", "comprensorio di case di vani ...
soprani e sottani"); dei terreni sono indicati i confini, l'estensione e
la natura delle colture; vi è quindi la descrizione degli eventuali capi di
bestiame. All'elenco dei beni segue quello dei pesi, costituiti, in genere, dal
pagamento di censi e canoni agli enti ecclesiastici e al feudatario e da
interessi su capitali presi in prestito. Il catasto fornisce altresì
dettagliate informazioni sui nuclei familiari, indicando, per ciascuno di essi,
il numero dei componenti, la loro età, l'attività svolta ed il rapporto di
parentela con il capofamiglia. Il catasto si conclude con la collettiva delle
once, vale a dire con l'elenco dei contribuenti, divisi per categoria, e delle
rispettive rendite. Una fonte così ricca di informazioni si presta ad una molteplicità
di usi: l'onciario è stato studiato per ricerche demografiche, sulla famiglia,
sulle professioni, sulle abitazioni, per ricerche di toponomastica, sul tessuto
urbano, sul paesaggio agrario e sull'assetto del territorio o per studi di
natura più prettamente economica, quali la composizione e la distribuzione del
reddito, le attività produttive e la relativa stratificazione sociale. (Scheda
riassunta da sito ASSA)
– Un’analisi dettagliata e
precisa del nuovo sistema impositivo che rappresentò un qualcosa di
rivoluzionario per le popolazioni e le municipalità del meridione, è fornita da
Domenico Cedrone, nella sua opera sul catasto di Gallinaro. " Erano soggetti alla tassa tutti i terreni
del Regno nella misura del cinque per cento sul reddito annuo, ovvero tre
carlini ad oncia, dedottene le spese di coltivazione. Erano esenti i beni
feudali e i terreni appartenenti al patrimonio sacro, secondo il concordato,
purché questi ultimi non avessero una rendita inferiore a ducati 24 e non
superassero la rendita di ducati 40, dei quali però si doveva fare la rivela.
La casa adibita a propria abitazione era immune da tassa, delle altre si
tassava il reddito del fitto, detratte le spese di manutenzione. Gli animali
che formavano l’oncia d’industria erano tassati al 10 per cento, fatta
eccezione degli animali ‘ad instructionem feudi’ perché facevano parte dei beni
feudali ed erano esenti. Erano tassati il denaro che si aveva in commercio e i
censi attivi. Per quanto riguarda i cittadini, oltre a pagare per i beni
posseduti, erano tassati anche per la testa nella misura di un ducato (questa
tassa era dovuta dal solo capofamiglia) ed in più erano tassati per l’industria
o arte che esercitavano. Erano esenti per il ‘testatico’ tutte le persone che
vivevano nobilmente o con la rendita dei propri averi e tutti coloro che
esercitavano una professione nobile, ovvero medici, dottori di legg e, giudici e notai. Non pagavano i 10 carlini i
sessagenari e i minori di 18 anni. L’esenzione però era limitata ai dieci
carlini e, nel caso l’università non riusciva a fare il ‘pieno’, dovendosi
aumentare la tassa della testa, gli esenti, eccetto i minori di diciotto anni
che ‘de jure non sono sottoposti al pagamento di testa in qualsivoglia somma
venga la medesima tassata’, dovevano contribuire pagando la quota eccedente i
dieci carlini. Per quanto riguarda la tassa dell’industria o dell’arte, essa
non era uguale per tutti ma differente per categoria: gli speziali ed i
procuratori erano tassati per once 16; i suonatori, massari, cucitori,
calzolai, barbieri e bottegai per once 14; infine i vatecali, potatori,
ortolani e bracciali per once 12. Le once d’industria dovevano essere pagate
anche dai lavoratori compresi nella fascia di età tra i 14 ed i 18 anni in
ragione della metà. Non erano tenute a pagare il testatico e la tassa del
mestiere le donne e le persone che vivevano nobilmente. Le persone che pagavano
le tasse erano suddivise in: forestieri bonatenenti che contribuivano alla
tassa dei carlini 42 per fuoco per quanti erano i fuochi fiscali
dell’università; forestieri abitanti che, oltre a contribuire alla tassa per i
fuochi, pagavano anche lo ‘jus habitationis’ nella misura di 15 carlini ed in
più contribuivano a pagare alcune spese ‘comunitative’; cittadini
dell’università i quali dovevano contribuire a coprire tutti i pesi che essa
sopportava. Per quanto riguarda il clero, si hanno due categorie: gli
ecclesiastici ‘in minoribus’ e gli ecclesiastici ascesi agli ordini sacri: i
primi dovevano pagare per i beni posseduti a seconda della categoria di
appartenenza (forestieri bonatenenti, forestieri abitanti o cittadini), ma non
pagavano il testatico e la tassa delle once d’industria. Gli ecclesiastici
ascesi agli ordini sacri erano tassati solamente per l’eccedenza del patrimonio
sacro. I beni appartenenti ai luoghi pii, secondo il concordato, erano tassati
per la metà se i beni erano stati acquistati prima del concordato e per intero
se erano stati acquistati dopo. Non erano soggetti a tassa i beni di seminari,
parrocchie e ospedali. Vi erano poi delle persone che godevano di alcuni
privilegi che davano diritto ad una esenzione totale o parziale (cittadini
napoletani, padri onusti di dodici figli, gli abitanti di Cave). La formazione
del catasto onciario, molto elaborata e complessa, avviene attraverso una
sequenza di atti prescritti nelle prammatiche emanate dalla Regia Camera. Le
disposizioni emanate con la prammatica I, che poi erano le prime istruzioni,
risalgono al 17 marzo del 1741; esse riguardavano gli atti preliminari spettanti
alle università ed erano: atti, apprezzi e rivele che una volta portati a
termine, dovevano essere inviati all’autorità centrale a cui spettava la
formazione dell’onciario, cioè la determinazione del censo da pagare. Ma, a
poca distanza di tempo, nel mese di giugno dello stesso anno, Carlo III, nella
sua lotta contro il potere ecclesiastico, giungeva ad un concordato con la S.
Sede, il che comportò una serie di integrazioni e modifiche delle prime
istruzioni. La Regia Camera integrò le prime istruzioni con disposizioni che
vanno sotto il nome di ‘Avvertimenti’ e il 23 di agosto stabilì di inviarle a
tutte le università del Regno con l’ordine di immediata esecuzione delle stesse
ed in più decretò di affidare il compito alle stesse università per la formazione
dell’onciario. Questa decisione sarà molto criticata da giuristi ed economisti
in quanto, rimettendo il tutto ad una commissione eletta dal parlamento
cittadino, veniva a mancare l’obiettività reale dell’operazione. Queste seconde
istruzioni furono inviate alle università il 28 settembre del 1742, concedendo
quattro mesi di tempo per il completamento delle operazioni. Il ‘librone
dell’onciario’ doveva essere redatto in doppio esemplare, uno destinato alla
stessa università, l’altro, corredato da tutti gli annessi (preliminari,
apprezzo, rivele, atti), doveva essere inviato al grande Archivio della Camera
della Sommaria di Napoli.
Censo bollare: era anch’esso perpetuo (v. infra, voce ad hoc) per
quel che riguardava la durata (ma era anch’esso redimibile) e, come il
perpetuo, gravava, almeno in linea di principio, su un immobile. Ma ben diversa
ne era l’origine, benché, a conti fatti, le conseguenze dei due tipi di censo
fossero simili. Per contratto bollare (dalla bolla di Nicolò V del 1452 che
consentì certi tipi di prestito) si intendeva quel contratto per cui taluno
concedeva a un altro una somma di denaro capitale, obbligandosi a non
richiederla in restituzione, acquisendo però il diritto (perpetuo se il censo
non veniva redento) a un’annua prestazione su
un bene immobile del debitore; non si trattava, come potrebbe sembrare, di
una specie di garanzia ipotecaria, giacché protagonista del rapporto
economico-giuridico non era l’immobile del debitore, ma il capitale anticipato,
di cui l’operazione di censo bollare rappresentava una destinazione a fini di
investimento produttivo. A un contratto del genere, che noi non possiamo non
ritenere palesemente feneratizio, solo la clausola dell’irrepetibilità del
capitale poteva togliere l’odore di usura simulata, anche se si comprende il
bisogno di cautelarsi nel concedente. La facoltà di redenzione del censo da
parte del debitore veniva sempre ribadita (ad esempio, per il regno
meridionale, nel 1574 da Gregorio XIII). Che in censo bollare fosse ritenuto
una tranquilla forma di investimento si evince dal fatto che chi concedeva il
capitale era considerato l’acquirente: cioè, invece di acquistare fondi o
immobili, acquistava “annue entrate”; venditore era invece chi aveva bisogno
del prestito. In un periodo e in un contesto economico-sociale, nel quale ogni
fonte di reddito era vista legata alla terra e nel quale più evidente era la
necessità del prestito (per la scarsezza di numerario, per l’ascesa dei prezzi,
per l’assenza di istituzioni creditizie, per la miseria delle classi più umili
o per le necessità delle classi superiori, o indebitate o intente a grandi investimenti
terrieri), il contratto bollare ebbe grande diffusione, e con vari nomi: compra
di annue entrate, censo bullale, quandocumque, soggiogazione, ecc.
Censo perpetuo: era un corrispettivo
annuo dovuto agli enti ecclesiastici per beni immobili un tempo di loro
pertinenza, ma poi trasferiti
in proprietà ad altri. Si distingue
nettamente da altre forme di rendita, quali gli
affitti, che erano
corrispettive a immobili ancora di piena proprietà degli enti. Il censo
perpetuo era detto anche reservativo intendendo con questa dizione un contratto
per cui qualcuno, nel cedere ad altri la
proprietà
di un immobile, si riserva una pensione annua. Insomma, rispetto ad altre forme
somiglianti di contratti, come la colonìa perpetua, l’enfiteusi, il livello, ecc.
(v.), il censo perpetuo era, per così dire, il penultimo stadio di un processo
che giunge alla proprietà piena e libera quale noi la intendiamo oggi. Nel
censo perpetuo si aveva il passaggio della proprietà piena all’acquirente,
senza che quest’ultimo fosse tenuto ad altra prestazione e ad altro obbligo che
non fosse l’annuo canone; e del resto, essendo l’onere legato alla
res e, non alla persona, lo stesso si
elideva o scemava se il bene si deprezzava per un qualunque motivo. L’istituto
– scarsamente studiato
–
era già antico al momento dell’istituzione della Cassa Sacra: nelle platee di
alcuni enti ecclesiastici del ‘600 e del ‘700 si parla di censi enfiteutici
riscossi «ab immemorabili» su terre che le stesse fonti non riescono più in
alcun modo ad individuare; circostanza che sarebbe inspiegabile se si trattasse
di vera enfiteusi perché sarebbe inspiegabile un proprietario (l’ente
ecclesiastico nel nostro caso), che perdesse di vista le
sue proprietà date a coltivazione; ma la cosa si spiega benissimo
se si pensa che, trasferita ab immemorabili la
proprietà ad altri con contratto di censo perpetuo, gli enti si
interessavano solo della riscossione del canone censuario loro dovuto, senza
preoccuparsi di seguire le sorti del fondo censuato, ormai praticamente
alienato. I casi concreti individuabili stanno a dimostrare che il censo
perpetuo era il corrispettivo di un’alienazione già avvenuta. || «Il censo
perpetuo, detto anche reservativo, è un canone annuo
in perpetuum versato da una controparte alla Chiesa, come
corrispettivo dell’avvenuta alienazione di un fondo, senza alcun obbligo (in
realtà il contratto non è altro che una compravendita) ad eccezione della
prestazione annuale, fissa e perpetua, dovuta dall’immobile o da chi lo
possiede, ed a qualsiasi titolo. In censo bollare, invece, anch’esso fisso e
perpetuo, è il corrispettivo annuale di un capitale concesso al privato e senza
obbligo di restituzione da parte della Chiesa, che acquisisce il diritto di un
versamento annuale su un bene immobile del debitore. È un diritto che colpisce
eredi e successori, ove non si estingua il debito restituendo il capitale».
Chiese: ve n’erano 32 all’epoca del
racconto di Tiberio d’Aquino, nel 1785. Vengono elencate: la chiesa di San
Leonardo [Libro dei Matrimoni, anno 1657] (1), la chiesa di San Giorgio [√]
(2), la chiesa di Santa Maria della Pace (3), la chiesa di Santa Maria della
Sanità [L.M. 1759, p. 57a] (4), la chiesa di San Pietro [√] (5), che era
giuspatronato fondato da casa d’Aquino, la chiesa di Santa Maria dei poveri [√]
(6), la chiesa dei padri domenicani (7), la chiesa di Santa Maria della Scala
[√] (8), la chiesa di Santa Maria del Carmine (9), la chiesa di Santa Maria
dell’Arco [√] (10), la chiesa di Santa Maria del Soccorso [√] (11), la chiesa
di Santa Maria delle Grazie [√] (12), la chiesa dei padri basiliani sotto il
titolo di San Filareto fuori le mura (13), la chiesa dei padri cappuccini [√]
(14), la chiesa dei padri [minori] osservanti sotto il titolo di Santa Maria
degli Angeli [√] (15), la chiesa delle monache sotto il titolo di San Mercurio
(16), la chiesa di San Marco Evangelista [√] (17) sede di una confraternita
numerosissima, la chiesa dei padri paolini sotto il titolo di San Francesco di
Paola [√] (18), la chiesa di San Nicola [√] (19), la chiesa di Santa Barbara
[√] (20), la chiesa di San Basilio [√] sotto il titolo delle Anime del
Purgatorio (21), la chiesa dello Spirito Santo [√] con il suo Ospedale (22), la
chiesa di San Rocco (23) che era attaccata a quella dello Spirito Santo [√] e
dove si tenevano i parlamenti della città, la chiesa di San Francesco d’Assisi
[√] (24), la chiesa di Santa Maria dei Miracoli [√] nel Borgo (25), la chiesa
di Sant’Anna [√] (26), la chiesa di San Michele Arcangelo [√] (27) dove aveva
sede un’altra Congregazione, la chiesa delle Monache della Santissima
Annunziata (28), la chiesa di Santa Maria della Consolazione (29), la chiesa di
Santa Maria della Germania fuori le mura (30), la chiesa di Santa Maria della
neve [√] (31), fuori le mura a circa 2 miglia della città di proprietà degli
Spinelli, un’altra chiesa (32) che si trovava fuori in campagna. Precede
l’elenco di tutte queste chiese la chiesa madre, lunga 285 palme e larga 85. Le
chiese risultano 33, se vi si comprende quella elencata per ultimo da Tiberio
d’Aquino, senza darne il nome: «un’altra chiesa fuori in campagna».
Collegiate: molte chiese ricettizie
(v.) erano sta elevate a
collegiate o
abusivamente avevano assunto nome e prerogative dei capitoli collegiati,
specialmente durante il Decennio. E la cosa non era priva di significato per i
riflessi di natura giuridica, perché in tal caso le chiese si liberavano del
patronato,
ricadevano sotto la diretta dipendenza del vescovo e della S. Sede, e i loro
beni si configuravano non di natura laicale ma ecclesiastica. È probabile che
alcune chiese ricettizie per sottrarsi alla ingerenza dei rispettivi
patroni
laici (Comuni e famiglie) avessero richiesta la elevazione a
collegiata allo
scopo di godere di privilegi e di insegne onorifiche proprie di tali enti
(c’erano anche le cosiddette collegiate
insigni), nonché per porsi alle
dirette dipendenze della S. Sede, cui spettava la collazione dei canonicati
vacanti nei primi sei mesi dell’anno, o del vescovo, per i secondi sei mesi. Di
tale stato di fatto ci si rese conto quando si trattò di esibire le copie
legali di erezione e del regio assenso, requisiti essenziali per il
riconoscimento giuridico di una
collegiata:
molte non possedevano i titoli e non poche furono le disquisizioni polemiche
tra i vescovi che ci tenevano a classificarle per collegiate ed il Ministero,
che non voleva rinunciare a prove probanti, se non altro per rivendicarne
l’origine laicale di ex ricettizie
.
La questione si protrasse fino alla Convenzione del 1839, con la quale si
affrontavano tutti quei problemi che erano stati tralasciati nel Concordato del
1818: dalle immunità ecclesiastiche (i preti condannati per reati comuni per i
quali era prevista la dissacrazione) alla riduzione del patrimonio sacro per le
ordinazioni (da 80 a 24 ducati per 15 anni), dalla classificazione delle
collegiate alla soppressione dei benefici semplici sforniti di atto originario,
dai beni e rendite e abbazie concistoriali alle interpretazioni dei decreti 1°
dicembre 1833 sulla alienazione dei beni ecclesiastici. Per le collegiate, che
poi altro non erano che ricettizie, ci si contentò alla fine di prove
suppletorie (art. 2) delle quali almeno una fosse a favore della collegialità
.
Bibliografia. – La Società religiosa nell’età moderna. Atti del Convegno studi di
Storia sociale e religiosa. Capaccio-Paestum, 18-21 maggio 1972, Napoli, Guida
Editori, 1973. 161-162.
=// Collegiata: Derivato di collegium, "collegio". È la chiesa
che ha un capitolo di canonici (collegio), senza essere sede vescovile. || Collegiata
di Seminara: fu istituita in Seminara intorno all’anno 1658. In questa
scheda provvisoria tento di raccogliere notizie sparse per descrivere questa
importante istituzione, forse la più importante in Seminara. Il suo fondatore è
Domenico Martello che lasciò nel suo testamento i capitali necessari.
L’istituzione in Seminara della Insigne Collegiata avrebbe una sua specificità
in quanto sarebbe un riconoscimento della precedente dignità di sede vescovile.
Nei Bollari di Mileto, regestati dal Lobstein, troviamo (n. 45) che in data 29
luglio 1669 che la Insigne secolare collegiata era stata istituita nella
maggior chiesa dedicata all’Immacolata Concezione. A circa dieci anni dalla
fondazione la collegiata consta di una dignità arcidiaconale e sette
canonicati. “Il Vescovo erige cinque nuove prebende canoniche, attingendo i redditi
dai legati delle furono Diana De Franco e Maria de Fiore in favore del can.
Pietro de Fiore nonché dai frutti del giuspatronato di D. Antonio Baldari”.
Sono nominati canonici in prima istituzione don Giovan Andrea Rossi, il
suddiacono Francesco Teotino, il chierico Antonio Longo, don Tomaso Silipigni e
il diacono Domenico Casari.
D.
Duca: titolo nobiliare. Dice Placido
Troyli «che da Carlo V in poi si è accresciuto in tal guisa il numero de’
Duchi, che fino a trecentoventi oggidì se ne contano». Citando a sua volta il
Ricciardo dà l’elenco dei Duchi del Regno esistenti nell’anno 1732. Per
Seminara sono indicati gli Spinelli.
Domenicani (P.P.): convento.
Ne riferisce Tiberio d’Aquino nel Manoscritto sul terremoto ed era ancora in
attività nel 1783. Pure nome di una delle 32 chiese elencate dallo stesso. ||
Sotto il titolo di S. Maria del Rosario, il convento dei Domenicani fu fondato,
secondo Saverio Gioffrè, nel 1665, ma la chiesa del Rosario esiste in Seminara
fin dal 1608 almeno, come risulta dal libro parrocchiale dei matrimoni.
Ducal corte: con questo nome
si trovano spesso testi di sentenze, conservate nell’Archivio parrocchiale. Dal
codice Marco 24a si apprende anche che nel 1569 era proprietaria di un fondo
confinante con un fondo comprato in quell’anno da Giovanni Vincenzo Filippone.
| Nel catasto onciario si parla ancora di una Corte Baronale alla quale erano
dovuti censi perpetui.
E.
Enfiteusi: « Forma
antichissima di contratto, analoga al rapporto feudale di vassallaggio, per cui
il dominio diretto, cioè il proprietario esclusivo di un fond lo cedeva ad un
prezzo relativamente basso, con l’obbligo,per l’enfiteuta, di corrispondere
ogni anno un censo, o canone, detto appunto enfiteutico, talvolta
perpetuo,talvolta redimibile, non prima dei trenta anni. Poiché il dominio
enfiteutico si poteva trasmettere agli eredi aventi diritto, la concessione
enfiteutica portava, quasi sempre, alla polverizzazione della terra, attraverso
la suddivisione progressiva delle quote con danno dell’economia agraria in
complesso. Si aveva però il vantaggio di un più facile accesso all’acquisto
della terra da parte del contadino piccolo risparmiatore; la intensificazione
delle colture; la libera iniziativa nella gestione agraria del fondo; l’aumento
dell’impiego della mano d’opera; il ripopolamento delle campagne; lo sviluppo
demografico etc. Il fondo ritornava però al dominio diretto se l’enfiteuta, per
un certo numero di anni, generalmente tre, non assolveva all’impegno di versare
il canone dovuto. Restava di piena proprietà dell’enfiteuta se questi, per
contratto, aveva la possibilità di riscattare il fondo da ogni censo, versando
dopo trenta o altro numer di anni, una certa somma (riluizione) al domino
diretto”; cfr. F. L. ODDO, Dizionario di antiche istituzioni siciliane,
Flaccovio, Palermo, 1983, p. 70.».
Feudo rustico. Il feudo
“rustico” rinvia a una nozione di terra “disabitata” dove non esistono usi
civici che spettano ai singoli cittadini. Così si evince dal seguente testo esplicativo:
«Feudo rustico
– feudo castrense - Gli usi civici spettano ai cittadini uti singuli; l’azione
che essi esercitano iure proprio non è,
quindi, soggetta alle condizioni
richieste dalla legge comunale e provinciale per l’azione popolare. Per diritto
feudale, gli usi civici si costituivano sulle terre nelle quali la popolazione
preesisteva alla infeudazione; invece la popolazione sopraggiunta in epoca
posteriore alla investitura feudale di terra disabitata (feudo rustico) non
godeva di usi civici se non quando vi era chiamata per effetto della potestas
coadiuvandi concessa ai feudatari. La denominazione di castrum o castellum,
riferita ad una terra che per altri elementi è da ritenere disabitata, può far
presumere che la terra stessa fosse fortificata e difesa da militi al servizio
del feudatario e costituisse feudum castrense nel quale, se pure esistevano
abitazioni, non potevano queste
confondersi con quelle della popolazione dei feudi abitati o nobili, la quale
godeva degli usi civici ut ne fame pereat ne vitam inermen ducat, mentre ai
militi stipendiati e vettovagliati dal loro signore e dimoranti saltuariamente la terra
non propria, non competevano tali diritti - Commiss. Usi civici Napoli, 30
gennaio 1928, Lapensa c. Fondo culto, in Rep. Fo. It. , 1928, n. 20-22, e
pubbl. in Riv. Demani ecc., 1928, 137». Nel catasto onciario, a 5r, don
Antonio d’Alessandro “possiede” nel territorio di Seminara “feudo rustico” detto do Monturno sei Sidaro
che si estende per tomolate 130 circa.
Filareto (S.): monastero
basiliano. Ne riferisce Tiberio d’Aquino nel Manoscritto sul terremoto ed era
ancora in attività nel 1783. Pure nome di una delle 32 chiese elencate dallo
stesso.
Francesco di Assisi (S.):
convento nominato nella narrazione di Tiberio d’Aquino. Dei presenti non si
salvò nessuno nel terremoto del 1783. Con questo nome è pure indicato un
trappeto nei cui pressi vennero edificate baracche di fortuna nei primi giorni
dal terremoto. Pure nome di una delle 32 chiese elencate da Tiberio d’Aquino
nel suo Manoscritto sul terremoto del 1783. || Il convento di S. Francesco dei
Minori conventuali fu il più antico in Seminara, dopo quelli dei Basiliani. Fu
fondato nel 1317. Da Saverio Gioffrè. ||
Francesco, san, da Paola: religioso. Nato
nel 1416 a Paola, in Calabria, Francesco fu prima minorita, poi fondatore d'un
nuovo ramo dello spirito apostolico francescano, che chiamò dei Frati Minimi.
Tra il 1453 e il 1464 fonda i due conventi di Corigliano Calabro (CS) e
Spezzano(CS). Nel 1464 attraversa lo stretto di Messina sul suo mantello per
andare in Sicilia, dove opera altri miracoli; tra i quali la restituzione alla
vita di un ragazzo che penzolava da un capestro da tre giorni. Durante il
viaggio per la Sicilia fonda un convento a Milazzo (ME) e opera il miracolo
della moltiplicazione dei pani. Nel 1470 torna in Calabria, ove riceve un messo
del Papa, che conosciuta la sua fama, volle accertarsi dei suoi miracoli, visto
il pullulare in quel tempo di imbroglioni. Durante la sua visita il messo
papale è testimone del miracolo dei carboni ardenti che il Santo gli porge a
mani nude senza scottarsi. Nel 1481 calunniato presso la corte del Re di
Napoli, accoglie con bontà i soldati che erano andati ad arrestarlo. Chiamato a
giudizio davanti allo stesso Re di Napoli spezza in due una moneta d'oro
facendo uscire dalla stesa sangue umano alle parole "Sire questo denaro è
pieno di sangue". Luigi XI, re di Francia, gravemente malato di una
malattia incurabile, sentito parlare del frate lo volle presso di sé, ma fu
necessario un ordine di Papa Sisto IV per indurre il frate a lasciare la sua
Calabria. Nel 1482 Francesco giunge in Francia, dove in breve tempo fece
diffondere il nuovo Ordine e dove il 2 aprile 1508 morì a Tours. (Da Internet).
G.
Giuspatronati
seminaresi: si ha notizia documentaria della costituzione dei
seguenti Giuspatronati, o benefici, in Seminara: 1°) A favore della chiesa di S.
Pietro, edificata parrebbe da Girolamo Aquino, forse agli inizi del
Seicento, fu costituito un beneficio di 15 ducati da Petronilla d’Aquino sui
beni di S. Vito, che a lei erano pervenuti in eredità dalle porzioni riunite
del fondo costitituito da Girolamo Aquino. Per i dettagli dell’istituto vedi Pietro:
chiesa di San –. 2°) Sulla chiesa di S. Antonio esisteva il giuspatronato
della famiglia Ruffo di Sinopoli; vedi reg. Mileto. 3°) Sulla Cappella di S.
Leonardo dentro la chiesa di S. Leonardo era stato costituito un
beneficio a favore dei discendenti di Nunzio Gioffré; vedi Reg. Mileto. 4°) Un
beneficio dedicato a S. Giuseppe, eretto ex novo nella chiesa
dello Spirito Santo, veniva istituito nel 1684 da Giuseppe Theotino. Vedi Reg.
Mileto. In data 24 giugno 1690 il beneficio era riassegnato al chierico
Francesco Clemente su presentazione del Mag.co Lupo Teotino. 5°) In data 15
febbraio 1685 esisteva già da tempo un “beneficio semplice di giuspatronato
della famiglia Marzano, dedicato alla SS.ma Annunziata, nella chiesa di S.
Maria delle Monache”, come si apprende da reg. Mileto n. 184. 6°) Da n. 214
reg. Mil., in data 14 maggio 1687 si apprende: “Ad istanza del chierico
Giuseppe Cozza della città di Seminara, il Vescovo autorizza l’erezione nella
chiesa dello Spirito Santo di detta città di un beneficio semplice, di
giuspatronato della sua famiglia, dedicato al SS.mo Crocefisso, e
la sua propria presentazione, in prima istituzione, quale cappellano”. 7°) Da
Reg. Mil. n. 216, del 15 maggio 1687, si apprende: “Ad istanza del rev.do D.
Antonino Gioffrè, canonico della collegiata di Seminara, il Vescovo autorizza
l’erezione nella chiesa dello Spirito Santo di detta città di un beneficio
semplice di giuspatronato della sua famiglia, dedicato alla Natività di Nostro
Signore Gesù Cristo, e la presentazione, in prima istituzione, quale
cappellano, del chierico Antonino Calogero”. 8°) Da Reg. Mil. n. 251, del 23
maggio 1689, si apprende: “Ad istanza di Cristina e Giacomo Cavallo della città
di Seminara, il Vescovo autorizza l’erezione nella chiesa collegiata di detta
città di un beneficio semplice di giuspatronato della loro famiglia nella
cappella della Presentazione della Beata Maria Vergine e la presentazione, in
prima istituzione, quale cappellano, dello stesso chierico Giacomo Cavallo”. ||
Da Reg. Mil. 292 del 28 aprile 1691 si apprende indirettamente dell’esistenza
di due giuspatronati laici, l’uno: 9°) dedicato a S. Filareto e
l’altro: 10°) a S. Giovanni Teologo. Ne era beneficiario il
chierico ill.mo signor D. Giovanni Battista Spinelli duca di Seminara. Detti
benefici si rendevano vacanti perché il chierico don G.B. Spinelli seguiva matrimonio.
I benefici vacanti venivano riassegnati all’ill. suddiacono Don Paolo Spinelli,
cavaliere napoletano. Presentatore mediante procura era l’ecc.mo signor D.
Filippo Antonio Spinelli principe di Cariati e duca di Seminara. || 11°) Dal
regesto dei Bollari dei vescovi di Mileto redatto da Franz von Lobstein si
apprende dell’esistenza di un giustapatronato della famiglia Fallari per il
quale in data 22 febbraio 1675 furono spedite Bolle formali in favore di don
Tomaso Silipigni, canonico di Seminara. Il giuspatronato era dedicato ai SS.
Filippo e Giacomo e a S. Pietro in Vincoli. Don Silipigni era presentato da
Paola Fallari, erede del fu Onofrio Fallari. Il giuspatronato era vacante per
la morte di don Antonio Pifano. Cfr. n° 110, p. 30 del volume edito dalla
Accademia Olumbrense in Pietrabissara nel 1998.
I.
Industria: con questo
termine si trova indicato il gravame sui redditi da lavoro imposto ai soli
uomini a decorrere dai quattordici anni.
M.
Magnifico:
«
Ai benestanti venivano attribuiti i
seguenti titoli: magnifico e magnifico don. Quindi, i magnifici di Orsara, come
tutti gli altri del Regno, non erano borghesi. Il titolo di
"magnifico" veniva, quindi, attribuito ai massari, ai viventi del
proprio in genere, allorquando ci si trovava di fronte ad un cospicuo
patrimonio. Il "magnifico don" rappresentava qualcosa in più, che
andava cercato nel decoro, nello stile di vita, che li avvicinava ai viventi
more nobilium.» (
fonte).
||
Magnifici: erano così detti i grossi agricoltori
che possedevano un notevole numero di animali da lavoro e coltivavano una
maggiore quantità di terre, di loro proprietà o prese in affitto. In tal caso,
i contratti di affitto, stipulati di regola su base sessennale, comportavano
normalmente l’intervento di una garanzia, o “idonea pleggeria”, prestata da
borghesi, commercianti, ecclesiastici, ecc. Nel catasto onciario di Ariano
Irpino figurano i seguenti appellativi, denotante uno stato sociale in ordine
crescente «magnifico», «don», «magnifico don», «signor don». Quelo di magnifico
era dato ai mercanti. Avendo i magnifici una certa disponibilità di denaro,
erano in grado di contrarre debiti e fornire prestiti. Non abitavano «case
sottane», cioè composte del solo pianterreno, ma «palazzi» o «case palazziate»
(v.) o «soprane», cioè fornite di stanze poste al piano superiore. Tali case
rispondevano ad esigenze di funzionalità, non solo di estetica. A volte avevano
annesso un giardino, che conferiva un tono di nobiltà all’insieme; altre volte
avevano un orto, che arricchiva il regime alimentare delle famiglie. Nel
Settecento, i magnifici cominciarono a seguire le mode in voga nelle città e
specialmente nella capitale. Non tutti gli agricoltori ricchi erano
“magnifici”, dato che tale qualifica comportava una distinzione sociale, oltre
che economica. Nel corso del secolo, magnifici e negozianti di campagna si
inserirono nel ceto dei “galantuomini”, «tendendo ad imitare stili di vita e
comportamenti fino ad allora propri delle sole élites urbane». Da Orlandi, che
cita Pelizzari.
Monteleone: è l’odierna Vibo Valenzia,
non distante da Tropea, ma sita all’interno ed attraversata dalla strada
principale che allacciava il nord dal sud della regione e quindi in una
posizione geografica strategicamente rilevante.
N.
Nobiltà: nel Regno di Napoli la
disciplina dello status nobiliare è regolato in epoca recente dalla legge del
25 gennaio 1756 di re Carlo di Borbone «dichiarativa dei vari gradi di
nobiltà», la quale sanciva: 1) Che prima di ogni altra cosa si sappia per
governo di ognuno per uno incontrastabile che la nobiltà ne’ suoi Reali domini
si ritrova stabilita in tre differenti classi. 2) La prima consiste nella
nobiltà che chiamano generosa e si verifica allorquando nella continuata serie
dei secoli una famiglia è giunta a possedere qualche feudo nobile o che per
legittime pruove costi di ritrovarsi la medesima ammessa tra le famiglie nobili
di una città regia, nella quale sia una vera separazione dalle civili, e molto
più dalle famiglie popolari. O pure sempre che abbia l’origine da qualche ascendente,
il quale per la gloriosa carriera delle armi, della toga, della chiesa o della
corte avesse ottenuto qualche distinto e superiore impiego o dignità e che li
suoi discendenti per lo corso di lunghissimo tempo si fossero mantenuti
nobilmente facendo onorati parentadi senza mai discendere ad uffici civili, e
popolari né di arti meccaniche ed ignobili. 3) La seconda classe di nobiltà è
quella la quale si dice di privilegio e la godono tutti coloro i quali per i
loro meriti e servizi personali prestati alla corona e allo stato giungono ad
essere promossi dalla munificenza dei principi a gradi maggiori ed onorifici
della milizia, della toga, e della corte; dovendo in questa classe di nobili
per privilegio essere considerati e compresi tutti gli uffici militari maggiori
e minori, e quelli i quali anche nelle altre classi di stato maggiore
dell’esercito, come nella carriera ecclesiastica, e delle lettere, e altre
classi di regal servizio, e governo di stato, giungono ad ottenere decorosi
impieghi, i quali imprimono carattere o che sieno di equivalente sfera colla
distinzione ed ordine che richiede per la sua qualità il differente maggiore o
minor rango di ciascuno. 4) E la terza classe di quelli, che si reputano
nobili, è quella chiamata legale ossia civile, nel quale rango si reputano
tutti quelli che facciano costare, avere, così come quelli, il loro padre ed
avo, vissuto sempre civilmente e con decoro e comodità, e che senza esercitare
cariche né impieghi bassi e popolari sono stati stimati gli uni e gli altri
nell’idea del pubblico per uomini onorati e da bene. Con Real Dispaccio del 16
ottobre 1743 si era disposto che per il tempo notabile ad acquistare la nobiltà
si richiede che il pretensore e il di lui padre ed avo abbiano vissuto
nobilmente senza aver mai esercitato uffizii o arti vili. Con Real Dispaccio
del 24 luglio 1758 ed del 7 maggio 1795 si disciplinò il godimento degli onori
della prima classe di nobiltà generosa per gli uffiziali delle Reali Segreterie
di Stato e per i loro figliuoli.
Bibliografia. – Bollari dei vescovi di Gerace, a cura di Franz von Lobstein con una
saggio introduttivo di Giuseppe Sorge, Chiaravalle Centrale, edizioni effeemme,
1977, pp. 22-23 e passim.
O.
Oncia: antica unità di peso e moneta di
conto, su cui era basato nel Settecento l’istituzione del catasto.
Osservanti: minori osservanti, o assolutamente osservanti sono detti i frati di una delle tre famiglie dell’ordine
dei francescani (v.), detti più comunemente frati minori o francescani.
R.
Rivela: «
La Rivela era un atto obbligatorio e vi erano obblighi
per il rivelante. Egli doveva presentare la Rivela anche se nullatenente e
sessagenario. Doveva, inoltre, descrivere tutte le persone conviventi
indicandone anche la provenienza geografica. Chi non lo faceva, andava incontro
a molteplici sanzioni:
a) qualifica di spergiuro; b) pena di falso;
c) incorporazione dei beni non rivelati (se vi è stata malafede); d) pagamento
della somma di ducati 25 (in caso non si possedessero beni da incorporare).»
(
fonte).
||
Rivele: è la dichiarazione fiscale fatta dai
censiti nella redazione del catasto onciario. Tale dichiarazione veniva
esaminata da una commissione di esperte che emetteva una sua propria
valutazione economica detta “apprezzo”. ||
Si riporta
qui per maggiore evidenza quanto già contenuto nella voce “catasto onciario”
alla quale si rinvia per un più ampio contesto dell’istituto della “rivela”: «Le
Rivele, regolate dall’apposito bando erano abbastanza simili al nostro modello
740, e andavano redatte secondo un modulo dettato nelle Istruzioni. Ogni rivela
è espressa in prima persona da ogni cittadino, anche se non possessore di beni.
Si apre con lo stato di famiglia: nome, cognome, relazione di parentela,
patria, arte o condizione, età. Inoltre andavano indicate le figlie sposate,
anche se non conviventi, ed eventuali servi o garzoni. Esse contenevano anche
altre indicazioni: i beni mobili ed immobili, i pesi cioè le passività in
genere ed infine
S.
Somaro: è considerato una
fonte di reddito e come tale viene tassato per una rendita stimata di sei
ducati l'anno.
Suffeudo: Da Treccani: «In età medievale, feudo concesso dal vassallo a un
vassallo inferiore.» Sappiamo da 5r che don Antonio d’Alessandro pagava
l'adoa all'Università di Seminara come suo suffeudo.
U.
Utrinque: dal latino, utrimque,
ossia dai due lati, da entrambe le parti. Lo si usa nel Catasto per indicare
fratelli e sorelle nate da entrambi gli stessi genitori. La distinzione ha una
sua importanza nel diritto successorio.
T.
Testatico: era un gravame
imposto sul capofamiglia, per ogni fuoco, e durava fino al compimento del
sessantesimo anno di età.
Tomolata. Per le
estensioni erano in uso diverse unità di misura, tra cui la “tumanata” che
equivaleva a circa 63 are, esattamente 62,57, ed un'ara è uguale a 100 mq. Don
Antonio d’Alessandro (5r) possiede un fondo rustico di circa 130 tomolate, che
sarebbero circa 81 ettari. Per altri antiche unità di misura, in uso nel Regno
delle Due Sicilie, fino al XIX secolo, ed ancora oggi presenti nella memoria
popolare si veda
qui, da dove
attingeremo per altre specifiche.
Torri di guardia: avevano un
significato sempre ed esclusivamente difensivo. | A Seminara è nota la Torre
Spinelli, che oggi dù il nome a una via che segna il confine amministrativo fra
Palmi e Seminara. Per l'anno 1671 l'Archivio parrocchiale narra di un episodio violento
con morti. Le pagine successive sono state strappate, secondo un uso ancora
oggi frequente.
V.
Vaticali: mulattieri, che con i loro
muli e i loro carri portavano nei mercati vicini la scarsa quantità di prodotti
che i contadini erano in grado di destinare allo scambio.
Virgines in capillis: stricto sensu si
definiscono “virgines in capillis” le giovani nubili che “per segno di
illibatezza dovevano portare i capelli raccolti e non scioglierli che il giorno
delle nozze” (Da Ungari citato da Mafrici).